Mental Health - True Stories Series.
2018. A True Story of Schizophrenia
Index: Part I (Igitur, ou la folie d’Elbehnon)
Dulcinea del
Toboso I (Don Chisciotte de la
Mancha)
Dulcinea del
Toboso II (L'azur ! l'azur ! l'azur ! l'azur !)
Dulcinea del
Toboso III (Una sola moltitudine)
Dulcinea del
Toboso IV (Faust II : Den Mutter !)
Dulcinea del
Toboso V (Magnes sive De Arte Magnetica)
Part II (Marcel, invisible, re-monte un escalier)
Dulcinea del
Toboso VI (The Faerie Queene)
Dulcinea del
Toboso VII (The Creative Act : Marcel Duchamp)
Dulcinea del
Toboso VIII (Ulysses : An Incredible Bloomsday)
Dulcinea del
Toboso IX (Dissolution)
Dulcinea del Toboso X (Epilogue)
avvertenza:
La storia qui narrata è un’avventura mentale.
È disposta su più piani, ognuno
dei quali può essere indagato e percorso anche grazie alle indicazioni
bibliografiche e alle note a piè pagina. Ovviamente in ciascuno di questi piani[1] vi si
incrociano e intrecciano anche parti degli altri[2]; il
che vuol dire che l’interpretazione spesso rimane aperta a qualsiasi
significato, che dipende dall’osservatore-lettore: c'est la loi de l’hasard,
quella mirabilmente espressa da Marcel Duchamp.
Il testo, infatti, è costellato
di interrogativi e di momenti di sospensione, a cui a volte non può darsi una spiegazione
se non risalendo alle fonti che il testo stesso fornisce. Rimane comunque un
testo volutamente ‘non finito’ affinché possa dar luogo alle interpretazioni le
più disparate.
interests:
James
Joyce, Mental Health, Schizophrenia, Johann Wolfgang von Goethe, Georges
Bataille, Fernando Pessoa, Stéphane Mallarmé, Philosophy of Love, Edmund
Spenser, Marcel Duchamp, Don Chisciotte, Sociology of Emotions, Sacred Space,
Inframince, James Joyce's Ulysses, Athanasius Kircher, Wolfgang Amadeus Mozart,
Sociology of Love, Miguel De Cervantes Saavedra, The Faerie Queene, Art and
Mental Sciences, Bloomsday, Il Grande Vetro, Quarta Dimensione, Dulcinea Del
Toboso, Igitur, ou la folie d’Elbehnon, The Creative Act and Mozart en ré
mineur.
part i
(Igitur, ou la folie d’Elbehnon)
Dulcinea del Toboso I
Dulcinea del Toboso I
(Don Chisciotte de la Mancha)
¿Aldonza? ¿quién eres tú? ¿tiene usted lo que estoy buscando? no lo creo..
Me voy a morir de amor.. me voy a morir de amor por Dulcinea ;
Pero tù no es Dulcinea..
por lo tanto, me voy a morir.. también sin amor..
(M, Ober 2th, 2017)
E così
cominciarono a far fuoco di tutti i suoi libri, ormai considerati, tra le
persone che lo conoscevano, quale unica fonte e ragione della sua
‘straordinaria’ follia.
Dopo un breve
sopralluogo nei posti ove maggiormente si trovavano quelli d’uso quotidiano (in
cucina, sulla scrivania dello studio, sul comodino nella stanza da letto e, un
po’ dappertutto, anche in bagno), Fabrizio, d’accordo con la moglie di M,
decise che quei libri sarebbero stati tra i primi ad essere inceneriti.
Così, raccolti
alla rinfusa tutti quelli che si trovavano in quel momento nella stanza da
letto, il primo libro a essere immolato fu l’Anti-Edipo che,
abbondantemente sottolineato, conteneva ancora tra le pagine alcuni post-it
pieni di appunti. Quel che Fabrizio provò a leggere in quel libro, senza però
capirvi nulla, riguardava alcune note sul concetto di ‘macchina desiderante’,
con moltissimi rimandi al Grand Verre di Marcel Duchamp e, anche se in
misura minore, al Faust (il
secondo Faust, come specificato), a un’opera, credo
sconosciuta perché incompiuta, intitolata Igitur, ou la folie d’Elbehnon di Stéphane Mallarmé e, strano a
dirsi, al Don Giovanni di Mozart.
Il titolo del
libro, però, insieme a quelle insistenti e maniacali sottolineature sotto la
frase ‘macchina desiderante’, già bastavano a Fabrizio per considerarlo un
libro degno del fuoco, perché anch’esso doveva certamente aver contribuito alla
‘strana’ follia del suo stimato amico.
Fabrizio, d’altronde,
un medico pediatra da tanti anni amico di M, con cui gli piaceva andare in giro
per Roma per mostre e convegni d’arte, voleva solo onorare al meglio
l’incombente incarico che in quel momento la moglie di M gli aveva pregato di
prendersi, ossia quello di fare una prima cernita dei libri da incenerire
secondo quanto richiesto dall’ospedale psichiatrico dove M era in cura.
La moglie di M,
in effetti, aveva da poco ricevuto un promemoria dell’ospedale psichiatrico
Villa Divino Amore (l’ex San Valentino, sulla Cassia giustinianense), che
riguardava sia le modalità che la durata del ricovero del marito.
Difatti, subito
sotto le indicazioni sull’igiene e sulle necessità materiali del paziente, una
marcata cancellatura a penna, sovrastata da una nota scritta a mano a caratteri
cubitali, destò stupore e vivo sconcerto tra i suoi familiari perché, se ad
altri pazienti era consentito l’uso di libri, riviste e tutto l’occorrente per
scrivere, per M erano tassativamente vietate non solo la lettura e la scrittura,
ma anche l’ascolto di musica. Sempre a penna, inoltre, v’era stato aggiunto l’inquietante
appunto:
«L’opportunità
del caso richiederebbe anche la distruzione, o la scomparsa, di tutti i libri
del paziente prima del suo rientro in famiglia».
Nel leggere
questa brutale nota, i figli piansero, pensando che il padre fosse realmente in
un grave stato di salute psichica. La moglie di M, su questo, per il momento
non volle commentare, per non aggravare lo sconforto dei ragazzi; ma come
riuscì a star sola e a chiamare l’ospedale, piangendo sommessamente chiese
all’operatore di turno: «Ma come! Nessun libro da leggere? E nessuna
possibilità di scrivere qualcosa? Ma vi rendete conto cosa chiedete? Riuscite a
capire cosa significa tutto questo per mio marito? Mi scusi tanto.. ma sa
perché glielo dico? Perché quel che ora volete negargli è la sua vita.. e non
credo che senza leggere o scrivere sia in grado di resistere».
Dall’altra parte
del telefono, intanto, l’operatore, che avrebbe voluto metterla in contatto con
il dt. Mentòre, il medico psichiatra che teneva in cura M, non riusciva a
spiegarle che, forse, qualcosa era possibile concedere al marito. Ma tante le
lacrime e i singhiozzi che in quel momento la signora non riusciva a tenere a
freno, non permisero a quello di finire la frase, perché, ormai in preda ad un
pianto irrefrenabile, la povera donna subito dopo chiudeva la telefonata.
Dopo l’Anti-Edipo,
quindi, ad ardere nel fuoco fu il Don Chisciotte, ma solo il
primo tomo, in una vecchia ma discreta edizione della collana Grandi Libri
Garzanti. Anch’esso, infatti, era abbondantemente sottolineato, soprattutto nei
punti che riguardavano i modi di dire un po’ antiquati cervantini (che spesso
ritroveremo in seguito anche negli scritti di M, come, ad esempio, la frase ‘se
così sembra che sia’) e nelle stupefacenti circonlocuzioni riferite alla
meravigliosa Dulcinea del Toboso, superlativa creazione mentale dello strambo e
immaginifico cavaliere errante, il cui nome però si ritrova spesso accompagnato
dall’incomprensibile sequenza di lettere maiuscole, scritta tra parentesi e a
matita, con tratto leggero e quasi invisibile: ‘ddt’.
La scelta di
Fabrizio di dare alle fiamme anche il Chisciotte, all’apparenza un libro
innocuo per la salute mentale di chiunque e quindi anche di M, fu dunque
determinata dal fatto che questo libro, come molti altri, era ‘troppo sottolineato’,
e quindi, come tale, in qualche modo ‘studiato’ e dunque probabilmente
anch’esso all’origine dello stato mentale in cui si trovava il suo amico.
Il criterio di
scelta che il medico pediatra s’era dato era pertanto, seguendo alla lettera le
indicazioni dell’ospedale, quello di far sparire tutti quei libri che potevano
aver causato la ‘strana’ follia dello ‘strano’ paziente ivi ricoverato e, con
incredibile e superficiale sillogismo, anche il Chisciotte era, per il
‘medico’ Fabrizio, all’origine dell’inspiegabile spersonalizzazione che ora
affliggeva M.
Il camino,
intanto, si andava riempiendo di altri libri.
Tra quelli più a
portata di mano, e dunque subito pronti per essere inceneriti, ve n’erano
alcuni ancora nuovi e appena sfogliati, come Un Karma pesante della
Bignardi, forse un regalo, segnato da una lunga diagonale a penna nera sul
frontespizio, un Meridiani, praticamente intonso, con tutte le opere di
Hemingway e una nuova edizione Adelphi del Siddharta, con alcune pagine costellate
solo di punti interrogativi e due brevi diagonali sul titolo nel frontespizio; altri
libri, invece, assai lisi dall’uso frequente e riccamente annotati ai margini,
sembravano testimoniare l’ossessione maniacale con cui erano stati letti. Tra
questi ultimi v’erano anche alcuni vecchissimi manuali di liceo, come la Storia moderna
del Villari e il terzo volume dell’Adorno Gregory Verra, probabilmente
usati recentemente da M solo per consultarne alcune pagine. Su quest’ultimo, d’altronde,
v’era un post-it quasi nuovo, incollato tra le pagine su Heidegger[3], che riportava
ancora una volta alcuni passi del Faust (o meglio, dell’Ur-Faust)
relativi questi alla Notte di Valpurga,
e specificamente la frase, scritta in rosso e sottolineata due volte:
Mirala bene! Ell’è Lilith
accompagnata,
subito sotto, da quest’altra nota scritta a matita:
Sta in
guardia dai suoi bei capelli,
Da
quello splendore che solo la veste.
Fai
che abbia avvinto un giovane con quelli,
E ce
ne vuole prima che lo lasci.
Fu così che tra
i libri che sembravano essere d’uso quotidiano, e quindi pronti ora per essere
immolati nel fuoco, uno in particolare destò l’attenzione di Fabrizio, sia per
l’importanza del libro sia per l’abbondanza di post-it e di annotazioni e
postille all’interno.
In quel preciso
istante, in effetti, sarebbe dovuta essere la volta del secondo Faust,
che il medico pediatra, avendolo ora tra le mani, andava ghiottamente
sfogliando soffermandosi sulle numerose postille a margine, tutte scritte in
minuto stampatello, con rimandi alla musica di Mozart, al Don Giovanni soprattutto,
all’Igitur di Mallarmé, al De rerum natura e, strano a dirsi, al Grande
Vetro di Marcel Duchamp, a tal punto che, sfogliando il libro, Fabrizio non
riusciva più a smettere di leggere.
Un passo
particolarmente annotato e ricco di glosse sulla musica di Mozart, era quello
riguardante l’episodio della nascita di Euforione, il cosiddetto Arcadia
(o Bosco ombroso), dove Faust, in mistiche nozze con l’Elena paridéa, nome
accompagnato spesso dalla sigla ‘ddt’,
nel breve giro di trecento versi vede nascere, volare e morire questo suo
figlio: ‘un’idea’, era riportato a
margine.
Un rimando
bibliografico a un certo Magnani, Goethe, Beethoven e il demonico, era
accompagnato dalla nota, con sottolineatura doppia: ‘cfr. viaggio alle madri, faust ii, v. 6265, e igitur’.
Nel libro, poi,
Fabrizio rinvenne un altro post-it con su scritto questa nota incomprensibile e
all’apparenza completamente slegata dal contesto faustiano:
La
vita? L’amore.. la sofferenza ch’esso procura, la noia e il fastidio di dover
pensare ad altro, il senso e la voglia di non-essere più o trasformarsi in
qualcos’altro che lieviti e non trattenga più il terreno sotto i propri piedi,
e così sostenere, coerentemente, che quello sia l’unico speciale oggetto del
proprio desiderio che mai sarà sostituito con altri perché a quello ci si vota
per sempre, fino a che, riappacificatisi col mondo attraverso la morte, si
ri-torna a possederlo, re-immergendosi e ri-confondendosi in lui attraverso la
materia informe.
In basso a
destra la nota ‘cfr. bataille, l’informe’
chiudeva il post-it.
Senza farsi
accorgere dalla moglie di M, Fabrizio, in un evidente ‘raptus di follia’, volle
così nascondere il libro nella sua borsa da medico, e dunque risparmiare il
volume goethiano (così alacremente postillato) dal potere distruttivo e
violento delle fiamme.
Fu poi la volta
di Fernando Pessoa, del grandissimo Fernando, o meglio, dei grandi eteronimi di
Fernando Pessoa [letto con passione, l’ho conosciuto ed amato anch’io - ndr].
Una sola moltitudine, in due volumi, prese ben presto fuoco insieme ai
numerosi post-it all’interno. Probabilmente questi due libri potevano
effettivamente ricondurre all’origine della ‘strana’ follia di M, perché, dopo
aver letto, barrata con tre verticali ai margini laterali, la frase:
Sono
un istero-nevrastenico, ma fortunatamente la mia nevropsicosi è molto debole.
La mia isteria è solo interiore, è solo mia; nella mia vita con me
stesso ho quell’instabilità di sentimenti e di sensazioni, quell’oscillazione
di emotività e di volontà che caratterizzano la nevrosi proteiforme
alla pagina
centodiciassette del primo volume dove inizia la Lettera a due
psichiatri francesi, il medico pediatra, in un irreprensibile e per lui
consono scatto d’ira, letteralmente li scaraventa nel camino, compiacendosi
anche per la sua integerrima fedeltà alle istruzioni impartite dal dt. Mentòre,
direttore e insieme ‘guida morale’ dell’ospedale psichiatrico in cui M era
ricoverato: far fuoco di tutti i libri di M, indubitabilmente all’origine della
sua stranissima malattia.
Così, nel
prosieguo, canettianamente presero fuoco nell’ordine: La commedia della
vanità, un grosso Penguin dal titolo The Faerie Queene, à Rebours, il Dizionario
filosofico di Voltaire, l’Apologia della storia, un vecchissimo Pbe
tutto sottolineato e postillato, Sexual Personae, molto appuntato
soprattutto laddove tratta del Don Juan di lord Byron, Eclisse della
ragione, Dialettica dell’Illuminismo, Eros e civiltà, di cui Fabrizio
lesse di quest’ultimo solo l’etichetta nel retro, ‘maraldi roma - lire ottomila’, L’uomo senza qualità in due volumi, leggiucchiati un po’
dal medico ma, lette alcune postille all’interno, subito gettati nel fuoco,
quattro Pbe di Roland Barthes (La grana della voce, L’ovvio e
l’ottuso, Il grado zero della scrittura, I frammenti di un
discorso amoroso) completamente passati inosservati, un Tutti i racconti
di Lovecraft, il quarto volume in Oscar Mondadori con ricche sottolineature
all’interno, i due volumi dell’Ulisse e il Finnegans wake joyciani,
immediatamente immolati nel fuoco perché il primo era pieno di postille e di
vecchi post-it gialli tra le pagine usurate, motivo già di per sé sufficiente
per essere distrutto, mentre il secondo - e questa fu l’osservazione che fece
Fabrizio ricordandosi di come il libro inizi in minuscolo e finisca senza
punto, cioè un ‘fluidofiume’, come già gli aveva fatto notare M indicandogli la
natura vichiana dello scritto - perché, facendolo boriosamente notare alla
moglie di M, era un libro ‘assurdo’, cioè una semplice ma contorta trascrizione
onomatopeica della realtà. Un libro, dunque, fatto di ‘rumori’, come già gli
aveva fatto notare M, e dunque ‘folle’ per Fabrizio, come ad M, d’altronde,
appariva, ma solo un po’, l’ultimo Joyce, quello dei Finnegans appunto,
superficialmente definito sui generis su Wikipedia, l’utile enciclopedia
telematica a volte soggetta ai giudizi incompleti di alcuni critici improvvisati.
Una nota a
matita sulla seconda di copertina incuriosisce infine Fabrizio, che rapidamente
legge: ‘le veglie di finnegan, ovvero l’uomo come storia di tante e diverse
identità - cfr. anche anti-edipo cap. ii’.
Ma letta, sempre
in seconda di copertina, un’altra vecchia nota a matita agganciata all’Ulisse:
‘ineluttabile modalità del visibile:
almeno questo se non altro, il pensiero attraverso i miei occhi - ulisse iii’,
anche il sui generis Finnegans wake
va.
[1] Reale, mentale, artistico,
fisico, erotico, psichiatrico, letterario, scientifico, filosofico etc.
[2] Si
pensi, ad esempio, ad alcuni quadri di Escher, dove più piani prospettici
intersecanti rendono la comprensione spaziale univoca praticamente impossibile,
perché continuamente contraddetta da prospettive sovrapposte.
[3] In
cui si trova, a mo’ di epigrafe, la frase scritta in rosso: «La grandezza
dell'uomo si misura in base a quel che cerca e all'insistenza con cui egli
resta alla ricerca».
Dulcinea del Toboso II
(L’Azur! l’azur! l’azur! l’azur!)
Le fiamme del camino, intanto,
cominciano a divampare e rapidamente a prender forma mentre Fabrizio, in attesa
che quei primi Ventinove sacrificati all’insaziabilità distruttiva del fuoco
brucino completamente, con un leggero ghigno tra il sadico e il sarcastico
disegnato sulle labbra e una cert’aria da sottile intenditore, corroborata
anche dalla sua integerrima decisione di volersi attenere alle istruzioni che
il dt. Mentòre ha dato - e quindi di ‘aver dovuto’ proprio lui, un medico, dar
fuoco a quei libri - dopo essersi guardato un po’ intorno con fare subdolo e un
po’ ambiguo, comincia a sbirciare tra i libri che ancora lo circondano.
Esperto di cultura bellica e
storia militare, amante di racconti sulle grandi battaglie del passato e
autentico entusiasta e ammiratore del dettagliato Storia della guerra 1870-71 scritto dal geniale feldmaresciallo
prussiano Helmuth von Moltke, sapeva perfettamente che non avrebbe mai trovato
tra i libri di M qualcosa che potesse soddisfare a pieno i suoi gusti. Però, appassionato
anche di letteratura, aveva una certa sensibilità d’animo e non disdegnava di
interessarsi a ciò che M amava leggere né, tantomeno, di cercare di capire
perché il suo stimato amico si fosse ridotto in quello stato di prostrazione fisica
e che cosa, di preciso, potesse essere all’origine di quella sua ‘stranissima’
malattia.
Tra i libri ancora superstiti,
dunque, già pronti e accatastati dai figli di M su cinque pile da trenta e in
attesa d’essere sacrificati alle fiamme - alcuni molto ordinari, o
all’apparenza di poca rilevanza riguardo la malattia dell’amico - Fabrizio va
ora in cerca della prova madre, ossia la causa prima del delirio fantastico e
folle in cui M sembra essere sprofondato.
Sulla prima pila, l’ex seconda pila
ora la più vicina al camino e dunque prossima a prender fuoco, tra i libri più
in alto e più a portata di mano, guardando attentamente Fabrizio scorge e
distingue un voluminoso e graficamente brutto Le grandi opere liriche di Mozart, un’orrenda edizione
dell’ottantacinque dei Fratelli Palumbo (con quelle loro melense copertine
plastificate color rosso fuoco) che difficilmente avrebbe potuto attrarre anche
minimamente un amante di libri. In tal guisa, d’altronde, andava ora
reputandosi il probo medico pediatra.
Tra le sue mani, però, Fabrizio
s’accorge subito che il libro consta di un’introduzione (molto annotata e
sottolineata da M) del sottile e raffinato Goffredo Petrassi e che molti
post-it, sottolineature e rimandi bibliografici si trovano laddove nel libro si
tratta del Don Giovanni. Difatti, i
terzetti di basso in re minore, vera prodigiosa ‘invenzione’ vocale mozartiana
- così in una nota a matita - riportano ai margini tantissimi cfr. al solito Igitur di Mallarmé, al secondo Faust
goethiano e al Nu descendant un escalier
di Marcel Duchamp.
Sempre qui, tuttavia, e
precisamente tra le pagine della scena XVII del cupo e sinistro Finale, in un grande
post-it quasi nuovo Fabrizio è quasi costretto a leggere questa sconcertante postilla:
«Don Giovanni, a cenar teco / m’invitasti, e son
venuto».
Oh, che magnifico annuncio! Che splendida affermazione
di sé riesce a declamare l’incomparabile e incantevole Commendatore, con quelle
evoluzioni vocali e quegli strabilianti salti d’ottava che segnano l’ingresso
dell’inaspettato, dell’inconoscibile, che se al tremebondo Leporello fan calar
le braghe all’empio libertino, anche se dapprima, al cimitero, facevan morir
dal ridere, ora si pongono soprattutto come interessante ed emozionante dilemma!
Ma quel mondo luciferino espresso in re minore, dicevo dunque, quel re minore che mirabilmente s’oppone a
quello luminoso e chiaro del maggiore, non potrebbe anche essere la tonalità
che può accompagnare tutto il gran sogno del mio Igitur per l’assoluto
qual’egli è? D’altronde, anch’io ora miro a sprofondarmi.. e probabilmente morire
e forse rinascere.
La strana glossa, in effetti - e
questo è ciò che appare anche nelle più caute riflessioni di Fabrizio - denota e
manifesta quel turpe desiderio di morte cui ora sembra aneli anche M, un
desiderio di morte, per giunta, vissuto come inconcepibile realizzazione di sé.
Fabrizio, infatti, in quel momento, sbottando, sconcertato esclama:
«Incredibile.. Un uomo di stile.. e di finissima intelligenza che vuol
lasciarsi morire.. è impazzito..
M è completamente impazzito. Ma ci sarà un motivo.. Sì, c’è sicuramente un
motivo..», conclude mestamente fra sé il poco intrepido medico pediatra amico
fraterno di M.
Così, selezionato con un po’
d’acredine e secondo i suoi immaginifici criteri il Mozart, e dunque
rendendolo primo della nuova pila da incenerire, tre vecchi testi della Nuova
Universale Einaudi (un Minima moralia,
un Angelus novus e un vecchissimo Canzoniere edizione sessantaquattro con un’introduzione
dell’illustre Contini), afferrati insieme e senza far caso, sono ora blandamente
nelle mani del medico pediatra, che sfoglia il primo con poco interesse; guarda
l’angelo sulla copertina del secondo, che ovviamente sembra non conoscere
affatto e lo scarta immediatamente dopo aver letto una nota per lui
incomprensibile; si ferma a contemplare vagamente il terzo, che lo incuriosisce
leggermente più per la vetustà del libro che per le quasi inesistenti tracce
mnemoniche ivi incise da M.
Così, sovrapposti i tre NUE al Mozart,
«Roba comunque da incenerire», fu il superficiale commento finale di Fabrizio,
a seguire, e con sempre maggior noncuranza, il medico pediatra agguanta un
blocco di quattro Newton Compton, ossia quattro volumi di quegli stravaganti Paperbacks
freudiani che, molto in voga negli anni Settanta tra i giovani più squattrinati,
appena acquistati facevano ben ridere quando ci si accorgeva che aprendoli venivano
subito sfaldandosi in modo ridicolo tra le mani.
Non molto usati o letti da M, per
la verità, e quasi sicuramente in uso al figlio maggiore ma pur sempre libri
che potevano destare un certo prevedibile sospetto, con quei titoli così
improbabili che mai il profetico ebreo austriaco avrebbe dato ai suoi scritti
(come, ad esempio, Personalità, libertà e amore o Sulla Cocaina),
senza grandi riflessioni del medico pediatra vanno subito a sovrapporsi ai tre
NUE e al Mozart, e così prossimi anch’essi all’incenerimento.
Ma ecco che, improvvisamente, un
bellissimo Guida al Novecento del
mitico Salvatore Guglielmino, di cui Fabrizio riconosce con vivo stupore la
familiare copertina grigia (in terza edizione ampliata del settantuno, su cui
vi aveva studiato anche lui più di quarant’anni prima), è ora tra le mani del
medico pediatra: anch’esso è pieno zeppo di appunti e di vecchi post-it
all’interno, con molte pagine ricche di meticolose sottolineature e note a
margine.
Aperto così il ‘suo’ Guglielmino, e pensando tra sé che
questo libro, che con sua somma gioia lo sta trascinando lentamente verso le
sue reminiscenze giovanili di imberbe liceale mamianense, mai e poi mai avrebbe
potuto essere tra quelli che potevano aver dato origine alla malattia di M,
Fabrizio, con accorta lentezza e genuina curiosità, comincia delicatamente a
sfogliarlo.
Alle pagine trentasette-trentanove
della Sintesi, però, dove in sole tre pagine son trattate la vita e le opere di
Stéphane Mallarmé, poco sotto la nota bibliografica finale un post-it quasi
nuovo con la scritta in maiuscolo accompagnata da un marcato punto esclamativo:
‘dov’è igitur!’ lo incuriosisce.
A margine, intanto, Fabrizio
legge anche la postilla: ‘je suis hanté.
l'azur! l'azur! l'azur! l'azur!’, ben nota poesia mallarméana di cui M
cita solo il finale ma assente anch’essa dalla seconda sezione (l’Antologia)
guglielminense[1]; il che fa porre al medico
pediatra alcuni importanti interrogativi, perché sembra che M avesse recentemente
dedicato alcuni suoi quadri a queste due opere di Mallarmé completamente
ignorate dal Guglielmino.
Igitur, ou la folie d’Elbehnon e Je suis hanté. L'Azur!
L'Azur! L'Azur! I'Azur![2] erano
infatti i titoli che M aveva dato a due dei suoi ultimi dipinti.
Tutto questo, inoltre, conoscendo
perfettamente i quadri in questione ancora nello studio di M, induce Fabrizio a
prenderne nota sulla sua agenda, su cui accuratamente e diligentemente scrive:
‘S. Guglielmino, Guida al Novecento, Il Principato 1971: le opere di Mallarmé,
riferite ai quadri Igitur e Je suis hanté, sono completamente assenti’.
Così, riavvicinandosi di nuovo ai
libri per sbirciarne i titoli, e forse con la speranza di trovare qualche prova
più congrua a giustificazione della malattia di M, a circa metà della seconda
pila, o ex terza pila ora proprio vicina al suo fianco, Fabrizio riesce
casualmente a scorgere l’altro mitico Guglielmino,
ossia l’ineguagliabile e geniale Civiltà letterarie straniere Zanichelli
del settantasei, incredibilmente mai più riedito o ristampato dall’importante
casa editrice.
Utilissimo per preparare il suo
esame di maturità classica, e ora in preda alle rievocazioni del suo brillante
percorso scolastico, con accorta delicatezza e ossequio reverenziale Fabrizio lo
sfila lentamente dalla pila e, messosi comodo in poltrona, dopo averne
sfogliato alcune pagine sull’età romantica, alla numero cento ottantadue s’accorge
di un post-it, anch’esso abbastanza recente, con la già letta nota, di nuovo in maiuscolo e con due punti
esclamativi, ‘dov’è igitur!!’.
Ma qui, alla nota già letta nel primo Guglielmino, seguono
ora il commento ‘merdre’, scritto a
matita con tratto veloce, e un appunto, anch’esso in maiuscolo ma più marcato, ‘solo de nardis’, con una doppia
sottolineatura sotto il nome del francesista italiano.
«Ma cos’è Igitur?», si chiede
allora, finalmente, anche se ancora con un pizzico d’ingenuità, il probo medico
pediatra, che capisce infine che M è a caccia di indicazioni bibliografiche su
quell’opera sconosciuta di Stéphane Mallarmé.
«E vorrà pur dir qualcosa
quell’avverbio, quel quindi in latino che M ripete continuamente in
tutte le sue note; e poi.. con quel commento così volgare.. nel Guglielmino,
per giunta».
In preda alla voglia di capire,
Fabrizio riprende allora a sbirciare con più attenzione tutti i dorsi dei libri
così brutalmente e confusamente accatastati davanti a lui e al camino.
Intanto, d’impulso, comincia a
ripensare ai libri già dati alle fiamme. Prova a ripercorrerne i titoli,
cercando di ricordare quelli che, d’istinto, ha gettato nel camino senza
pensarci troppo, perché in quel momento ritenuti subito come indubitabile causa
dell’invalidante stato mentale dell’amico.
Un po’ stanco ma concentrato su
ciò che ora ha intenzione di fare, avvicinandosi al tavolo dove ha appoggiato la
sua borsa e le sue cose, Fabrizio, sfilandosi con fare riflessivo la sua montblanc
dalla giacca ed estraendo un foglio bianco dalla stampante, sedendosi comodo
sulla poltroncina lì accanto comincia a scrivere:
- James Joyce, Ulisse,
- James Joyce, Wake..
Immediatamente, però, puntandosi
la penna sul mento e sui denti e leccandola un po’, il medico pediatra si ferma
e ad alta voce si fa, sforzandosi di ricordare: «Ma quale altro libro di Joyce
ho dato alle fiamme? Eppure.. l’ho avuto in mano fino a qualche minuto fa.. e M
me ne ha parlato un sacco di volte..», commenta fra sé, sconcertato per la sua
debole memoria, ma alzando un po’ più la voce per farsi forza e concentrarsi
meglio.
Di scatto, allora, il probo
medico pediatra si dirige verso il camino, cercando forse qualche indizio che
possa aiutarlo a ricordare; ma le fiamme, ancora molto alte perché ben
alimentate, lo costringono ben presto a indietreggiare.
«Merdra! Non si leggono più
neanche i titoli! Eppure..», tentenna ancora un po’ il medico pediatra, ora con
la fronte leggermente imperlata di sudore.
«Finnegans!», esclama all’improvviso
Fabrizio, teneramente entusiasta e ora leggermente rincuorato per la sua ancora
non troppo flebile memoria.
«Sì, Finnegans!; la veglia di
Finnegan! O meglio: le veglie di Finnegan, diceva M», si dice e si ripete felice
il medico pediatra.
«Ma andiamo per ordine», prende infine
a dirsi Fabrizio alzando ancor più la voce per ascoltarsi meglio e rimettendosi
a sedere per riprendere a scrivere sul suo promemoria.
«Ma quanti ce n’ho buttati là
dentro?», si chiede ancora ad alta voce il medico pediatra.
«Una ventina, credo: i due Musil,
un Voltaire, un Meridiani di Hemingway, Marcuse e Horkheimer, così almeno credo
si scriva, un Villari, i due Joyce.. e quattro di quel francese.., Barth..
forse Roth.. No, no.. Ronald Barth, mi sembra».
Pensoso e un po’ inquieto, dopo
aver scritto e riletto i primi titoli grossolanamente trascritti, Fabrizio
decide di avvicinarsi di nuovo al camino, con la speranza di poter leggere al
volo alcuni di quei pochi titoli che ora fa fatica a ricordare.
Sul dorso di un grosso mille
pagine Einaudi, intanto, Fabrizio riesce a leggerne alcune lettere dell’autore
e del titolo. ‘Paglia Sex’, trascrive così sul suo promemoria, a cui aggiunge
il numero quattrocento cinquantasette posto sotto al logo della collana Gli
Struzzi, unici caratteri rimasti leggibili di quel libro, a cui però, pensa
Fabrizio prendendone nota, si può risalire.
Così, con fare più deciso e animo
fermo da esperto medico pediatra, Fabrizio s’avvicina ancor più ai libri
barbaramente inceneriti, e, affilando lo sguardo, sulla copertina di un
Biblioteca Adelphi riesce a leggere integralmente: ‘Una sola moltitudine. Volume primo’, con parte del nome del
curatore ridotto alle sole lettere ‘Antonio Tab’. «Un gran visionario», gli
aveva detto M anni prima riferendosi al Tabucchi del Requiem ch’egli aveva appena letto.
Incoraggiato da tali insperati e
piacevoli progressi, sbirciando meglio, anche se sulla copertina di un
Paperback Einaudi riesce a leggere: ‘Deleuze e Guatt’ a cui però non sa dare
troppa importanza, su un Grandi Libri Garzanti giallo gli appare improvvisamente,
anche se mutilata, l’allarmante scritta: ‘la Mancha’, da cui deduce subito, impressionandosi
non poco, che si tratta del Chisciotte.
«Ma perché ho dato fuoco al don
Chisciotte?», con ansia si chiede ora Fabrizio che, sconcertato, non sa
darsi una spiegazione plausibile dell’orribile scempio da lui appena compiuto.
«Mentòre?», si chiede mestamente per
darsi una giustificazione ma senza riuscire a darsi pace.
«Si, è vero.. era tutto
sottolineato.. ma il Chisciotte..
il don Chisciotte! Il
Cavaliere dalla Triste Figura! Non credo possa esser stato causa
dell’impazzimento di M, che poi, in fondo, un po’ scriteriato lo è sempre
stato».
Assorto in questi tristi e ragguardevoli
pensieri, all’improvviso, e con fare rabbioso, Fabrizio ad alta voce si fa: «Il
portoghese.. quel cazzo di portoghese.. con quella farneticante lettera ai due
psichiatri».
Frattanto il fuoco, fedele al
compito distruttivo assegnatogli dal medico, ha finalmente cominciato a
scemare. Qualche fiammella qua e là, permettono tuttavia di avvicinarsi più da
presso al camino. Alcuni libri, infatti, benché tutti smembrati o inceneriti,
lasciano ancora intravedere qualche piccola traccia, che consente però di
risalire almeno al titolo dell’opera integrale di cui facevano parte.
Ma ecco che inaspettatamente una leggera fiammata dipinta d’azzurro
scuote l’attenzione del medico pediatra. Fuoriesce da un libro enorme, ormai
tutto bruciacchiato e mezzo incenerito. Però, poco sotto il ritratto offuscato
della regina Elisabetta, Fabrizio riesce a leggere perfettamente sulla
copertina: The Faerie Queene. Pensa, infine, e non si sa bene come e in
base a quale sua immaginifica ‘illuminazione’, che forse un fiore, ancora
all’interno di quel libro, può esser stato causa e all’origine di quella
bellissima fiammella[3].
[1] Nel
Guglielmino, infatti, alle pagine ventidue venticinque di detta Antologia,
v’erano riportate solo le più ‘facili’ Brindisi,
Brezza marina e Il vergine, il vivace.
[2] Le
due opere sono qui riprodotte a fine
capitolo, e datano rispettivamente 27 ottobre e 16 giugno di quest’anno.
[3] Pare
che i petali di rosa rossi se messi sul fuoco producano fiammelle azzurrine,
mentre i petali bianchi fiammelle più tendenti al verde.
Igitur, ou la
folie d’Elbehnon (SM, 1869)
(50 x 70 cm; 27 ottobre 2017)
Je suis hanté.
L'Azur! L'Azur! L'Azur! I'Azur! (SM, 1864)
(80 x 100
cm; 16 giugno 2017)
Dulcinea del Toboso III
(Una sola moltitudine)
Ora, l'essere tuo deve tendere al suo scopo,
mirare a sprofondarsi.
Discendi battendo i piedi,
e poi battendo i piedi rimonta.
(J.W. Goethe, Faust II)
«Ci sarà certo un significato, se
lì dentro c’ha messo un fiore».
Così, con mesto candore, ragionò
il medico pediatra che, provetto Mabillon ancora memore dei suoi studi di
eziologia e patogenesi alla Sapienza, nonché convinto estimatore de Lo studio dei sintomi storici di Rudolf
Steiner, il fondatore, tra l’altro, dell’ars
medica antroposofica cui lui in parte credeva, in quel momento, in preda ad
una sua immaginifica competenza critico-letteraria, scrisse dettagliatamente sul
suo promemoria: ‘Edmund Spenser, The Faerie Queene, edizioni Penguin’; forse
con l’intenzione, se necessario, di ricomprarlo.
In quel preciso istante però
Fabrizio intuisce che per capire, e dunque voler ricercare le cause dello
strano morbo che poteva aver colpito M, bisognava seguire un percorso di tipo
‘letterario’, se così posso dire, cioè risalire a quello che probabilmente M
aveva letto ultimamente e, dunque, capire meglio quanto recentemente egli aveva
scritto, o fatto nota, a margine di quei libri che in quel momento Fabrizio
andava esaminando e leggendo.
Ovvio che, finora, il medico
pediatra non aveva letto quasi nulla di quanto scritto da M se non le note e le
postille scritte a margine di quei libri che Fabrizio stesso fino a quel
momento aveva consultato, e ‘attentamente esaminato’, prima di darli alle fiamme.
Ma all’improvviso, anche se piuttosto turbato, e come se si fosse di nuovo ‘illuminato’,
Fabrizio ad alta voce ancora una volta si fa: «Il portoghese.. quel cazzo di
portoghese.. con quella stupida lettera da psicopatico».
Un po’ agitato, il nostro Mabillon
torna così ad avvicinarsi di nuovo al camino ormai spento, anche se ancora
leggermente fumante, e, con suo grande stupore e meraviglia, smossa un po’ di
cenere in superficie riesce infine a estrarre, quasi per intero, uno dei due
libri di quel ‘cazzo di portoghese’.
‘Una sola moltitudine I’, così era scritto sul dorso del
volume, all’apparenza in gran parte risparmiato alle fiamme e, fortunatamente,
forse ancora leggibile, è ora nelle mani del medico pediatra.
È ancora ben caldo, ma il rischio
di lesionarlo ulteriormente convince Fabrizio ad aspettare ad aprirlo.
Appoggiato così il Pessoa primo sul
davanzale di marmo e guardando di nuovo all’interno del camino per trovare
qualcos’altro da annotare, arriva la moglie di M che, chiedendogli come procede
l’abbrugio, gli ha portato il caffè.
«Ma tu sai dove tiene i suoi
scritti? Le sue carte?», chiede d’istinto Fabrizio alla signora sua amica.
«Questo è quello che M teneva
ultimamente nella sua borsa», fa allora la donna avvicinandosi a una vecchia borsa
in tela verde ed estraendone una cartellina bianca con su scritto soltanto, in
alto a destra e a matita, ‘dulcinea-ddt’.
«Te l’appoggio qui sul tavolo. Dentro
c’è anche un ‘fantasmino’ con alcune stampe di M e il referto
medico-letterario, almeno così a me sembra, che
il dt. Mentòre ha scritto dopo averle lette. Vedi se possono servire,
altrimenti.. dagli fuoco», conclude cinicamente la donna, forse rassegnata
all’idea che il marito andato fuori di senno sia ormai inguaribile e irrecuperabile.
«C’è anche la lista dei libri che
M ha rubato; è nel verbale di denuncia redatto dai Carabinieri. Io ho ancora un
sacco di cose da fare e non son riuscita a riconsegnarli. Guarda, son tutti là
dentro.. dentro quell’ armadio. Chiamami se ti serve qualcosa. E serviti un po’
di cognac, se ti và».
Allungatosi il caffè con della pregevole
grappa seminascosta da un Calvados e custodita in una credenzina un po’ demodé lì
vicina al camino, sedendosi comodo sulla confortevole petite bergère di M e riprendendo
in mano il Pessoa primo ormai freddo,
Fabrizio s’accorge subito che il libro è praticamente illeggibile: le pagine si
sfaldano e si sbriciolano con sfrigolii quasi gementi sotto i suoi
polpastrelli.
Ma, come d’incanto,
all’improvviso dal corpo del libro rapido scivola via un foglio a-quattro
ripiegato ancora non del tutto incenerito e non si sa come salvatosi
miracolosamente alle fiamme.
In procinto forse di volarsene
via o più banalmente cadere a terra, Fabrizio, quasi d’impeto, riesce a
trattenerlo e, liberandosi nuovamente dell’ormai inservibile Pessoa, con
cautela e un’anomala e incontenibile voglia di leggerlo, si accinge ad aprirlo.
Ovviamente, sono note di M -
scritte al computer in garamond dieci - che sembra riguardino una certa
Opheline, probabilmente la donna di cui era innamorato Pessoa, il Gran Portoghese,
come si deduce dal testo.
Prova a leggerne quelle poche righe
rimaste leggibili, che però, in parte, soprattutto nel cappello iniziale, sembrano
indirizzate ad una donna.. forse conosciuta da M.
Ed ecco quanto in quel momento il
medico pediatra legge:
Incredibile! Anche il geniale Fernando sembra (come
me) un demente quando scrive e parla d’amore alla sua donna! Di un ridicolo
(poveri, miseri amanti innamorati) che fa impressione: infatti, leggendo quel
che scrive, non si sa se ridere o piangere. L’amore dunque rende ridicoli; me
ne sono accorto ormai, e soprattutto quando non è corrisposto.
C’è una certa Ophelina (stesso nome della donna amata
da Pessoa) che in un blog scrive come Gea e racconta delle stesse cose che
recentemente hai fatto tu, amore mio: credere di cambiare tingendosi i capelli..
ridere, scherzare e andare al mare.. e dormire e fare altri sogni. Questo, d’altronde, è quanto tu mi hai voluto scrivere
spacciandoti per Gea.
Sembro un matto per quel che scrivo; vero amore mio?
Forse sono matto. Da quando sei apparsa nella mia vita.. io sono diventato
matto; completamente matto.
dal blog di ophelina:
Siamo i libri che leggiamo, la musica che ascoltiamo e
che parla alla nostra anima, le storie che scriviamo e quelle che sordidamente viviamo.
Siamo i nostri sogni, quelli notturni e quelli diurni,
con la testa tra le nuvole, popolati da personaggi immaginari e persone del
nostro passato, pieni di speranza e tensione verso quello che potrebbe essere e
che desideriamo selvaggiamente e generosamente con tutti noi stessi.
D’altronde, si dice spesso che The moment of change is the only poem, il momento del cambiamento è l'unica poesia. Mi rendo
conto, infatti, che tutti intorno a me cambiano: c’è chi arriva e c’è chi parte;
c’è chi se ne va per non tornare più; c’è chi scrive un romanzo e c’è chi
accoglie una nuova vita; c’è chi si mette in gioco o che infine si ritira a
riflettere per qualche tempo per dare un nuovo corso alla propria vita.
La gente evolve, cresce, migliora, peggiora ma
rivoluziona la sua vita: si trasferisce in una nuova città, in un nuovo paese,
in un nuovo continente; taglia i capelli e ne cambia il colore come se niente
fosse; s’innamora e smette di amare; cambia casa e cambia partner, fa e disfa,
cade e si rialza. Ma io sto ferma, io credo solo nell’amore, forza massima
capace di smuovere e di rivoluzionare il mondo.
D’altronde,
Is there no way out of the mind, non c’è via d’uscita dalla mente.
E allora, continuando a vivere, far finta che vada
tutto bene.. sorridere sempre, truccarsi per nascondere il pallore, sforzarsi
di essere brillanti e divertenti, perché a nessuno piacciono le persone
crepuscolari.
Per ora rimando il suicidio
e faccio un gruppo di studio:
le masse, la lotta di classe,
i testi gramsciani..
Far finta di essere sani.
Far finta di essere normali pur sentendosi
profondamente diversi. E lasciarsi guidare, a lungo, nella notte, guardando
fuori, come se la vita fosse un affare che in fondo non ci riguardasse.
Come se si potesse solo andare, andare, andare.. e continuare
a sognare.. E rifugiarsi nelle parole, nei versi, nella poesia, nelle storie.
Ed esercitarsi a indurire la propria sensibilità e la
propria emotività.
Nessuno, d’altronde, insegna che l'amore non è
un'equazione, non conosce logica, non è un sillogismo perfetto: spesso è
sbagliato, spesso fa male, spesso è impossibile, spesso è irraggiungibile. È
una sorta di malattia, del corpo come dell’anima; una febbre che lacera e
consuma.
Ma nella mia visione masochistica, romantico-bovaristica
e contorsionistica, non solo l'amore è l'unica mia fonte di ispirazione, ma l’amore
infelice lo è ancora di più, perché un amore infelice - perché non corrisposto,
perché contrastato, perché reso difficile dalle distanze, dai tempi, dalle
tempistiche, dalle aspettative diverse, dall’incomprensione - fa rifugiare
nella scrittura.
E le parole fanno innamorare, le parole fanno ammalare..
e le parole fanno guarire: non mi stancherò mai di sostenerlo. Le parole sono
causa e rimedio dello stesso male.
8 dicembre 2016.
Quel che scrive questa donna, anche farneticando un
po’, è quello che da anni provo anch’io. Però lei riesce almeno a dare un
‘volto’, un significato tangibile a questa sofferenza immane: il mio scrivere, al
confronto, è solo semplice balbettio.
Seduto in poltrona davanti al
fuoco, ma con in mano ancora il foglio con le dolenti note di Opheline,
Fabrizio ora fantastica e si sta convincendo di poter davvero ripercorrere
l’itinerario mentale e letterario fatto da M [cosa che, d’altronde, sembra
anche a me, considerando le note lette finora dal medico pediatra e quel
ch’egli ha scritto sul suo promemoria - ndr].
Intanto, dalla cartellina bianca
è scivolato fuori, quasi da sé, l’enigmatico ‘fantasmino’[1] pieno
di stampe. Fabrizio ne estrae alcune (le prime due) e ne legge quasi
distrattamente i titoli: Viaggio
nel paese della quarta dimensione e Il
grande vetro ovvero la ‘visione’ poetica di Marcel.
Sfila altre tre stampe, due
titolate For Gea (part one) e For Gea (part two), accompagnate dalla
scritta a matita in alto a destra ‘spenser’,
e una dall’improbabile e immaginifico titolo Athanasius Kircher ovvero il
Magnes sive De Arte Magnetica.
Improvvisamente, un rumore sordo
alle sue spalle, spaventandolo un po’, lo costringe a voltarsi.
In un bizzarro e strampalato mucchio
di libri, o meglio un ammasso librario formatosi a seguito della caduta, l’una
sull’altra, di quelle che sono ora la terza e quarta pila proprio dietro di
lui, ecco che Fabrizio intravede subito, sorpreso e quasi incantato, la
copertina arancione di un libro ‘esuberante’, se così posso dire, con,
all’interno, un gran numero di recenti post-it rettangolari accuratamente
scritti in chiaro stampatello.
Così, lasciate le stampe del
fantasmino sul tavolo, un vecchio Saggi Einaudi, un libro all’apparenza innocuo
intitolato Goethe, Beethoven
e il demonico del settantasei, è ora tra le mani del medico pediatra che, forse
attratto anche dal titolo, comincia con cura e premura a sfogliarlo. Fabrizio, d’altronde, sa bene dell’amore
che M ha sempre avuto per la musica e, quindi, pone molta attenzione affinché
nessun post-it e nessun foglio d’appunti all’interno possa sfilarsi e per
malaccorta noncuranza perdersi.
Ma di tutto il libro, di un certo
Magnani e dedicato a Beethoven e ai suoi rapporti con Goethe, Fabrizio
s’accorge subito che soltanto il terzo e ultimo capitolo, una ventina di pagine
in tutto, intitolato Goethe e Mozart,
sembra essergli stato di grande interesse, vista la gran mole di
sottolineature, rimandi bibliografici[2], cavillose
postille e i numerosi post-it che lo completano.
Un nome femminile, all’inizio del
capitolo, appare sottolineato due volte: è il nome della sorella di Wolfgang,
citata qui quale fida accompagnatrice clavicembalista e violoncellista del
geniale fratello durante la loro seconda trionfale tournée nelle corti di
Germania e d’Europa e, il 19 agosto 1763, alla loro ultima esibizione a
Francoforte, alla corte dell’illuminato Federico il Grande.
Il fatto è, che al concerto vi
assisté anche il quattordicenne Goethe (l’altro giovane Wolfgang), che già
allora, come molti altri d’altronde, s’avvide subito, e ne rimase sbalordito, del
prodigioso e miracoloso vitalismo che quello ‘stranissimo’ bambino manifestava.
Qualche pagina dopo, però, altre
sottolineature, leggermente più marcate e probabilmente legate fra loro,
destano presto una certa attenzione indagatrice in Fabrizio.
Ad esempio, frasi come:
per l’intima vitalità e freschezza della sua musica
oppure quella:
nel Don
Giovanni, infatti, Goethe aveva avvertito la presenza di un elemento
misterioso la cui natura trascendeva il puro fatto artistico e teatrale
e quella, alcune pagine più
avanti, che recita:
in cui il particolare come l’insieme apparivano
compenetrati da un potente soffio di una vita estranea allo stesso sentire e
volere di Mozart, dominato dallo spirito demonico del suo Genio
sembrano legate tra loro da una
sottile convergenza, o meglio da un ‘sign
of concordance - cfr. Duchamp’,
com’era scritto in maiuscolo in una evidentissima nota a penna nera sul margine
superiore alla pagina novantanove; frasi su cui il medico, però, notandone la
‘distonica consonanza’, non tarderà a esprimere presto il suo ingeneroso e
superficiale giudizio.
Con tatto, tuttavia, e con
un’intonazione tra il professorale e il poetico e sgranando leggermente gli
occhi dandosi un’aria interrogativa, Fabrizio si rivolge di nuovo a se stesso
dicendosi buffamente e con tono leggermente amletico (più alla Polonio, per la
verità): «Tutto ciò che s’inoltra verso la follia lo attrae. Sembra sedotto
dall’inconoscibile; da ciò che non si può misurare..».
«Ma senti qui.. », si dice ancora il medico
cominciando a leggere tra sé una lunga glossa riportata su un post-it rettangolare
e riferita al Viaggio alle Madri del Faust che nel testo del Magnani è citato in una
nota a piè pagina solo come fonte.
In testa al post-it, infatti, appare a penna e in
maiuscolo la scritta: ‘cfr. una galleria
oscura’, accompagnata da un’altra, tra parentesi, ma leggermente più
grande: ‘cfr. igitur, discesa agl’inferi’.
Subito sotto, però, ecco riportata l’enigmatica frase accompagnata dal rimando
bibliografico ‘cfr. faust vv.’:
Non importa! Io ho ferma
speranza di trovar nel tuo nulla il tutto
che Fabrizio ora quasi scherzosamente declama,
seguita da quella:
Il mondo, è vero, fa pagar
cara all'uomo la virtù del sentire;
ma gli è quando si è
commossi che si arriva a comprendere l'infinito
frasi accompagnate tutte dalla sigla f. vv. seguita dal numero dei versi
goethiani corrispondenti.
«E senti quest’altra!», prosegue stupito il medico pediatra
leggendo ancora il post-it e declamando ora ad alta voce:
Discendi dunque.. o sali
giacché il dirti l'una cosa o l'altra torna lo stesso[3].
Sfuggi al reale, slanciati nei vuoti spazii dell'ideale,
per godere lo spettacolo di ciò che non esiste più da
lungo tempo
Seguitando a leggere, subito dopo
la scritta in maiuscolo ‘alle madri’,
Fabrizio riprende stupidamente a declamare:
Esse ti circonderanno, ma non ti vedranno,
poiché non veggono che le idee..
Ora, l'essere tuo deve tendere al suo scopo, mirare a
sprofondarsi.
Discendi battendo i piedi, e poi battendo i piedi
rimonta.
In chiusura di questi ultimi due
stranissimi versi si legge infine la postilla a penna nera e in maiuscolo: ‘igitur, ovvero il nu descendant un escalier, e marcel
(invisible) re-monte un escalier hanno lo stesso significato’, nota del
tutto incomprensibile al medico pediatra[4] che
conclude dicendosi, ancora una volta sgranando buffonescamente gli occhi: «È
pura follia; M è sprofondato nella follia più totale».
Continuando a leggere per suo
conto, Fabrizio, tra sé e sé, ora prova a recitarsi una marcata sottolineatura
nel testo del Magnani:
La bellezza gli appare dapprima nella sua emanazione
sensibile, in Gretchen, ma dinanzi alla visione di Elena egli avrà la
rivelazione della fonte stessa del Bello nella sua purezza; risalirà all’Idea.
Un mondo nuovo e più vasto si schiude al suo animo
e sopra il nome di Elena è
riportata di nuovo la sequenza di lettere maiuscole ‘ddt’, scritta a matita leggera e tra parentesi.
Incuriosito però dalle tante
citazioni del Faust su quel libro di musica, il nostro provetto Mabillon
si accinge ora a verificare, nel testo originale che sta estraendo dalla sua
borsa, quanto letto nel Saggi einaudiano.
Ecco cosa
vuol dir prendersi pensiero d'un pazzo!
Vi trovereste
in guai, quand'anche foste il diavolo!
La sottolineata chiusa
mefistofelica del primo atto del secondo Faust
viene letta per caso, e senza volerlo, dal medico pediatra amico di M che, in
quel momento, aprendo a caso una pagina e vedendo quei due versi vigorosamente
sottolineati, senza pensarci ad alta voce li legge.
In realtà Fabrizio voleva solo verificare,
nell’unico libro che finora gli era riuscito di salvare alle fiamme, se ci
fosse stata effettiva corrispondenza tra i versi riportati da M sul Magnani sotto la sigla ‘cfr. faust vv.’ e i versi corrispondenti del testo originale goethiano, ora
comodamente tra le sue mani.
[1] Così
la moglie di M aveva chiamato una busta trasparente per raccoglitori piena di
fogli e fascicoli spillati formato a-quattro stampati fronte-retro.
[2] Di
cui molti all’imprescindibile Giovanni Macchia, Vita, avventure e morte di
don Giovanni, e tanti altri all’insuperabile Massimo Mila, Il don Giovanni
di Mozart, soprattutto riguardo il significato delle tonalità in Mozart
(del re minore in primis) che l’illustre Hermann Abert, come si legge in
una nota, aveva tentato ingenuamente di ridurne l’importanza col suo ‘tiepido’ Mozart
in due volumi.
[3] Tra
parentesi, accanto alla nota: ‘nu
descendant un escalier (ou la
folie d’elbehnon) / marcel (invisible) re-monte un escalier,
appare l’incomprensibile commento: ‘scendere
o salire: tanto per me fa lo stesso’.
[4] Marcel
(invisible) re-monte un escalier è il titolo dell’ultimo quadro non
finito di M, che qui viene riprodotto a fine capitolo.
Marcel (invisible)
re-monte un escalier (M)
(100 x 120 cm; 2 novembre 2016 -
non finito)
Dulcinea del Toboso IV
(Faust II: Den Mutter!)
dopo i primi ventinove..
discesa agl’inferi
C’era perfetta corrispondenza; come
d’altronde il medico pediatra aveva già sensatamente previsto.
Ma il libro che però lo stupì in
maggior grado fu senza dubbio Stéphane Mallarmé. Tutte le poesie e prose
scelte, un vecchio testo del sessantasei egregiamente curato dal
francesista Luigi de Nardis per quei tipi Guanda che all’epoca lasciavano ampi
spazi ai margini delle pagine, e quindi un libro ideale per le possibili
riflessioni e annotazioni di un eventuale lettore particolarmente interessato.
Raccolto anch’esso, come il Magnani,
tra quei libri che s’erano venuti confusamente accatastando in seguito all’inspiegabile
e rovinosa caduta della quarta e quinta pila - e probabilmente con quello unito
o collegato dagli interessi che M in quel periodo andava maturando - subito
Fabrizio s’accorge che, come l’altro, anche questo libro è pieno zeppo di
appunti, ricche note e recenti post-it incollati all’interno, ma con un foglio
a-quattro accuratamente ripiegato e inserito tra l’ultima pagina e la terza di
copertina, con l’allarmante e inquietante avvertenza, scritta in grande, a
matita e in maiuscolo: ‘attenzione:
veleno!’.
Rimessosi in poltrona, e
osservando ora l’originale brossura rigida in tela turchina molto lisa e tutta
sfilacciata ai bordi, sfogliando il libro Fabrizio nota subito che la maggior
parte delle glosse scritte a margine e le postille dei post-it all’interno sono
soprattutto concentrate sull’incomprensibile Igitur, ou la folie d’Elbehnon, un’opera incompiuta di Stéphane
Mallarmé già incontrata, d’altronde, nelle note trascritte a profusione sul Magnani
e sugli altri libri consultati e da lui dati grossolanamente alle fiamme. Sembra
tuttavia che, ispirandosi a quest’eccentrico testo pseudo-teatrale, M deve
averne realizzato un quadro, ancora nel suo studio, dedicandolo, pare, a Marcel
Duchamp, il più visceralmente amato e studiato, il suo ideale d’artista tra quelli
da lui conosciuti.
Ma ecco che, schiudendo quel curioso
foglio ripiegato a-quattro, con quell’allucinante avvertenza e stampato
fronte-retro in garamond dieci, Fabrizio scorge questa lunga e incredibile postilla
che ora provo a trascrivere integralmente - includendo anche le note a matita
scritte ai margini del foglio - tanto è il grado di introiezione e di inusitata
‘stravaganza’ che ne emerge.
La postilla, che riportava in
alto sul margine destro le note a scaletta scritte a mano ‘igitur: confronta
mia traduzione con quella del de nardis’, ‘amplesso con la
madre’ e
‘ricerca di lilith’, suonava dunque così:
Discendendo sempre più in fondo
le scale verso gl’inferi[1]
étant donnés : Igitur, ou la folie
d’Elbehnon (SM) et Den
Müttern ! (JWG) trovare la relazione ‘geometrica’ tra i miei ultimi
quadri Igitur, ou la folie d’Elbehnon e Den Müttern ! [2] con il Nu descendant un escalier, ultimo quadro di Marcel Duchamp. Musique en ré mineur : Hell, Fire and Damnation
by Jocelyn Pook (Solo per l’ultima scena, quando la lettura dovrà avanzare
sincronizzandosi sui settanta bpm di metronomo).
«Avvicinatevi ancora, ondeggianti figure
apparse in gioventù al mio sguardo
offuscato.
Proverò questa volta a non farvi svanire?
Ho ancora il mio cuore incline a quegli
errori?
Voi m'incalzate! E sia, vi lascerò salire
accanto a me dal velo di nebbia e di
vapori»
(J.W. Goethe, Faust, vv. 1-6)
Ce Conte s’adresse à
l’Intelligence du lecteur qui met les choses en scène, elle-même
Marcel-Igitur, sprofondando ora in sé e toccando il
margine estremo di se stesso e della sua interiorità, appare, come d’incanto, ad
alcune per lui ancora confuse e indefinibili figure che però, riconoscendolo, venendogli
incontro e gradualmente prendendo forma tra le vaporosità di una fievole bruma,
sembra vogliano prontamente manifestarsi e farsi riconoscere.
Intravede e riconosce dapprima la madre che, in preda
a forte eccitazione emotiva e con le lacrime agli occhi, ha rapidamente preso forma
e consistenza. Avvicinandosi a lui, vorrebbe subito parlargli. Non ancora in
grado di proferir parola, riesce tuttavia a toccarlo e ad accarezzargli delicatamente
il viso. Come impaurita, però, lesta si allontana da lui, nascondendo i propri occhi
e il viso tra i suoi morbidi e fluenti capelli.
Ma lì da presso, ecco che M riesce a distinguere anche
la Lilith [quella
del Faust] che, a breve distanza e prendendo più chiaramente forma, con risoluta
vivacità gli sorride e, come a suggerirgli la possibilità di un’intesa profonda
con lui, sgrana i suoi incredibili occhi guardandolo intensamente.
S’accorge, infine, intuisce e riconosce una superba e
compiaciuta madame Morte che, interposta a pari distanza tra le due donne che
l’hanno preceduta e prendendo molto lentamente forma, lo saluta con un cenno
assai breve, ma dall’espressione molto eloquente.
La madre, che sin da subito ha preso consistenza, esprime
ora l’incantevole aspetto di una seducente donna di sessant’anni e tra le
evanescenze di una luce lunare, ella, avanzando verso di lui, gli appare man
mano sempre più bella, dalle forme fisiche sublimi e di una carnalità travolgente.
Capelli corvini lunghi e lisci, la donna ha inoltre dei grandissimi occhi verdi
e un sorriso molto rassicurante che, nel contempo, la rende ai suoi occhi eroticamente
superlativa.
La più giovane Lilith, invece, ha capelli ad ampie
volute di un biondo grigio-chiaro, occhi azzurrissimi e intensi e labbra
leggermente pronunciate ma di una sensualità che subito lo agita e inquieta. Ha
comunque un corpo magro e snello, anche se il suo seno erompe alla vista per enorme
e straordinaria bellezza.
Madame Morte, che finalmente, sebbene a fatica, è
riuscita a prender forma, ha lunghissimi capelli bianchi che, oltre ad
avvolgerle i seni, giungono a ricoprirle finanche il sesso. Anch’essa a braccia
scoperte, ha comunque una carnagione candida e più che gradevole. Fa spesso
sfoggio della sua mobilissima lingua e, giocando con la saliva tra le labbra
facendone delicate bollicine, esprime una sensualità cruda e dirompente.
Anche madame Morte, come la madre, ha un seno
rigoglioso e, sebbene col viso leggermente segnato dal Tempo, appare anch’essa di
un’incontenibile bellezza. Il suo sorriso, però, è beffardo e sprezzante, reso
ancor più sinistro dallo sguardo quasi assente e distante che traspare dai suoi
irresistibili occhi, di un celestino chiarissimo quasi tendente al bianco.
La prima donna in grado di rivolgergli la parola è
però la più giovane Lilith, la cui voce cristallina e lieve è spesso
contrastata e offuscata dal brusio di quella mormorante e sempre più incalzante
di madame Morte. Le parole di Lilith, infatti, sono ormai quasi
incomprensibili, tanto forte è ora il meccanico clangore che, con voce a
bassissime frequenze, stridente e più che baritonale, madame Morte emette.
Dalla sua flebile voce M riesce comunque a percepire le parole: « _----, - ---
--------- ---, ------ ---- ------ ---- -- -------. - ------ ---- -- --
----------, -- -- ----------- -, -- ----- - ------, -- ---- --------- - -------
---- --- --------- -- ------ ------ -------, ----------, ------ ».
L’accresciuta bellezza di Lilith è però tale che le
parole da lei pronunciate impressionano M a tal punto che ora sembra voglia
avvicinarsi a lei quasi a volerla sfiorare o accarezzare. Ma, contrariata e
visibilmente infastidita, Lilith (ddt)
si allontana immediatamente da lui, dissolvendosi e scomparendo tosto alla sua
vista. Spaventato e sconvolto, M all’istante sviene.
Risvegliandosi e riprendendosi a stento, ora M sembra
che pianga; sì, in effetti, M ora piange.
Ma, come attratta o richiamata da quel sordo lamento,
ecco la madre riprendere rapidamente forma e, sebbene d’aspetto molto più
imponente e dalle forme ancora più morbide e calde, con passi leggeri, riavvicinandosi
a lui sorridendogli, lo invita e lo accoglie subito tra le sue braccia offrendogli
generosamente il seno.
Accarezzandogli dolcemente i capelli, il viso e gli
occhi e baciandolo delicatamente sulle labbra, la donna, riuscendo ora a
parlare, quasi sibilando a bassa voce gli dice: « _-- --------.. --- --------..
--- -------- ---, ----- ---.. », piangendo a sua volta. «_---------- --- ------
- --------.. --- ----- ----- », aggiunge continuando dolcemente ad accarezzarlo
mentre M, baciandola dapprima smodatamente in bocca, ora, preda di più cruda
passione, comincia a baciarle e a succhiarle con voluttà il seno.
L’eventualità di un qualche sprazzo o forma di
tenerezza che questa scena potrebbe esprimere viene però improvvisamente e
violentemente resa vana e annullata da un fragoroso e feroce sghignazzo di
Morte; e anche la madre di M, immediatamente svanisce.
Seminuda e col seno che a tratti traspare dai suoi
capelli e dalle sue candide vesti, lentamente madame Morte avanza ora verso di
lui e, col chiaro intento di possederlo, con voce suadente sussurrando gli
dice: « _- ------ --- ---.. - ------ --- ------
- --------.. _- ------ --- -- ----- --------- -’-----.. - ---
------------- ----- -- ------ --- -- ------- - --. _’--------, -- --- --’--
---- ----- ----- ---- --- ------, ---- ? _----, ------.. _----.. ----- ------
-- --.. - -- -------- ------ -- ---- ----- -’------- --- --- ------ ------- -
--------, ------ clairière -- ---
------- -- ---- ------ -------- -- -- --- ----- --- ---- --- -----, ----- --
--- ---- --- ------- -’------ ».
Ma mentre gli dice queste cose, madame Morte lascia
che la sua veste si sciolga e lentamente scivoli via, producendo un fruscio di
stupefacente leggerezza e d’indicibile piacere sonoro.
Terribilmente nuda e di una sensualità travolgente che
lascia attonito M, madame Morte, lentamente, si adagia sinuosamente sulle sue
vesti e, afferrandogli dolcemente le mani e accompagnandolo a sé con le sue candide
braccia, lo spinge e invita a unirsi a lei. La sua lingua, intanto..
ndr - Non credo di far bene a trascrivere il resto di
queste note, e dunque mi riservo di non riportare quanto letto dal medico
pediatra, perché la natura obiettivamente
folle di quanto scritto da M s’avvicina un po’ anche all’indecenza, cioè è
frutto indubitabilmente di una mente malata, come d’altronde provano le
condizioni in cui egli attualmente versa. Infatti, in questo scritto si parla
di amplessi, spesso anche crudi, non solo con la madre ma nientemeno che con la
morte, la ‘sua’ morte, com’è specificato nel testo. Posso soltanto dire che,
alla fine del racconto, M chiude irragionevolmente con la frase:
«Riconciliatosi in tal modo con la madre (ne aveva
sofferto profondamente l’assenza), che però ora gli dà forza, benessere e
determinazione, M va in cerca di Lilith..».
[1] Qui,
un asterisco a matita rimanda a due note a piè pagina, scritte anch’esse a
matita e precedute da asterisco: ‘nella
propria interiorità (contrasto caravaggesco: cupa oscurità e abbagliante
luminosità)’ e ‘cfr. g. bataille: ma mére hélène et l’informe’.
[2] Igitur, ou la folie d’Elbehnon e Den Mütter!
sono i titoli di due quadri recentemente eseguiti da M e datati rispettivamente
27 ottobre e 2 novembre 2017. Autorizzato
dalla moglie, ne riproduco copia a fine capitolo.
Igitur, ou la
folie d’Elbehnon (SM, 1869)
(50 x 70 cm; 27 ottobre 2017)
Den Mutter! (Faust,
v. 6265)
(70 x 100
cm; 2 novembre
2017)
Dulcinea del Toboso V
(Magnes sive de Arte
Magnetica)
Lo stesso tremito Bouvard lo sentì
nel palmo della mano della signora Bordin
(G. Flaubert, Bouvard et Pécuchet)
ndr - Anche
se ora ho maturato qualche riserva nei confronti di M e sulla sua ‘stranissima’
malattia, mi preme comunque raccontare qui - dopo aver ‘registrato’ con molte
perplessità quanto letto dal medico pediatra - ciò che avvenne subito dopo,
perché spiega molto bene gli incredibili sviluppi di questa vicenda, che del
resto si conclude, manco a dirlo, con la scomparsa di M.
Ovviamente, riguardo quel che
mancherà in questo testo, confermo che ‘manca ciò che deve mancare e che son io
a volere che manchi’ [però, che bel giro cervantino!]. Chi vorrà, poi, ammesso
che la moglie acconsenti esponendo così il marito al ridicolo se non al
ludibrio, pubblicherà quel che io oggi mi rifiuto categoricamente anche solo di
trascrivere.
A fine lettura dell’oscena postilla,
una furia libricida - e anche iconoclastica per quel che quei libri potevano
significare per M, cioè quanto di più bello dell’immagine che dei suoi libri M
s’era fatto - non ebbe più freno. Così, con metodiche annotazioni sul suo
promemoria, ai primi Ventinove ‘d’uso quotidiano’ Fabrizio fece seguire nel
camino quasi spento una nuova serie di libri.
Il Magnani, ovviamente,
che nel foglio di Fabrizio veniva distrattamente riportato e trascritto sotto
la voce ‘Goethe e Mozart’, accompagnata dalla qui poco congrua nota tra
parentesi ‘discesa agli inferi’, fu il primo di questa seconda serie a prender
fuoco, e con esso tutti i post-it e i fogli a-quattro ripiegati al suo interno,
insieme, forse, a qualche petalo di rosa; cosa però piuttosto improbabile,
considerato l’uso che di tale libro M ne aveva fatto: e questo fu ciò che venne
in mente in quel momento all’intraprendente Mabillon medico pediatra, anche se
le fiamme erano stranamente divampate sprigionando scintille in una ampia gradazione di sfumature azzurrine.
L’ormai illeggibile Pessoa
primo, compresi i numerosi post-it all’interno, come quello letto con
piacere da Fabrizio su Opheline, di cui riporta il nome nel suo promemoria
affiancandolo a quello di Pessoa, seguì immediatamente il Magnani: la
lettera ai due psichiatri, d’altronde, s’era già dimostrata sufficiente per
determinarne la sorte.
Fu poi la volta di tutto un blocco di Grandi Libri
Garzanti, copertina rossa, per lo più di letteratura francese, che, estratti
quasi tutti dalla seconda pila, probabilmente M andava ultimamente consultando,
perché tra le pagine di un Mademoiselle de Maupin, ad esempio, la marcata sottolineatura alla pagina
duecento trentuno in cui si legge:
È uno strano paese la mia anima: fiorente e splendido in
apparenza, ma più saturo di miasmi putridi e deleteri che il minimo raggio di sole (ddt) sul suo fango vi fa schiudere rettili e pullulare
zanzare
può benissimo essere in relazione con quanto M
veniva contestualmente elaborando (delirando) nei suoi incomprensibili scritti.
Difatti, anche in Studio di donna e altri racconti di Balzac le frequenti e marcate sottolineature
nelle pagine della superba introduzione biografica del Benni, testimoniano assai
bene degli astrusi interessi che in quel periodo potevano occupare la mente di
M. Su quest’ultimo libro, infatti, alla pagina tredici di tale introduzione,
una breve sottolineatura rimarca dapprima gli interessi di Balzac verso
l’occultismo, per poi distendersi, subito sotto, sulla frase che il curatore
riprende da Falthurne - racconto giovanile balzachiano non presente in
questa raccolta - che la dice lunga sugli interessi ‘mentali’ di M:
È una maga (ddt), e con i suoi poteri compie prodigi inspiegabili. È
la portavoce di un’altra realtà, più profonda e reale di quella apparente, e
assolve alla sua missione di educare gli uomini ad una ‘seconda vista’.
Esistono nella natura delle forze sconosciute, e rapporti tra le sostanze in
movimento che pochi uomini hanno saputo vedere. Contemporaneamente, nell’uomo
esistono delle facoltà, dei fenomeni, dei godimenti che rimarranno a lungo
ignorati. Dall’ultimo degli insetti, invisibile a quelli che noi non vediamo,
fino alla forza immensa che fa muovere il mondo, esiste una catena di rapporti
necessari che è possibile agire conoscendola.
Una nota a matita, tra parentesi e in maiuscolo, ‘cfr. athanasius kircher, de magnetica arte -
duchamp quarta dim - (ddt)’, accompagnava a margine la frase
sottolineata. Ma di Kircher, ripensandoci, nella cartellina bianca consegnatagli
dalla moglie di M, Fabrizio aveva già trovato una stampa a costui riferita.
Carte, dunque, che riguardano gli ultimi interessi
di M, se così posso dire, e che, riprese in mano e ricontrollate dal medico,
sono le pagine del Magnes sive De Arte Magnetica, ma solo quelle relative al capitolo De magnetismo amoris, come trascritto nel titolo del fascicolo stesso
che, in prima pagina, riproduce il frontespizio della prima edizione dell’opera
kircheriana, ossia la catena aurea che unisce magneticamente i medaglioni delle
arti e delle scienze con i loro corrispondenti emblemi: una sorta di cosmo
magnetico, dunque.
Nel testo kircheriano, tuttavia, le sottolineature
riguardano solo laddove viene a trattarsi
del modo di manifestarsi
del magnetismo elementale, principio universale che lega intimamente tutte le
cose create preservando così l’armonia del mondo
prima sottolineatura seguita da
vi sono, infatti, le forme
del magnetismo vegetale, animale, medicinale, musicale e dell’amore
con le due
ultime modalità accompagnate da una sottolineatura doppia e dall’incomprensibile
e inafferrabile commento: ‘Amore e Musica sono complementari: senza l’uno
l’altro muore’.
Ai due primi ‘francesi’, dunque, inconsultamente piroettati
e gettati nel fuoco, che intanto, ancor più felicemente alimentato, cominciava
a mostrare strane configurazioni luminose (d’altronde, la mirabile Madeleine de
Maupin, Rosette e il concupiscente d’Albert, insieme alla marchesa de Listomère
e a Mme de Beauséant, s’erano appena uniti al giovane meravigliosissimo Mozart[1] e a sua sorella, al
grande Assiano quattordicenne, alla dolce Opheline e al Portoghese), seguirono
presto gli altri, francesi anch’essi.
Il fuoco, come detto, andava ora riprendendo
vigore, ma a tal punto che le fiamme, che in così poco tempo erano gagliardamente
divampate, sembrava volessero inoltrarsi al di là del camino, col grave rischio
che si potesse generare un banale e insignificante incendio nella bellissima
casa di M [e questa storia, poi, se ne sarebbe andata a farsi friggere in
quanto troppo somigliante al burning books del canettiano,
inconsistente e vile sinologo Kien; ndr].
‘Gautier’ e ‘Balzac’, furono pertanto i nomi
riportati nel promemoria fabriciano, banalmente accompagnati rispettivamente
dalle note ‘Putridume’ e ‘Magnetismo Kircher’, da cui non si sa quale
significato avrebbe poi potuto dedurre l’ingenuo ma amabile medico pediatra.
Estratto anch’esso dalla seconda pila, un’Educazione flaubertiana si trova ora
tra le mani del maldestro ma bonario medico pediatra, di nuovo seduto comodo in
poltrona e vicino al camino. Soltanto una pagina, però, e precisamente la
duecento trentasei, ha una sottolineatura e un’orecchia ripiegata in alto a
destra a mo’ di segnalibro. Riguarda la frase che il non più giovane protagonista
rivolge finalmente a Mme Arnoux, quando cioè, praticamente alla fine del libro,
il ‘quasi banale’ Federico (così in
una nota a margine a matita) riesce faticosamente a dichiararle eterno amore.
Certo, ovviamente nessun sospetto, da parte di Fabrizio,
per il più classico, ma anche il più bello, tra i roman d'apprentissage dell’Ottocento, che
tuttavia si ritrova ben presto nel camino.. ma insieme a chi? insieme a quell’esilarante
e inatteso Bouvard et Pécuchet, quel postumo incompiuto con cui il quasi sessantenne
Flaubert si dilettò negli ultimi cinque anni della sua vita, soprattutto quando
narrava a se stesso dell’imbarazzo ma anche dell’intraprendenza del senescente
Bouvard davanti alla magnificenza carnale e all’ancor rigogliosa bellezza fisica
della meravigliosa e stupefacente Mme Bordin.
Il de Nardis, intanto, cioè l’allarmante Mallarmé con quella lunga e
inimmaginabile scandalosissima postilla - forse il racconto di un sogno o una
folle fantasia elaborata da M - è rimasto appoggiato sul davanzale del camino,
perché è, probabilmente, la ‘prova madre’ che Fabrizio va cercando.
Tuttavia, pensando a quest’ultimo ‘francese’, per
logica e naturale conseguenza tutto ciò che ora ‘suona’ in quell’incantevole lingua
viene dato rapidamente alle fiamme.
Della stessa collana Grandi Libri, con quell’ormai
inconfondibile copertina rossa e anch’essi tutti sulla seconda pila, il medico pediatra
destina così all’incenerimento un Bel-Ami, un La ricerca dell’assoluto e un Sarrazine balzachiani, seguiti
subito dopo dal primitivo Oscar Mondadori L’amore e l’occidente di Denis de Rougemont e,
a raffica e senza più prender nota sul suo promemoria, i già pronti e predisposti
al fuoco Le grandi
opere liriche di Mozart, i quattro Paperback freudiani e i tre Nuova Universale
Einaudi: il Minima
Moralia
dell’Adorno, il Canzoniere continiano e l’Angelus Novus benjaminiano.
Il camino, intanto, già colmo e saturo di libri e
variamente scoppiettante, ha raggiunto un livello di fiamma non indifferente
che non consente più al medico di procedere con l’incenerimento di altri libri.
Così, costretto a concedersi una pausa
nell’abbrugio e prendendo distrattamente un voluminoso Sansoni con copertina
rossa, Fabrizio torna a sedersi.
Rasserenandosi un po’, rendendosi conto di avere ora
in mano un più che rassicurante Teatro di Racine (in una vecchia ma bellissima
edizione Grandi Classici dell’ottantacinque), Fabrizio si accinge lentamente a
sfogliarlo. D’altro canto, egli sa bene che nulla di conturbante o di ‘nocivo’ può
esservi contenuto, considerando che l’autore, assai più del gesuita Corneille,
almeno secondo le sue ancor vive reminiscenze liceali, passò per il grande
moralizzatore dei costumi di quella Francia che, subito dopo le siècle d’or, avrebbe poi conosciuto i Voltaire, i Diderot e tutti quegl’altri
‘illuminati’ che facilmente (quelli sì!) potevano essere accusati di fosco e caliginoso
libertinismo.
D’altronde, consultando l’indice e scorrendo
rapidamente i titoli di quelle opere, è quel che in questo momento pensa il nostro
Mabillon medico pediatra.
Continuando a leggerlo, infatti, s’accorge ch’è
sottolineato soltanto in Fedra, ossia laddove l’infelice regina rivela la sua
inconfessabile pena alla vecchia nutrice Enone; e ciò non lo preoccupa affatto.
Ma continuando a leggere seguendo la meticolosa
sottolineatura fatta da M, Fabrizio, voltando pagina, s’avvede subito che sotto
la confessione dell’esangue regina v’è una strana nota a matita seguita da un
punto interrogativo, che però nulla sembra avere di ‘letterario’ o in relazione
con quanto sottolineato: ‘può esser vero
amore mio? ddt’.
Allarmato, capisce subito che quella nota non può che
essere un incontrovertibile indizio; un indizio, dunque, che prima di diventar
fuoco costringe il medico pediatra a trascrivere nel suo promemoria:
alle
parole di Fedra: «Lo vidi e
arrossii, impallidii a vederlo. Nell'anima smarrita irruppe lo scompiglio. Non
vedevo più niente, non potevo parlare. Poi sentii il mio corpo bruciare e
raggelarsi» è stata aggiunta la nota ‘Può essere vero amore mio?’.
Sfogliando l’introduzione per
capir meglio quella chiosa priva di aggancio al testo, Fabrizio arguisce, nelle
poche righe dedicate al Fedra, che la donna è innamorata del figlio;
questo, infatti, così almeno sembra, è quanto lui è riuscito a capire[2].
Senza pensar più di tanto,
agguanta allora a caso, e senza nemmeno sfogliarli, altri cinque piccoli libri
dalla seconda pila, ne legge rapidamente il dorso (Trilogia della città di K., il Diario
di una scrittrice della Woolf, Un dio
coperto di rose di una certa Rossana Ombres, un vecchissimo L’ordine simbolico della madre della
Muraro e un Luce Irigaray in francese, un decrepito Ce sexe qui n’en est pas
un delle édition de Minuit)
e, riflettendo tra sé dicendosi: «Tutte donne», li immola insieme al Fedra,
dapprima squadernandoli, rendendoli meno compatti e più arrendevoli alle brame
divoratrici del fuoco, e poi, con suo turpe piacere, meticolosamente appoggiati
uno per uno dentro al camino, facendo sì che subito vengano avvolti dalle
fiamme.
Il fuoco, d’altronde, già colmo
di libri, gli risponde subito, come per ringraziarlo, con un’altissima fiammata
e un rimbombante e preoccupante rumore sordo, dovuto forse al fatto che
l’accumulo d’inchiostro possa aver creato una camera asfittica all’interno del
camino e che la cruda e impellente necessità d’ossigeno delle inesorabili
fiamme può aver fatto esplodere.
«Però, con tutte queste donne è
il minimo che può succedere a questo bel fuoco maschio dominante!», ragiona
rozzamente Fabrizio, che fra sé ripete ad alta voce una frase letta per caso
sulla quarta di copertina del libro della Muraro e che, anche se nervosamente,
lo fa ridere di gusto, compiaciuto del suo crudo humor e delle sue
conseguenti e stupide riflessioni filologiche.
Ancora non soddisfatto, ecco che
quattro vecchi Shakespeare appena sfogliati, i famosi Shakespeare della
einaudiana Scrittori tradotti da scrittori - un Come vi piace, in cui il medico legge un rimando a M.lle de Maupin, un Antonio e Cleopatra, in cui trova sottolineate alcune parole
lascive che Antonio rivolge alla regina, un Amleto,
con molti rimandi al solito Igitur di
Mallarmé, e, con un petalo di rosa
all’interno, la Tempesta, col nome
della protagonista più volte evidenziato e accompagnato dalla sigla a matita ‘ddt’ - sono anch’essi subito nel fuoco.
I Sonetti, però, incomprensibilmente vengono risparmiati; non si sa e
non si capisce il perché. Non ci sono commenti in merito; so solo che
raggiungono rapidi un posto sicuro vicino al secondo Faust già custodito nella
borsa del medico. Credo, tuttavia, di poter azzardare un’ipotesi: forse perché
possono aver alimentato alcune reminescenze amorose nell’imperturbabile medico
pediatra?
Infine, per completare la seconda
serie da incenerire, un ultimo ‘francese’, ultimo anche della seconda pila, un Racconti fantastici di Gautier della
stessa collana Grandi Libri, viene dato alle fiamme. Di tutto il libro soltanto
la frase finale de La morta innamorata:
«Disgraziato! Disgraziato! Che cosa hai fatto? Perché
hai dato ascolto a quello stupido prete? Non eri felice? E che ti avevo fatto
io, perché tu violassi la mia povera tomba e mettessi a nudo le miserie del mio
nulla? Ogni comunicazione tra le nostre anime e i nostri corpi è ormai interrotta.
Addio. Mi rimpiangerai!». Si dissolse nell'aria come fumo e non la rividi più.
risulta sottolineata.
Ma a seguire, la nota a matita,
trascritta subito e integralmente dal medico pediatra sul suo promemoria sotto
la voce: ‘invisibilità - cfr. freud,
sogno e telepatia’, lo induce a lugubri pensieri. Stanco, e leggermente
disgustato, forse a causa dei contesti
mentali a dir poco inusitati, a
lui non molto congeniali, Fabrizio cerca comunque di riflettere e capire
perché, per sua malaugurata sorte, deve dar fuoco a tutti questi libri e quale
possa esserne poi l’effetto salvifico o ‘curativo-benefico’ su M.
«Dentro c’è anche l’elenco dei libri rubati da M[3]. Sono tutti in
quell’armadio; io non sono ancora riuscita a restituirli». Così gli aveva detto
la moglie di M prima di andar via consegnandogli la cartellina bianca con il
‘fantasmino’ pieno di stampe e il verbale di denuncia dei Carabinieri completo
di elenco dei furti compiuti; e a questo va pensando Fabrizio, ora seduto in
poltrona mentre distrattamente fissa il grande armadio in stile provenzale lì
di fronte a lui.
Preso l’elenco, redatto su carta intestata del
Comando di san Lorenzo in Lucina, Fabrizio comincia a leggerlo e, a voce alta,
rapidamente a contare: «.. ventisei.. ventisette.. ventotto.. ventinove..
Ventinove! quasi trenta.. ». Sotto ogni titolo, una data; probabilmente quella
del furto.
Nell’angolo dell’armadio, dunque, cioè dove la
moglie aveva radunato tutti i libri rubati da M - rubati tra l’altro con
l’evidente intenzione di farsi riprendersi dalle videocamere delle librerie, episodi
poi raccontati da M in un resoconto richiesto dai medici - il bellissimo La
regina delle fate salta subito agli occhi del nostro improbabile Mabillon medico
pediatra.
In una sobria e ruvida copertina verde chiaro
(priva cioè della sovra coperta plastificata) e con numerosi piccoli note-pads
arancioni interposti tra le pagine, è evidente che, in questo libro, c’è
qualcosa che può averlo preso a tal punto da fargli perdere il senno. I canti
sette e otto del Sesto libro, cioè quello dedicato a sir Calidore, or Book of Courtesy, sono tra i più sottolineati: in carta così
leggera, M v’aveva impresso in egual modo il suo marchio ‘sottolineatore’. È
evidente, però, che M sottolineasse solo per sé; forse per ricordare meglio, e magari
proprio attraverso e per il piacere di sottolineare quel che voleva ricordare.
Ma quel che sottolineava denotava, per il medico, quel che egli ormai sospettava
di cosa M soffrisse: «La pura follia».
«Certo, un libro del genere, ‘tradotto per la prima volta in
italiano nel 2012,
solo dopo quattro secoli dalla prima pubblicazione in lingua inglese’ - come riportato in una nota
a matita sulla seconda di copertina - non poteva mancare nella libreria di quel
matto di M»; così s’espresse tra sé, ma bonariamente, il medico pediatra pensando
all’amico ormai infermo di mente che rubava libri del peso di più di due chili
e di oltre duemila e trecento pagine.
Aprendo il libro al note-pad più sporgente e con la
scritta ‘book vi cant. viii’,
guardando sulla pagina del testo a fronte all’inizio del canto otto, Fabrizio
ripensa subito alle due stampe in inglese già lette e ritrovate nel fantasmino:
anche lì, d’altronde, c’erano le diciture ‘book
vi cant. vii’ e ‘book vi cant.
viii’, precedute dal titolo in grassetto for gea (part one) e for gea (part two). Anch’esse in aulico inglese e ora di nuovo
nelle sue mani, confrontate con le due versioni del libro, l’intraprendente
Mabillon medico pediatra ne riconosce facilmente l’origine anche se non il
motivo della loro trascrizione né, tanto meno, del loro essere nel fantasmino.
Che la storia, poi (che nei due canti tratta delle
vicende di una certa Mirabella il cui nome è spesso accompagnato dalla nota a
matita ‘ddt’), sia il ritratto di
una donna altezzosa e sprezzante che sta pagando le sue pene (condotta da un
asino e costantemente afflitta da Sdegno e Dileggio - così nel testo) perché
condannata dal tribunale di Amore proprio a causa del suo tracotante disprezzo,
sembra che nulla abbia a che vedere con la malattia di M.
Del testo, tuttavia, sia in inglese che in
italiano, Fabrizio legge quanto nelle due versioni era delicatamente ma
attentamente sottolineato, del canto sette, alla stanza Ventinove[4]:
Unworthy she to be
belou'd so dere,
That could not
weigh of worthinesse aright.
Indegna era lei d'esser tanto caramente amata,
Se non riusciva a dare il giusto peso al valore.
[1] Pare
che, in età più matura, mentre suonava il piano con gli occhi bendati e
sostenuto da giovani donne con le gambe in aria, davanti a conti e seducenti
marchese scoreggiasse a ritmo, efficacemente e sonoramente [Scusami mio
paziente e improbabile lettore, ma proprio non sono stato in grado di
trattenermi e non dirlo - ndr].
[2] In
realtà è innamorata del figliastro.
[3] ndr - Sembra che M per ogni furto
commesso ne abbia fatto un racconto. Ci sono alcune stampe, nel ‘fantasmino’,
che dal titolo, ad esempio, Come e perché
rubai l’Arturo, fanno pensare ad una strategia non solo pratico-logistica ma
anche di carattere filologico-letterario, perché ogni stealing books
sembra essere stato un ‘furto su commissione’ per un certo fantomatico Max
Neodimio, sedicente scrittore e storico d’arte conosciuto nell’invisibilità del
web e in procinto, pare, di completare il suo grimoire.
[4] È l’unica pagina che
riporta un note-pad verde.
Part II
(Marcel, invisible,
re-monte un escalier)
Dulcinea del Toboso VI
(The Faerie Queene)
in galera..
voleva andare in galera..
(Fabrizio, December
2th, 2017)
Così aveva cominciato a rubar
libri, fin quando lo scoprirono, lo denunciarono e, continuando lui a rubarne, infine
ad arrestarlo (il due novembre scorso), per esser poi mandato, qualche giorno
dopo gli arresti domiciliari e a seguito di visita medico-legale richiesta dal
tribunale, in una clinica psichiatrica[1].
Tra i libri rubati (Ventinove)[2],
sulla prima pila di dieci, da cui il medico pediatra aveva già tratto il
gigantesco La Regina
delle Fate, «Prezzo quaranta euro», era stato il suo commento finale su quel
libro, v’era un Duchamp, un mille pagine in
inglese (un Abrams Editions di pregio del 1970) curato da un certo Arturo
Schwarz.
«Euro millesettecento ventitré.. virgola settanta!»,
legge ora, con fare sbalordito, il candido medico pediatra, impressionandosi
anche nel veder riprodotto, sulla prima di copertina, un corpo nudo di donna col
viso rovesciato verso il basso e coperto da poco visibili capelli biondi, sdraiata
su fascine, col sesso slabbrato e un bec Auer in mano rivolto e proteso verso
l’alto. étant donnés: i. la
chute d'eau, ii. le gaz d'éclairage, era il titolo dell’opera,
letto quasi controvoglia in seconda di copertina.
All’interno del libro, una copia del racconto di M Come e perché rubai l’Arturo, datato dieci ma riferito
al primo giugno duemiladiciassette.
Sempre dalla prima pila, un libro dal titolo Unlocking Mallarmé, che per istinto il
medico crede di poter dare subito alle fiamme per avvedersi subito dopo che fa
parte della lista dei libri da riconsegnare, viene messo da parte dal medico
pediatra[3].
Un Music and Writing Literature, from Sand Via Debussy to Derrida, di un certo Dayan,
edizioni Ashgate duemiladiciassette, le cui sottolineature alla pagina
ottantuno non lasciano scampo e spazio a eventuali diverse tematiche che non
siano di sesso o di morte, sconcerta di nuovo il medico pediatra.
D’altronde, in questa nota vi si tratta e si spiega, secondo la teoria
del sogno classica (o freudiana), il significato del salvataggio da annegamento
da parte di un uomo nei confronti di una donna; e, da quel che sembra, il
salvataggio della donna da parte dell’uomo significa renderla madre. Infatti,
facendo riferimento alla nota a margine ‘cfr.
freud, psicologia della vita amorosa, v. ix p. 419’, nel nono volume
Boringhieri preso dalla libreria all’ingresso della bella casa di M e ora tra
le sue mani, il medico pediatra legge sottolineato:
‘Quando un uomo in sogno salva una donna dall’acqua,
ciò significa: egli la rende madre, il che equivale a: la rende sua madre.
Quando una donna salva dall’acqua un’altra persona (un ‘bambino’), essa si
riconosce nella madre di lui’.
C’è anche un racconto di M, all’interno di questo Boringhieri, che
riguarda proprio il salvataggio dall’acqua di una donna. Una certa ‘Maria II’,
infatti, com’è scritto all’inizio del racconto, dopo una breve passeggiata
lungo il greto del fiume, s’è gettata tra le acque fangose del Tevere. M, che è lì con lei, la trae in salvo,
rischiando di annegare anche lui [Non si capisce se sia una storia vera o solo
inventata da M, che qui accenna anche a un misterioso manoscritto - ndr].
Della ‘linea francese’, come ora Fabrizio
identifica tutti quei libri che denotano un certo interesse di M verso quella
cultura e quell’educazione culturale, ancora un Mallarmé: la grammaire
& le grimoire, dove l’attenzione di M si concentra soprattutto sul capitolo dedicato
all’Igitur (alle pagine ottantuno-centododici)
e sulla parola grimoire, in italiano grimonio, che significa: ‘libro magico’ (così
in una nota a matita alla pagina trentatré).
Seguono un libro sulle
implicazioni e l'uso etico di biotecnologie anti-amore e un nuovo Ulisse
einaudiano, ancora con residui di celophan all’interno, curato e tradotto da
Gianni Celati[4].
Ma tutti libri che all’apparenza
sembrano inconsistenti se messi in relazione con la malattia di M. «Ma perché,
poi, tutti stì libri così strani?», si chiede infatti Fabrizio che,
nella sua ingenua perplessità, prova ora anche a riderne e farne scherno, ma
bonariamente: un po’ alla Sancho, se così posso dire spigolando un po’ nel mio don
Chisciotte, che anch’io ho amato ed è sempre stato parte della mia
mentalità vagamente ‘letteraria’.
Dal fantasmino, intanto, Fabrizio
estrae il referto medico-letterario del dt. Mentòre, a cui è allegato il
racconto fatto da M il primo giorno del ricovero e scritto su espressa
richiesta dei medici, che volevano sapere il motivo psichico del suo ‘rubar
libri’; da cui poi, ovviamente, la decisione di non farlo scrivere più e
la iniqua e crudele distruzione di tutti i suoi libri. Di questo racconto, datato
sedici novembre e scritto su carta intestata dell’ospedale San Valentino, e
probabilmente un resoconto a memoria di un racconto già fatto, l’egregio
Mabillon, ora anche un po’ Panza, legge:
Una
grande impresa: come ho fatto a rubare La regina delle fate
Roma, 16 novembre 2017
Simulare un reato (rubar libri, fare stealing books
come fosse una malattia) per farmi arrestare (di un reato che meno mettesse a
repentaglio la mia vita) era il piano che volevo attuare: volevo farmi
arrestare per concentrarmi su ciò che m’era successo; e magari scriverne fino a
morirne.
Il caso ha
voluto, che ora son rinchiuso in un’asettica camera d’ospedale: anch’esso un
posto ideale per scrivere, come d’altronde i medici di qui ora mi invitano
carinamente a fare.
Il ventisette ottobre duemilasedici riuscii a mettere
in atto i miei propositi: avevo deciso, infatti, di rubare tutti i libri che a
me sembravano i più belli, i più interessanti, intriganti, affascinanti; prima
o poi, pensavo, m’avrebbero arrestato.
Sapevo dell’esistenza di gente specializzata in rubar
libri ma il far finta solo di sbirciare per poi infilare, proprio sotto le
videocamere, un libro nei pantaloni, mi diede una felicità immensa, pressoché
totale.
Ne rubavo uno per volta: erano tutti grandi, e ogni qualvolta
riuscivo a tornare a casa senza essere colto in fragranza di reato, la mia
felicità raddoppiava. E poi, mi piaceva l’idea di poter rubare pressoché
indisturbato; ero fiero di me e, anche se nel mio piano desideravo d’essere
arrestato, decisi di protrarre l’evento il più in là possibile.
Quel ventisette ottobre, dunque, fu per me una data
fatidica e ci vollero quasi dodici mesi e mezzo prima che finalmente
riuscissero ad arrestarmi.
Credo che inizialmente le librerie in cui andavo a
rubare tollerassero quei miei furti e facessero finta di non vedere: le
vendite, d’altronde, ormai scarse in tutte le librerie, ne avrebbero ben presto
imposto la chiusura, come recentemente è stato per la quasi centenaria e
romanticissima libreria Croce.
Il giorno in cui decisi di attuare il mio piano andai
a piazza Venezia, linea urbana Settanta. Conoscevo bene la libreria
Rinascita: personale educato e pragmatico, dimensione asfittica ma di grande
concentrazione; il contrario cioè delle più ‘confusionarie’ e accoglienti
Feltrinelli Repubblica o Mondadori di via Piave, dove pensavo di andare nei
giorni successivi, e comunque presto: dovevo arrivare a Ventinove! Ero dunque
‘a caccia di libri’. Il fatto è che in quel momento tutto questo,
meravigliandomi, mi procurava un piacere immenso.
Sulla prima corsia di destra, codice ottocentoventuno
punto tre (poesia elisabettiana), sullo scaffale in alto trovai subito quel che
volevo portar via con me: il meraviglioso La
regina delle fate. Certo, le novità non sono mai mancate a Rinascita e
sapevo che il The Faerie Queene era stato da poco tradotto e curato da
Luca Manini, un cinquantenne dabbene che, dopo solo quattrocento e passa anni,
è riuscito a regalarci la prima traduzione italiana dell’epopea più umana e
vitale scritta da uno ‘strano’ inglese esclusivamente per alimentare e forgiare
lo spirito - e non certo solo per ingraziarsi la regina Elisabetta, che di ciò
che lui scrisse non lesse mai nemmeno una riga.
Il The Faerie Queene tradotto in italiano dall’encomiabile Bompiani fu per me una
rivelazione sorprendente. Ho a casa l’edizione Penguin, curata dal Roche nel
settantotto, e non fu difficile arrivare ai canti sette e otto del sesto libro,
che lessi lì su due piedi mentre una distinta sessantenne mi scrutava deliziata
nel vedermi così ‘preso’.
Non diedi importanza alla donna. Volevo per prima cosa
verificare le parole ‘Unworthy she to be belou'd so dere, That could not
weigh of worthinesse aright’, stanza Ventinove del canto sette. Leggo così nel
Manini: ‘Indegna era lei d'esser tanto caramente amata, se non riusciva a
dare il giusto peso al valore ’.
«Come immaginavo. Forse non ha capito chi sono», penso
in quel momento subito dopo aver riletto mentalmente la mia traduzione: ‘Indegna era lei d’esser così [tanto amata] che non
era in grado di dar giusto peso al merito’.
Guardo di nuovo la donna che, a pochi passi da me,
ancora, con discrezione, mi osserva. Le sorrido con fare amichevole. Mi
risponde sorridendomi dolcemente, facendomi capire d’essere attratta da me.
M’avvicino a lei e, tremando un po’, le sfioro delicatamente una mano. Subito
lei mi risponde e m’accarezza a sua volta. Il caso vuole che, guardandomi negli
occhi e sfilandosi via una parrucca bianca taglio corto nature, ella m’appare
ora completamente calva e di una bellezza sconcertante. Con stupore e un po’ di
vergogna la guardo ancora, la osservo in viso e nei particolari del corpo e,
più i miei occhi bevono della sua bellezza, più m’accorgo che mi sto
innamorando di lei. Ci guardiamo ancora negli occhi; con intensità e serenità.
«Le piace Spenser», mi dice allora, con voce suadente
e armonicamente bellissima, sfiorandomi di nuovo e più teneramente la mano.
«Sì, il creatore dei luoghi mentali ideali per cui
vale la pena vivere», rispondo rapido fissandola affascinato negli occhi.
Il suo aspetto, i suoi modi e la sua incantevole
espressione esaltano il mio piacere di parlare con lei. Ne è pienamente
consapevole, e con un sorriso serio e intelligente mi fa: «Venga a trovarmi al
Goethe.. Dobbiamo parlare, io e lei. Mi chiamo Helene Kreutzer, sono dell’Institut,
e son proprio curiosa di sapere chi si nasconde dietro quell’uomo totalmente
immerso in quel libro, perché vederla così attratto e in quel modo, me lo lasci
dire, è stato che per me di una bellezza sublime».
Detto questo, sorridendomi ancora, la donna si volta
lentamente, lentamente depone la parrucca nella borsa e, allontanandosi e
voltandosi di nuovo verso di me, mi guarda seria negli occhi come per dirmi «ti
aspetto» e se ne va, lasciando nell’aria il profumo di sé e l’adorabile
immanenza della sua presenza.
Rimango sorpreso, affascinato e leggermente inebetito
da tanta bellezza.
«Per oggi tre chili e quasi tremila pagine possono
bastare», mi dico dopo un po’ come un cretino consapevole delle difficoltà cui
andrò incontro per fare asporto del libro: certo, volevo farmi arrestare, ma
andare a casa e cominciare a leggere Spenser era per me la cosa più importante
in quel momento. Volevo verificare se, di quanto letto nel Roche, la traduzione
italiana di quei versi fosse più plausibile di quella che avevo fatto io.
Certo, l’inglese antico non è mai stato il mio forte, ma quel che mi premeva
era soprattutto la conclusione ‘etica’, se così posso dire, che Spenser voleva
dare narrando della bella Mirabella.
Così finisce e s’interrompe il
breve resoconto di M su quel suo primo furto del ventisette ottobre dell’anno
scorso, scritto su carta intestata dell’ospedale e ritrovato nel fantasmino; e
dunque anch’esso tra le carte lette dal dt. Mentòre.
Tra le stampe ritrovate nel
fantasmino c’è anche un racconto di M sul suo incontro con la signora Helene
del Goethe Institut intitolato ‘L’Incantatrice Calva’ (così M, d’altronde, chiama
la donna per ghermirla a sé), ossia la breve cronaca di un incontro galante, almeno
così sembra che sia, fatto di ‘sguardi profondi’, ‘lievi toccate’ e ‘lente
penetrazioni’ - così nel testo - che però non sto qui a riportare perché
prolisso e pieno di quella viscerale passione che a me sembra la parte più
stupida dell’uomo che sto descrivendo.
S’erano incontrati per caso, alle
cinque del pomeriggio, alla sala Baldini, in piazza Campitelli, praticamente
alla Guillaume Apollinaire, la biblioteca italo-francese lì vicina e da lei
frequentata. Davano musica da camera. S’erano intravisti nell’androne del
palazzo, ma nel trambusto di gente non erano certi d’essersi riconosciuti. Per
M la donna in quel momento somigliava molto, forse anche per averne lo stesso
nome, all’Helen Mirren di The Cook, The Thief, His Wife & Her Lover,
che alcuni anni prima aveva intravisto per caso al Roma Fiction Festival -
insieme a Peter Greenaway, credo, come sembra desumersi da un inciso all’inizio
del racconto.
Alla fine del primo quartetto,
col bel Finale fugato del Sunrise haydniano eseguito da un’anziana violoncellista
amica di M e da un buon primo violino inglese - così dice lo scritto - con
sguardo più attento si sono cercati e, sorpresi e incantati l’uno dell’altra,
immediatamente riconosciuti. Dopo essersi guardati da lontano fissamente negli
occhi, si sono alzati e subito venuti incontro. Uscendo, e baciandosi nervosamente
come due giovani amanti nell’androne del palazzo, senza quasi parlare - così
dice il testo - sono letteralmente fuggiti. Il resto, ovviamente, lo lascio
alle fantasie di chi legge; io di quel che ho letto, rimanendo letteralmente di
sasso, non ne trascriverò nemmeno una riga. Dico solo che la frase «Dai vieni,
siediti su di me amore mio» è più che sufficiente per capire da quale humus
mentale quelle parole provengano. Inoltre, perché raccontarlo, perché scriverlo?
«Misteri dell’arte», si disse
infine Fabrizio ricordandosi di un quadro di M ancora nel suo studio[5].
Dal fantasmino, intanto, Fabrizio
ha ora sfilato un fascicoletto spillato di tre fogli a-quattro stampati
fronte-retro. È intitolato Igitur, ou la folie d’Elbhenon, con la
versione originale (di Mallarmé, ovviamente, come si deduce anche da una nota a
piè pagina) e una traduzione fatta probabilmente da M confrontata con quella del
de Nardis, come suggerisce la nota in alto a matita ‘cfr. traduzione de nardis’.
Il testo poetico è di per sé
incomprensibile, sia nell’originale, che nelle due traduzioni; almeno questo è
quel che pensa il medico pediatra. La lettura è difficile, c’è un utilizzo
enorme di connecteurs, ed M l’ha
scritto probabilmente solo per se stesso.
Quel che però salta subito all’occhio
dell’accorto medico pediatra sono dei piccoli cerchietti rossi con un punto al
centro e posti laddove, nel testo, il protagonista ‘decide’ (sì, letteralmente
‘quando decide, prende azione o
mette in moto l’azione, il movimento’, com’è scritto in una nota anch’essa
in rosso a piè pagina). Infatti, vicino a ogni cerchietto rosso c’è spesso
l’evidenziazione in grassetto di frasi in cui il protagonista ‘agisce’, come ad
esempio quella in francese
Minuit sonne - le Minuit
où doivent être jetés les dés. Igitur descend les escaliers, de l’esprit
humain, va au fond des choses : en « absolu » qu’il est
e la traduzione in italiano
Mezzanotte suona - la Mezzanotte, quando devono essere
gettati i dadi. Igitur discende le scale, dello spirito umano, va al fondo
delle cose: da ‘assoluto’ qual’egli è
fatta da M.
Le marcature in grassetto sono
spesso accompagnate dalla nota scritta in rosso e tra parentesi quadre ‘[grimoire]’, come a cercare di mettere in
luce ed evidenziare quelle corrispondenze foniche presenti nel testo mallarméano
che nella traduzione del de Nardis per M mancano.
‘diversa
sensibilità fonica o sonora’, così M giustifica, con nota a margine,
ogni sua correzione fatta al de Nardis.
«Hai preso il caffè?», chiede ora
la moglie di M al medico pediatra entrando leggermente affrettata dalla stanza
dello studio.
«Resti a pranzo con noi?», chiede
ancora la signora.
«No», risponde subito Fabrizio.
«Guardo queste carte e vado via. Continuo a far fuoco domani, se voi ci siete»,
dice con lieve noncuranza il medico pediatra, facendole però capire che
l’incombenza che gli ha appioppato è enorme.
«A proposito, hai letto quel
fascicolo.. quel fantasmino pieno di carte di M? Me l’ha riconsegnato Mentòre
l’altro giorno. C’è anche una sua nota, lì dentro. Credo sia la ‘giustifica’
alla distruzione dei libri di M. Un vero orrore, un vero abominio.. D’altronde,
M ha fatto di tutto per.. Ma lasciamo perdere.. diciamo soltanto che se l’è
cercata». Così chiude il discorso la moglie di M, ormai indaffarata in ben
altre questioni che non i libri del marito.
«Quando vai via, passa in cucina:
devo dirti alcune cose che non sono ancora riuscita a dire a nessuno, né
tantomeno meno a quel Mentòre», fa congedandosi [sembra che una donna di una
certa età sia venuta a farle visita - ndr].
Ripresa la cartellina bianca in
mano, Fabrizio riesuma ora la breve nota a firma del medico psichiatra. Data lo
stesso giorno del ricovero di M, come, del resto, è datato il suo racconto sul
rubar libri richiesto dal medico e spillato insieme alla nota, su cui ora
Fabrizio attentamente legge:
«Non sono un critico d’arte né di letteratura, ma
quanto leggo in queste pagine prova della serietà psichiatrica del soggetto in
esame. Come già riscontrato alla prima visita dai medici dell’ospedale
giudiziario che lo hanno visitato, il paziente è affetto da una forma di
distonia multiforme, ovvero il risultato di un evidente caso di bipolarità, ma
anche di doppia personalità, che porta il paziente ad uno stato di prostrazione
fisica e mentale che quasi lo paralizza, lo annulla. Il caso richiede che la
fonte di questo disturbo venga eliminata. Dagli scritti di M si evince,
infatti, una psico-deformante visione pseudo-letteraria che lo ha portato a
vivere, almeno così sembra che sia, una sua seconda vita, forse parallela ma molto
distante da quella che noi tutti viviamo.
Questo per quanto di mia competenza e come risulta
dalle analisi cliniche del paziente. Prof. Claudio Mentòre, medico neuropsichiatra,
Clinica San Valentino, Roma 16 novembre 2017».
«Quest’uomo già parla come mio marito», era stato il commento un po’
astioso della moglie di M quando in ospedale aveva letto la nota appena
consegnatale alla reception.
D’altra parte, in quell’occasione s’accorse pure che il marito non era
più lui: rideva spesso e sembrava contento; ma era sotto l’effetto di
psicofarmaci, che lui non aveva mai preso. Le sue posture, in effetti, erano
quelle tipiche di quei soggetti che vengono aggrediti da dosi massicce di
farmaci di questo tipo: i suoi movimenti erano completamente fuori controllo e
un lieve blefarospasmo gli deturpava l’espressione del viso. Sia il fratello,
che un amico neuropsichiatra di M, chiesero allora al dt. Mentòre quali farmaci
fossero già stati somministrati e quali venivano ora ‘dati a bere’ al paziente.
La risposta del medico psichiatra rimase ovviamente molto vaga. «È molto
probabile che stiano continuando il lavoro già avviato al P. e che in questa
clinica siano interessati a tenere occupato un posto letto», fu il commento
finale del fratello gemello di M. D’altronde,
pare che inizialmente M dovesse esser ricoverato presso l’OPG di Aversa; ma
madame Fortuna volle che non ci fossero posti, come in nessun’altro dei sei
oppigi nazionali.
Tra le carte riconsegnate dal dt.
Mentòre, in effetti, c’erano anche alcuni scritti riguardanti l’opera di Marcel
Duchamp, i cui strani titoli potevano già suggerire un qualche indizio sulla
malattia di M, perché il medico psichiatra vi aveva aggiunto la nota:
«L’eccessiva vastità d’argomentazione e il modo contorto e confuso con cui alcuni
temi vengono trattati, con un uso spropositato di connettivi e con ripetute e
affastellate digressioni nel testo, attende e richiede un analisi di tipo
neuropsichiatrico».
Per completezza aggiungo che in
questi testi, letti ora anche da Fabrizio, si parla soprattutto e distesamente
di ‘visione’ e di ‘quarta dimensione’, motivo già di per sé sufficiente per cui
il dt. Mentòre, secondo il medico pediatra, aveva deciso per la distruzione di
tutti i libri di M.
Tra l’altro, in una stampa del fantasmino,
a commento del suo ultimo quadro ancora in esecuzione e praticamente non finito[6], M,
in una nota a piè pagina, aveva tenuto a specificare:
«È spesso nell’invisibilità che avvengono cose ancora
inconcepibili, stupefacenti, irrazionali, forse inenarrabili».
e lo stupore del medico pediatra
che in quel momento leggeva la nota arrivò immediatamente alle stelle.
[1] Da dove scomparirà il primo di dicembre.
[2] Dei
Ventinove racconti fatti in seguito da M dopo ogni furto, nel fantasmino ce ne
sono alcuni, due dei quali (che sono quelli che qui di seguito saranno
trascritti), datati 16 novembre 2017, ma riferito al 27 ottobre 2016, il primo
(Una grande impresa: come ho fatto a
rubare La regina delle fate), e 10 giugno 2017, ma riferito al primo giugno
(Come e perché rubai l’Arturo), il
secondo, sono quelli relativi al primo furto e a quello considerato da M il più
esaltante; che sono poi tra i documenti letti dal dt. Mentòre, come deduce Fabrizio
dalle insistenti sottolineature a penna rossa fatte dal suo collega medico
psichiatra.
All’inizio del secondo
racconto appare però la strana e ambigua nota: ‘Il cranio umano è composto da
Ventinove ossa. Nella Smorfia il numero Ventinove è il padre dei bambini (il
pene). È il numero atomico del rame (Cu). La Ventinovesima
Proposizione di Euclide è la prima ad usare il postulato
delle parallele. È un numero primoriale, divisibile solo per uno e per se
stesso. È il terzo primo primoriale, dopo cinque e sette e prima di trentuno e
duecentoundici. È il decimo numero primo, dopo due, tre, cinque, sette, undici,
tredici, diciassette, diciannove e ventitré e prima di trentuno e trentasette
(cfr. Sequence A000040 in On-Line Encyclopedia of Integer Sequences, The OEIS
Foundation, may 2017)’.
[3] Probabilmente perché
rubato alla Croce, in seguito al quale la notte del due novembre M sarà
arrestato.
[4]
Rubato il 16 giugno scorso, M ne fece un racconto tutto incentrato sulla frase:
Ineluctable modality of the visible: at least that if no more, thought
through my eyes, tratta dal terzo capitolo dell’Ulisse e di cui, presto, qui si parlerà ampiamente.
[5] Un
piccolo quadro, un cinquanta per ottanta datato ventisette ottobre duemila
quindici, un monocromo eseguito esattamente un anno prima del primo furto e,
pare, solo in una notte, ritrae, a mezzo busto, una donna calva d’estrema
bellezza. I tratti del viso sono molto sfumati, ma presentano dei lineamenti
sorprendentemente ‘armonici’ (in realtà, sembra si muovino e che anaglificamente
acquistino profondità) e seducenti. Non credo sia solo un caso che porti
il titolo di Helene e che, per
completezza, riproduco a fine capitolo, se non altro perché, anche se solo in
parte, dà ragione di certi comportamenti di M, su cui Mentòre, e forse anche il
fratello gemello di M, potranno trarre alcune conclusioni - ndr.
[6] Marcel (invisible) re-monte un
escalier, che riporta, nel retro, la data d’inizio del quadro: 2
novembre 2016 [la sera del 2 novembre 2017 M veniva arrestato - ndr].
Helene (M)
(50 x 70 cm;
27 ottobre 2015)
Marcel (invisible) re-monte un escalier (M)
(100 x 120
cm; 2 novembre 2016 - non finito)
Dulcinea del Toboso VII
(The Creative Act:
Marcel Duchamp)
To all appearances, the artist acts like
a mediumistic being who,
from the labyrinth beyond time and space,
seeks his way out to a clearing.
(M. Duchamp,
The Creative Act)
Trascrivo qui un racconto di M
occasionato dal furto ch’egli fece di un libro dedicato all’opera completa di
Marcel Duchamp, un libro costosissimo di un certo Arturo Schwarz (Abrams 1970) il
cui furto però ben testimonia del grado di incoscienza cui già in giugno M era
giunto, perché rubare senza valutare i notevoli rischi e le compromissioni
personali che con quell’azione M avrebbe dovuto affrontare per sé e per la sua
famiglia, significa non aver più quelle capacità di discernimento che obbligano
le persone di buon senso a porsi dei limiti e praticare quelle virtù che ormai
M in quel momento sembrava aver completamente perso: la prudenza e la misura (o aurea mediocritas).
Nel trascrivere, ovviamente, ho
tagliato e tralasciato le parti meno interessanti, o per lo meno quelle che non
hanno alcuna attinenza con la malattia di M.
Tuttavia, non ho trascurato di
segnalare quanto nella scrittura e nel comportamento di M ci sia di morboso e
di clinicamente patologico che, oltre a dare visibilità alla malattia di M,
avvalora ancora una volta la decisione presa dal dt. Mentòre di far fuoco di
tutti i suoi libri.
come e perché rubai l’arturo
roma, 10 giugno 2017
Quando rubai l’Arturo (dieci giorni fa, il
primo giugno), ero euforico, quasi fuori di me: volevo festeggiare e consacrare
con un memorabile gesto (rubando appunto Le Grand Livre), il mio
incontro con Erre Emme.
Le avevo da poco regalato un Duchamp, un bel
Pierre Cabanne del duemila quattro (Marcel
Duchamp. Artista culto del Novecento), ricco di belle immagini e con un
testo abbastanza scorrevole, ma con una dedica un po’ banale: «Almeno ogni
tanto penserai a me. M». Così avevo scritto stupidamente sul frontespizio. Ma
quando contenta e grata venne a ringraziarmi, ero sotto un albero e come un
folle scriteriato le dissi improvvisamente che mi sarebbe piaciuto fare l’amore
con lei.
Sbalordita, ma non preoccupata, Erre Emme sorrise e,
attendendo una mia ‘mossa’ successiva, non disse nulla.
In preda al panico, cominciai allora a farfugliare
frasi tipo: «È un’attrazione più mentale che fisica.. Mi sono spinto troppo in
là.. Non volevo essere così osé.. Scusami micetta»; e altre scemenze che ora
non ricordo più.
Il fatto è che subito dopo cominciai a scriverle
lettere d’amore, e più gliene scrivevo più mi sembrava di non riuscire a farle
capire quanto da lei fossi attratto, quanto, ormai avvinto dalla sua bellezza,
ero preda del desiderio più profondo di lei, nel senso di volerla sentir mia, poterla
amare e immergermi completamente in lei, mentalmente e fisicamente, nonostante
quanto relativamente poco ho sempre creduto di valere.
Via e-mail, come un bambino, le raccontavo anche di
alcune mie fantasie erotiche mattutine, del tipo «Stamattina, facendo la
doccia.. » etc.; continuamente le dichiaravo folle amore, per la sua bellezza
e, soprattutto, per il suo inconfondibile, inebriante e magico odore; mi
preoccupavo di lei quando ultimamente m’accorsi come non stesse bene per
niente: l’amor mio era arrivata a pesare quarantesei chili su
centosettantacinque centimetri d’altezza.
Ebbene, il primo giugno duemiladiciassette Erre Emme mi
diede un bacio. Non racconto tutti i particolari di quel che avvenne dopo, ma
certamente quelli furono i giorni più entusiasmanti e più belli della mia vita
e ne farò tesoro per sempre, almeno fin quando vivrò.
E come riuscimmo a baciarci? Non ci credo ancora,
perché imbranato come sono, non m’aspettavo assolutamente che una donna
meravigliosa come lei potesse gradire che le mie labbra si poggiassero sulle
sue e, infine, mi facesse godere di lei aspirando a pieni polmoni l’odore del
suo alito, succhiando e godendo fin dentro l’anima del sapore della sua lingua
e della sua saliva.
ndr - Finché sarò io a trascrivere, taglierò dove giusto
a me sembra che sia.
Eravamo andati a fare un giro per Roma. C’eravamo dati
appuntamento in modo semplice (così, quasi senza pensarci) e solo per vederci e
ridere un po’ facendoci una passeggiata in centro. Amante della bellezza e
dell’arte, non ebbe esitazioni; le piaceva, poi, discorrere con me: le ero
simpatico, ecco tutto. Mi venne incontro in sandali.. era bella e profumata di
sé come non mai..
Arrivati in via Veneto, parcheggiammo la macchina e
raggiungemmo subito la cripta dei cappuccini, l’ossario del Seicento che fa
ridere chiunque v’entri. Piena di scheletri e di composizioni ossee in varie e
strane forme, fatte solo con le ossa dei frati, dei gentili e dei famigli
legati a quella chiesa barberiniana, entrando Erre Emme s’era coperta le
spalle. Aveva una pelle di seta l’amor mio e, vedendola coprirsi, ebbi un breve
tuffo al cuore: quanto avrei voluto baciarle una spalla mentre, contenta,
rideva di ciò che in quel momento le dicevo! Inoltre, devo dire, m’accorsi
semplicemente ch’era felice di stare con me, e me ne accorsi perché la sua
bellezza, per questa sua felicità, aumentava oltre ogni misura, e quel che
avevo in mente di fare, cioè di baciarla su una spalla, probabilmente le
avrebbe potuto far piacere.
E poi, Erre Emme aveva un sorriso sconvolgente; ogni
tanto, mentre rideva, s’emozionava, diventava tutta rossa e mi guardava
fissamente e quasi incantata negli occhi. S’aspettava, e ne sono consapevole
solo ora, che da un momento all’altro la baciassi. Non capivo; come un bambino
stupido e capriccioso, non capivo. Incredibile!
Anche a santa Maria della Vittoria, davanti alla Teresa
in estasi, ci divertimmo da matti. Lei guardava la santa; io le indicavo di
guardare chi, con marmorea testa, la guardava dai palchetti (la famiglia Cornaro
al completo) dicendole: «La donna in preda all’estasi non è certo una santa, ma
una donna in carne ed ossa e il marmoreo sguardo degli spettatori che vedi,
anche del più ingenuo di loro, te lo fa capire ampiamente. Infatti, è uno
sguardo distratto e, dunque, di tipo fisico. D’altronde, se
guardi bene, vedi come la santa freme col seno? Vedi come s’offre a chi la fa
godere divaricando leggermente le gambe? Vedi come l’angelo sia in procinto di
spogliarla? E a cosa credi pensasse il cavalier Bernini quando la scolpì?
Guarda dove l’angelo punta la sua freccia; e guarda la posizione del braccio
destro della santa: non ti sembra prossima a prendere in mano il sesso del
bellissimo angelo?».
Mentre le dicevo tutte queste cose, mi venne d’incanto
d’accarezzarla lievemente: dapprima le mani, poi delicatamente le braccia e le
spalle, per sfiorarle, infine, inavvertitamente il seno. Rossa come non mai, mi
sorrideva un po’ malinconica: c’era qualcosa, d’altronde, che tra noi non
andava. Infatti, mi ostinavo a non capire che s’aspettava un bacio da me.
Alle undici e mezzo, infine, davanti alla lanterna
borrominiana di sant’Ivo alla Sapienza, due stupidi gelati in mano (mangiati
con gusto per giunta) non mi davano modo d’avvicinarmi al suo viso. La divina
pietà volle però che alla fine, e forse impietosendosi anche lei giudicando
ridicoli tutti quei miei stupidi sforzi, togliendomi dalle mani il gelato
letteralmente mi si offrì, parandosi improvvisamente di fronte a me.
Guardandomi fissa negli occhi e, con un malinconico mezzo sorriso sulle labbra,
sembrava volesse dirmi: «amore mio... voglio vedere adesso che fai».
Cominciai, allora, ad accarezzarle delicatamente i
capelli e ad inondarla di baci. Due anziani, intanto, passeggiando sotto i
portici michelangioleschi dell’archivio di Stato, ci guardavano stupefatti per
l’ardire, ma anche un poco estasiati, mentre io, completamente sotto shock, non
credevo si potesse vivere e gioire così tanto. Pensavo che, da un momento
all’altro, potesse scoppiarmi il cuore o esplodere il mondo.
Senza più parlare, se non guardandoci negl’occhi,
raggiunta casa sua ci siamo amati. È stato il giorno più bello della mia vita e
spero solo che per lei sia stato almeno un bel giorno da ricordare. Alla fine,
contenti, sazi e grati l’uno dell’altra, a lungo e con reciproca trepidazione
ci siamo salutati come due teneri amanti.
Sulla soglia che dà sulle scale, riempiendole il viso
di baci e stringendole ancora una volta i piccoli capezzoli tra le labbra, Erre
Emme ha un suo ultimo splendido sorriso per me. Mentre lentamente scendo le
scale, infreddolita e seminuda, mi guarda ancora dal ballatoio del suo piano
sporgendosi un po’ alla ringhiera. Le faccio cenno di non sporgersi troppo; ho
paura che l’emozione possa giocarci un brutto scherzo. Ma da sotto, tra gli
svolazzi della vestaglia intravedo ancora una volta il suo sesso meraviglioso
di cui ho goduto fino ad un attimo prima tra le lenzuola. Le sorrido, le mando
di nuovo un bacio e un ti amo con un flebile filo di voce, che lei
riesce comunque a percepire perché, portandosi dapprima le mani alle guance per
poi sorridermi seriamente e arrossire contenta, sottovoce m’esprime la sua
felicità con un suo breve wow!, mandandomi un bacio. Vacillando un po’, ho
ancora in mente la mia bocca e il mio viso tra i meandri del suo corpo e del
suo sesso, con la sensazione di sprofondare di nuovo scendo un’altra scala,
attraverso il buio corridoio e l’androne e, anche se un po’ frastornato e fuori
di me, mi ritrovo in strada.
La prima cosa che mi venne in mente in quel momento,
esaltandomi non poco, fu di andare alla Croce: vi avevo visto il Duchamp
in versione ‘pregiata’. «Quale impresa più grande!», mi dissi
sconsideratamente.
«Credo che questa volta mi freghino», pensai anche. Ma
non fu così. L’ultima volta che avevo rubato alla Croce (il Mallarmé),
in effetti, m’ero accorto - e consapevolmente perché m’ero mostrato alle
videocamere - che l’uomo all’uscita volesse farmi capire che aveva subodorato
l’idea ch’io avessi fatto asporto di libri. Ma andai lo stesso: «D’altronde -
pensai - è l’unica libreria a Roma che ha l’Arturo»; e m’accorsi in un
istante che ero pronto a sfidare l’hasard.. giocandoci a dadi.
Dal Portico d’Ottavia alla Croce fu un attimo.
Le cinque del pomeriggio. Entro in libreria. So dov’è
il Duchamp e, certo, il pensiero di portarmelo a casa non solo mi esalta
perché sarebbe lo stealing books e l’impresa bibliofago-libresca più
grande della mia vita, ma perché l’idea di sfidare con arte la sorte mi diede
una forza mentale e un coraggio enormi.
Ma devo agire con discrezione e astuzia. «D’altronde è
sempre un Duchamp - pensai - in cui l’inframince agisce putting art in the service of the mind, but
also putting the mind in the service of Duchamp’s art»[1],
battuta felice con cui Jay Russell aveva chiuso il suo simpatico e formidabile
articolo su Duchamp e l’inframince che avevo letto alcuni giorni prima.
Faccio il mio giro: letteratura inglese, scuola di
Francoforte, linguistica, semiologia. Do un’occhiata se c’è l’ultimo Chomsky:
ancora Power and terror. Ripenso all’improvviso a Emme Erre, al magico
odore del suo corpo e al sapore inebriante e sconvolgente del suo sesso.
L’impressione è ancora forte e non riesco a togliermela dalla mente. Vorrei
tornare indietro. Sorrido di me per l’emozione provata e, un po’ più convinto,
novello Igitur decido di dar corso agli eventi. Proseguo così verso il Marcel.
«Settecento.. settecento quaranta..», mi dico leggendo
tra me i codici sugli scaffali. M’avvicino con fare distratto ai volumi in quel
momento lì di fronte a me: un nuovo Borromini, un Ashgate duemiladiciassette,
Borromini’s Space a cura di una giovanissima storica d’arte inglese. È
pieno zeppo di riproduzioni a carboncino degli emblemi decorativi di palazzo
Falconieri a via Giulia (e Lungotevere dei Vallati) ma anche di calcoli
cripto-matematici che, riferendosi ampiamente al Magnes sive De Magnetica
Arte, Borromini andava elaborando paventando l’idea geometrica (e mentale)
di una possibile quarta dimensione. Certo, il suo rivale a suo modo v’era
riuscito, ma creandone solo l’illusione. Nel suo Estasi di santa Teresa,
infatti, due fenomeni distinti sono uniti e amalgamati insieme: l’estasi
spirituale della santa; l’estasi fisica della donna. Ma tra le due dimensioni
il legame è solo e banalmente analogico: vedi l’una, ma non vedi né senti l’altra.
Il più poetico Borromini, d’altronde, conoscitore dell’arte magica
di Athanasius Kircher suo amico, aveva altre idee.
Il Duchamp, intanto, trepidava nell’attesa di
vedermi: lo ‘sentivo’. Infatti, e strano a dirsi, come m’avvicinai a lui
inspiegabilmente, come trasalisse, con un sobbalzo si spostò. Prima di
toccarlo, preferii solo sfiorarlo, mentre con un po’ di sprezzatura agguantavo
l’altro libro a lui vicino.
Sfogliando quest’ultimo, pensando all’Arturo, per caso m’accorgo di alcune
sottolineature: «Ma come? Un libro nuovo già sottolineato? Che meraviglia!», mi
dico stupefatto. Chiudo il libro e rapidamente leggo il titolo: Carla Brilli, Alcune
considerazioni sull’arte e il pensiero di Marcel Duchamp, Laterza duemiladiciassette.
Entusiasta, a piè pagina leggo sottolineati, e su più
pagine, alcuni rimandi (o cfr.) a miei articoli su Duchamp. «Sto
impazzendo.. la Brilli
mi cita! Che meraviglia!», penso tra me come un ebete; «e vicino al Marcel!»,
mi infervoro vedendo quel libro con all’interno il mio nome affiancato allo Schwarz.
Il mio entusiasmo è alle stelle. Depongo il libro che
ho in mano e, mentre penso: «Proverò un’altra volta a portarmelo a casa..
magari da un’altra libreria», delicatamente e con ossequio sollevo dallo
scaffale il Duchamp, Le Grand
Livre.
ORA, tra le mie mani, sembra che il libro si sfogli da
sé, leggero, come volesse raccontarmi quel che vedo tra le sue pagine. Le
immagini le conosco (quasi tutte), ma sono più belle perché meglio riprodotte.
Ecco però che alcuni testi in inglese che accompagnano e guidano al Grand Verre, ovvero à La
Mariée mise à nu par ses célibataires, même, m’emozionano.
Leggo, infatti, nel testo:
the creative
act..
ndr - L’editore che ha voluto stampare questa
trascrizione ‘a verbale’, ha qui deciso di tagliare a profusione su tutti
quegli argomenti che esulano dall’obiettivo di dare una logica spiegazione
della malattia di M.
Segue, infatti, tutta una enorme ‘pippa’
su Marcel Duchamp, l’inframince e la quarta dimensione di cui non si
comprende quasi nulla; questo, d’altronde, fu l’ultimo commento di Fabrizio,
che in quel momento chiudeva il fascicolo e lo riponeva nel fantasmino. Tra
l’altro, c’è anche uno strano modo, quasi mistico, di concepire il concetto di
‘apparizione’, inteso cioè contraddittoriamente come ‘parusìa’, ossia di
qualcosa che è al di là di ciò che appare.
Della dinamica invece di come
avvenne il furto non se ne sa nulla, perché M stesso ne tralascia la
ricostruzione quando comincia a divagare sulla quarta dimensione su cui, sostenendosi
al concetto di inframince, M si produce in alcune sue riflessioni sulla
natura ‘fisica’ delle diverse e profonde emozioni che certe parti del corpo
della signora Erre Emme gli hanno procurato.
Una cosa, tra le altre, che però
lascia perplessi, è quando M fa cenno a un certo Max Neodimio, sulle cui
‘tracce’, afferma, egli sta scrivendo il suo grimoire, ma senza darne
ulteriori ragguagli.
Ovviamente, non mi dilungo su
cosa e come si svolge il seguito di tutta questa vaga esposizione di M sulle
sue concezioni artistiche e le sue velleità narrative perché, oltre ad essere intrisa
di termini desueti e percorsi mentali tortuosi, M - così come scrive e lascia
intendere - sembra intenzionato a crearsi
uno spazio mentale ch’egli considera ‘illimitato’ (annotando nel testo la
parola ‘radura’); una sorta d’iperspazio, dunque, da lui stesso inventato solo
per sé in cui deporre, ‘feticisticamente’, i suoi pensieri e i suoi ricordi più
felici.
[1] «Mettendo l’arte al servizio della mente, ma
anche la mente al servizio della Duchamp’s art» (mia traduzione - ndr).
Dulcinea del Toboso
VIII
(Ulysses:
an incredible Bloomsday)
Shut your eyes and see..
(Ulysses, III)
Riproduco qui, e quasi per
intero, un altro racconto del giugno scorso scritto da M qualche giorno dopo lo
sbalorditivo stealing books ch’egli
fece dell’Ulisse perché, oltre a render bene l’humus mentale e il
grado di delirio in cui M versava già a quel tempo, può anche ben giustificare
la condotta che il dottor Mentòre ebbe nel decidere di dar fuoco a tutti i suoi
libri, considerati a tutt’oggi come la più probabile e chiaramente ineludibile
ragione della sua strana affezione e quindi, per logica conseguenza,
anche della sua sparizione.
Come l’ebbe tra le mani Fabrizio,
che l’aveva testé sfilato dal fantasmino in attesa che i Ventinove in seconda
incenerissero in toto nel camino, n’era rimasto incuriosito proprio perché
v’erano moltissimi riferimenti all’Ulisse, il libro che, tra i primi[1] ad essere incenerito, era anche tra i
più amati da M, che gliene parlava spesso, insistentemente e con dovizia di
particolari, nonostante non destasse in lui la benché minima curiosità.
Fatto assai insolito e curioso,
tuttavia, è che resta ancora da capire, dopo aver letto queste note, se M
scrivesse solo per sé o per far poi leggere a qualcuno i deliri che andava
scrivendo, e che, mi si lasci dire, qualsiasi editore di buon senso, anche
fosse sotto tortura, non pubblicherebbe mai. D’altronde, M non aveva mai
scritto prima d’allora, né tantomeno pubblicato nulla.
Una donna, in effetti, rimasta
nell’anonimato ma pare conosciuta dal medico pediatra (sembra che la incontri
ancora nel suo condominio quando va a far visita a una sua amica, anziana anche
lei), qualche mese prima aveva rivelato al pediatra stesso, e con vivo e grave
disappunto, che il suo amico M le aveva scritto delle lettere [e forse inviato
anche delle rose bianche - ndr],
e dunque gli si raccomandava affinché, parlando appunto col suo amico, ciò non
accadesse più.
Non so dire come questa donna
conoscesse M; posso però dire che, almeno agli occhi di Fabrizio, per il
portamento, lo sguardo e il contegno che dimostrava, essa appariva come una
donna altera, ‘candida e d’estrema bellezza’: proprio così s’espresse il medico
pediatra davanti al gemello di M che gli chiedeva chi fosse e perché M le aveva
scritto. Riguardo questa faccenda, però, Fabrizio si ricordò improvvisamente, e
non si capisce come e perché, delle due stampe in antico inglese intitolate ‘for gea’, quelle che, trascritte da
Spenser e narrando di una certa Mirabella, riportavano anche una strana nota in
inglese che M aveva aggiunto a piè pagina a margine e forse a commento dei due
scritti.
Infatti, nelle due note a piè pagina delle due stampe spenseriane
intitolate ‘for gea’ e che all’apparenza
avrebbero potuto dar adito a chissà quali pensieri nel medico pediatra era
scritto:
Attention to the lengthy but generally neglected Mirabella episode of Book VI
of The Faerie Queene reveals discomfort with any challenge to accepted
hierarchies of class and gender. Surrounded in the Book of Courtesy by
numerous erring women who are rescued, forgiven, and reformed, she alone is not
only punished for her particular discourtesy, but is punished in such a way as
to leave no hope for redemption. Even so, she refuses Prince Arthur's offer of
help for fear of some greater ill
than the endless penance imposed on her by Cupid.
Una questione assai spinosa, tuttavia,
che però il circonciso Fabrizio avrebbe voluto far passare sotto silenzio nel
timore di non essere creduto, perché le pazzie di M arrivarono qui al limite e
all’estremo segno della follia che di lui s’era impadronita, fu quel che M
aveva scritto in quelle lettere, perché pare che quel ch’egli scrisse già a
quell’epoca, sono le cose più turpi e indecenti che un uomo sciagurato e
meschino come lui avrebbe potuto scrivere a una donna di tal fatta.
Su questo credo non ci sia alcun
dubbio, considerato anche che, secondo quanto riferito al fratello gemello di M
dal medico pediatra che le aveva lette e sbirciate tra le bellissime mani di
quella donna, M in quel momento sembrava avesse già ben compromesse le sue
facoltà mentali; ovviamente quelle che nell’ordinario son previste in un uomo
della sua età.
In quel periodo, infatti, M aveva
anche ricominciato freneticamente a dipingere e, a detta della moglie, fin
quasi all’ossessione. Negli ultimi mesi, se non dormiva, spesso si chiudeva nel
suo studio, s’accompagnava con vino rosso, cioccolato con nocciole, caffè e
sigarette e cominciava a dipingere, in silenzio. La moglie, intanto, si
preoccupava per quanto M mangiasse pochissimo e dormisse tantissimo. Dai titoli
dei quadri, e dalle sue meticolose descrizioni, poi, si potrebbero evincere o
dedurre molte cose con cui efficacemente spiegare lo stato mentale di M e con
esso le ragioni da riconoscere al dt. Mentòre: ad esempio, il titolo Den
Mutter!, con sottotitolo: La grotta di Montesinos, dato a un quadro
recente e accompagnato dalla nota datata..
Ma di questo parleremo più
avanti, quando sarà il medico pediatra a parlarne nel serrato colloquio col
gemello e la moglie di M, cosa di cui si tratterà meglio e approfonditamente
nel capitolo che seguirà.
Del resto, quel che emerge nel
racconto che a breve, dopo averlo ben vagliato, trascriverò qui sotto, è il
modo con cui, senza attenersi ad un benché minimo principio di coscienziosità o
d’onestà morale, M tendesse a piegare e assoggettare alle sue spregevoli voglie
la volontà di qualsiasi donna potesse capitargli a tiro: nel caso specifico una
ragazza di ventitré anni.
«L’età di suo figlio..», fu
infatti il commento stizzito del medico pediatra mentre leggeva.
Del racconto tralascio ovviamente,
com’è ormai mia consuetudine, le scene inenarrabili, e non solo quelle fatte di
sesso, le cui descrizioni fanno rabbrividire chiunque abbia un po’ di buon
gusto e di senso comune, ma anche quelle costellate d’innumerevoli divagazioni
e alambicchi mentali sull’arte, divenuta ormai pratica corrente di M quando,
nei suoi ultimi scritti, sprofonda o scende ai suoi livelli più infimi e
pretende di giustificare a suo modo il perché v’approda.
D’altronde, in altre note
riguardanti l’arte di Marcel Duchamp, M aveva scritto più volte:
scendere o salire.. tanto per me fa lo stesso.
Non so ben dire cosa significhi
perché non son stato ancora in grado di stabilire quale ne sia la fonte, anche
se riconosco che v’è qualcosa di diabolico in questa frase. Leggendo questa
nota però mi chiedo: se è lui che scrive, sembra sia ormai allo sbando; ma se
sono parole scritte da qualcun altro, ed io questo ancora non lo so, significa
che M ha fatto tesoro di quel che ha letto e ora lo segue alla lettera. [Del
resto, e sia detto per inciso e senza vestire i panni di un Polonio
improvvisato, non posso negare che a volte qualcosa di quel che M scrive tocca,
e assai percettibilmente, l’anima – ndr].
Il medico pediatra, nel leggere
il breve racconto tutto d’un fiato, rise a crepapelle più d’una volta, fece
commenti salaci, indignandosi poi per alcune descrizioni che, per la verità, è
bene ch’io censuri, perché quanto v’è scritto non credo possa ripeterlo o
trascriverlo qui senza poi dovermene pentire.
Ecco, dunque, quel che M scrisse
su quanto gli accadde il sedici giugno scorso.
Sulla
spiaggia di Sandymount
(A great wonderful incredible
super spectacular Bloomsday)
Roma, domenica 18 giugno 2017
Incredibile! Pazzesco! Illogico! Fantastico!
Stupefacente! Irrazionale! Irreale!
Da quando mi sono innamorato (anche se non
corrisposto) me ne succedono di tutti i colori.
L’altro ieri, venerdì sedici, finalmente son riuscito
a rubare l’Ulisse. Era almeno da un anno che volevo comprarlo ma l’altro
ieri, non so perché, m’è venuta improvvisamente voglia di rubarlo.
Forse la ricorrenza, o più probabilmente per quel che
m’era successo nel pomeriggio, la sera, per festeggiare o commemorare quel
fantastico giorno che si svolse e dispiegò tra l’erotico e il letterario, volli
rubare l’Ulisse nella nuova traduzione einaudiana di Gianni Celati, di
cui già all’uscita se ne parlava come di una ‘nuova opera’ completamente
diversa da quella storica e datata curata dal De Angelis per i Meridiani oltre
quarant’anni fa.
Alla Mondadori di via Piave, la cui misteriosissima
direttrice-proprietaria espresse una volta il suo apprezzamento per la
scrittura vintage,[2] son riuscito a trovare l’Ulisse
solo dopo averne chiesto informazioni al nuovo commesso: sullo scaffale non ce
n’era neanche uno perché, pare, ne avessero già rubate tre copie in sei mesi.
«Così poche in tutto questo tempo?», mi son chiesto
sbadatamente a voce alta, portandomi poi le dita alle labbra per lo stupore per
quel che avevo detto.
Il fatto è che in quel momento mi sentivo anche pronto
a farmi arrestare. Sicuro di me, sfidavo la sorte, l’hasard. D’altronde,
dopo aver assaporato con profondo piacere del sesso giovane, chiunque si
sarebbe sentito pronto ad affrontare l’ignoto come io, novello Igitur,
in quel momento avevo deciso di fare.
Ma andiamo per ordine, perché di fatti accaduti
l’altro ieri, ce ne sono molti.
Venerdì, dunque, verso le quattro del pomeriggio, dopo
aver accompagnato mio figlio a Fregene per una festa di compleanno, mi prende
una strana e incredibile voglia di fare una passeggiata in riva al mare.
Non so spiegarmi il perché: infatti, nonostante
l’abbigliamento e la mia abituale repulsione per il sole, è come se sentissi
nell’aria che qualcosa di stupefacente si stesse realizzando; e da sé, senza
alcuna mia volontà.
Preso un caffè nel primo stabilimento che incontro,
m’incammino dunque, a passo lento, lungo la spiaggia e, dopo poco, giocando col
pensiero e dicendomi distrattamente ‘Thalatta! Thalatta! La nostra grande
dolce Madre’, mi ritrovo pago e compiaciuto sul bagnasciuga. L’aria è
frizzante: ci sono un bel sole e una brezza piacevolissima.
Certo, con tutti i capelli al vento, in giacca e
cravatta e scarpe nere coi lacci, m’accorgo subito che la poca gente presente,
incuriosita, mi lancia sguardi stupidi e increduli.
Lascio correre; non me ne preoccupo; non me ne importa
assolutamente nulla. Il mio pensiero, d’altronde, guardando il mare, la
spiaggia, i riflessi del sole sull’acqua, è ora interamente assorbito dall’amor
mio.
Tuttavia, con la sinistra in tasca e strofinando senza
pensare il mio fazzoletto rosso, scorgendo per caso sulla battigia alcune
conchiglie rotte amalgamate ad altro putridume, mi vien subito in mente il
moccichino verdemoccio del giovane bardo gesuita che, di giovedì alle undici,
passeggia inquieto sulla spiaggia di Sandymount, il sedici giugno del mille
novecentoquattro. Da quel momento il pensiero dell’Ulysses
m’accompagnerà per l’intera giornata.
Malgrado ciò, pur pensando intensamente e con
grandissimo piacere al libro, non era affatto nei miei pensieri l’idea che la
sera stessa avrei deciso di rubarlo.
Dopo un po’, però, e con mia enorme sorpresa,
un’esuberante e bellissima ragazza bionda - ‘che sublime apparizione!’, pensai
d’impulso - da lontano e vistosamente sorridendomi, mi viene incontro correndo.
Lì per lì non capisco chi sia né cosa possa volere da
me una donna così giovane. A trenta metri (non vedo più bene) improvvisamente,
attonito e sbigottito, riconosco folgorato la Kles.
«Ahojjj!..
Ciaoo!», mi fa entusiasta di vedermi. «Jak se máš?.. Come stai? E che ci fai qui.. così?», mi chiede
stupita anche nella sua lingua guardandomi incredula e ridendo per il mio
strano abbigliamento.
«Alx! Che sorpresa! Che bella sorpresa..», rispondo
d’istinto ma rimanendo profondamente impressionato e turbato dalla sua enorme
bellezza.
Noto,
infatti, insieme al suo entusiasmo nel vedermi, che Alx quasi nuda ha una forma
fisica da urlo e d’inverosimile bellezza; il che mi fa riflettere un po’ e,
quasi impercettibilmente, sento che il suo corpo e la sua presenza stanno
facendo crescere in me un indefinibile stato confusionale: alta poco più di me,
un metro e settantacinque circa, natiche di linea morbida e compatta, seni
perfetti e gambe ben tornite e svelte, scaldano subito i miei istinti
primoriali. ‘Potrà mai essere la mia piccola Gerty?’, penso tra me come
un cretino continuando a giocare con l’Ulysses.
ndr - Altri
pensieri o riflessioni di M sul corpo della ragazza, che denotano quell’humus mentale cui avevo accennato
all’inizio, e cioè che l’uomo che narra è ora in preda ai suoi più bassi
istinti e non controlla né mitiga assolutamente il suo modo di esprimersi, sono
stati da me omessi. D’altronde, in queste sue continue divagazioni di natura
anche sessuale, sembra che M sia costantemente in cerca degli angoli più
nascosti del mondo ed entri nei più intricati labirinti della sua mente per
affrontare ad ogni passo l’impossibile. Inoltre, sembra ormai essersi
abbandonato alla Fortuna, perché non tien conto più di nulla che possa
distoglierlo da ciò che il suo corpo ora comanda.
Tuttavia, e questo devo dirlo
perché avrà certo un suo significato (e soprattutto per le analisi fatte dal
dt. Mentòre), in questi frangenti ricorre spesso, in particolar modo più avanti
quando M si trova vis à vis col sesso
della ragazza, la frase: ‘Ineluctable
modality of the visible: at least that if no more, thought through my eyes’,
ripetuta spesso sottovoce, ma chiarissima allusione al fatto che tale visione
sia in qualche modo connessa al suo delirio erotico pseudo-letterario.
E quando, in procinto di
immergersi col viso tra le gambe della donna, M ripete fra sé e scrive più
volte la frase ’Shut your eyes and see’,
è ben evidente che ormai sia fuori di sé, cioè che è in preda al suo delirio
joyciano e il suo senno fa fatica a rimanere intero.
Quel che sorprende è che
Fabrizio, proprio qui, leggendo queste righe, a un certo punto, contento di
ricordare, ridendo fra sé esclama: «L’Origine du Monde!».
Incredibile, anche il non più
giovane medico pediatra, ricordando un quadro di Gustave Courbet visto qualche
anno prima al Musée d’Orsay, e in base al quale M gli aveva parlato dell’étant
donnés di Marcel Duchamp facendogli notare alcune importanti differenze, è
ora in preda alle sue faunesche fantasie sessuali. L’Aprés midi d’un faune
ora suona anche per lui.
Di quel quadro M gli parlò niente
meno che di naftalina.. e glielo ripeteva spesso quando andavano per
mostre d’arte. Della Vagliatrice di grano diceva invece, ch’era Aldonza,
ossia l’enorme fregatura destinata ad uccidere il Cavaliere dalla Triste
Figura. Non so cosa intendesse dire, però son certo che l’uomo che qui di seguito
scrive, con quel tono ermetico e quasi ‘solenne’, fosse già da tempo in preda
alla pazzia.
Certo, non intendo qui definire i
suoi gusti e farmene giudice, ma mettere solo sull’avviso che quanto viene
scritto da M sregola completamente dalla normale sintassi mentale.
Ad esempio le frasi: ‘Odore su
sudore’ o ‘This is sensus carnis and not carnalis concupiscentiae’, solo pensate e trascritte nei suoi appunti, non denotano alcun
senso; anche se qui una nota fa riferimento a uno strano racconto intitolato Breve
conversazione con Théophile Gautier, datato 22 giugno 2017, in cui s’apprende che M, in preda a voluptas carnalis, parla e chiede consiglio
allo scrittore francese come se lo conoscesse.
Riattacco perciò il racconto
leggermente più avanti, tralasciando e passando sotto silenzio quel che a me
sembrano non solo inutili minuzie, quanto soprattutto delle inenarrabili
volgarità e delle miserabili trivialità; il ché fa lo stesso.
«Ho accompagnato mio figlio per una festa qui vicino
e, già che c’ero, ho pensato che, dopo tanto tempo, m’avrebbe fatto bene
prendere un po’ di sole in riva al mare. Sai, un po’ di vitamina d rinforza le ossa e tonifica i muscoli,
ed io, come vedi, ne ho un gran bisogno», le dico fingendo di claudicare un po’
facendola ridere. «E tu invece?», le chiedo di rimando perché non so più cosa
dire.
«Io sto qui.. come te [ride] per prendere il sole.. e
sto col mio ragazzo. Anzi, dai vieni che te lo presento!», mi dice con il suo
grazioso accento boemo[3] e
continuando a ridermi letteralmente addosso per il modo buffo e fuori luogo di
come son vestito.
Facendomi strada verso il suo ombrellone, mi presenta
così al suo amico.
«Questo è Mattia.. E lui.. è Em, un mio amico
d’università.. Diciamo anche.. una delle persone più colte e bizzarre che
conosco», dice la Kles ridendo e con un tono, devo dire, eccessivamente
entusiasta e di burla insieme.
Un giovanotto, anche lui piuttosto atletico e bello,
mi stringe così, con raccapricciante vigore, la mano.
«Piacere, Rodolfo Mattia», mi dice con accento
vagamente triestino e un tono un po’ stupidamente cameratesco.
«Molto piacere Em», rispondo garbatamente di rimando
schernendomi un po’ per l’eccessivo entusiasmo con cui Alx m’ha presentato.
«Romano?», mi chiede infine il giovane con aria un po’
saccente e arrogante ma con l’evidente goffaggine di chi non sa proprio cosa
dire.
«Casualmente.. e solo per nascita», rispondo con un
po’ d’acredine e falso pudore, che poi è quello che assumo perché tipico di
quel Mr Bloom, a cui in quel momento vagamente sto pensando, che nel tardo
pomeriggio del sedici giugno del mille novecento quattro, quando s’aggira per
le vie di Dublino e incontra gente a lui quasi sconosciuta e variamente
antipatica, per togliersi d’impaccio, e sempre con lo stesso tono, in questo
modo s’esprime, lasciando l’interlocutore che ha di fronte più che perplesso e
stupefatto.
ndr -
Faccio proseguire qui la narrazione fatta da M (tagliando ovviamente dove
serve) soltanto per mettere in rilievo il suo ambiguo comportamento. Difatti,
ogni qual volta che M cita l’Ulisse è
come se intendesse dar forza, credibilità e valore a quel che scrive; e quindi
sfacciatamente giustificarlo.
Ciò significa che tutto ciò di
cui M ha fatto tesoro delle sue letture, non sempre trova un risvolto di tipo
‘letterario’, quanto piuttosto - e mi si lasci dire - morbosamente ed
esclusivamente di tipo erotico, come in seguito l’eventuale e paziente lettore
potrà verificare.
Consapevole dell’evidente disagio in cui senza volerlo
siamo andati a cacciarci, la Kles mi chiede allora, con fare nervoso, se voglio
bere qualcosa.
«Una schweppes all’arancio.. grazie», rispondo rapido
per aiutarla ad uscire dall’imbarazzo.
«Può portare una schweppes all’arancia, prosím, s’il vous plaît?», chiede la Kles
al waiter in quel momento lì di passaggio.
Vestito in quel modo, però, accanto a due giovani
semi-abbronzati e terribilmente aitanti, faccio fatica a sentirmi a mio agio.
Finalmente arriva la schweppes. Porgo, di conseguenza, una banconota al ragazzo
del bar, ma subito la Kles gli fa cenno di non prendere i miei soldi. Ringrazio
garbatamente e, con una banale scusa (il caldo e l’abbigliamento inusuale),
dopo aver bevuto rapidamente quell’intruglio arancione, cerco di congedarmi.
«Ma già vai vià, Em?», mi chiede allora Alx con
l’aria di una che sembra faccia finta d’essere un po’ dispiaciuta.
«Ma sai.. il caldo, queste scarpe, e così come son
vestito..», rispondo come posso pur di tirarmi fuori da questo impaccio che
m’infastidisce e togliere immediatamente il disturbo.
All’improvviso, però, la Kles mi chiede se sono in
macchina e se, per caso, sto tornando a Roma. Annuisco, anche se un po’
confusamente.
«Posso tornare con te Em?», mi chiede allora vagamente
frignando ma con un sorriso dolce dolce e un po’ ambiguo che mi eccita e mi dà
da pensare.
«Ti dispiace Em? Sai, ma ho un tal mal di testa che
ora tornare in moto proprio non me la sento, con tutto quel rumore.. quel
vento..», mi dice frignando ancora un po’ ma guardando seria il suo Mattia.
«Non ti preoccupare.. non vado di fretta. Ti aspetto.
Ma avete fatto il bagno?», chiedo per cambiare discorso notando il rabbioso
rossore sul viso del ragazzo.
«Mah.. L’acqua era un po’ fredda.. e anche un po’
sporca», risponde la Kles cercando di sostenermi per uscire dall’imbarazzo di
una situazione che si sta facendo un po’ critica.
Provo a ripensare un po’ all’Ulisse, ma non ci
riesco un granché: faccio fatica a distrarmi ed estraniarmi da quel che
succede.
Cerco di sforzarmi. Sono le quattro e un quarto: è il
momento in cui l’ebreo errante è a pranzo all’Ormond, dove Dedalus padre,
pavoneggiandosi, canta divinamente una struggente romanza. Ma subito mi viene
in mente (e non capisco il perché) quando più tardi, verso le sei, Mr Bloom
viene aggredito dal Cittadino, il coglion feniano antisemita che gli si scaglia
furiosamente contro.
Ma cosa gli aveva detto il ‘magico’ Bloom per far
arrabbiare anche Garryowen, quel cesso di cane così ringhioso e insolente? Gli
aveva gridato forte e in faccia: «Viva Israele! Viva Israele!! Viva Israele!!!»;
e per ben tre volte e ben in faccia!
Grandissimo Mr Bloom! Era la prima volta che
l’orgoglio e la dignità d’uomo emergevano nel circonciso, sebbene il Cittadino
avesse avuto ancora l’insolenza di tirargli dietro una scatola di biscotti ma,
non per caso, rigorosamente vuota.
«E Mattia potrebbe essere un tipo del genere?», mi
chiedo provando a convincermi sforzandomi un po’. «Ma no..», mi rispondo
subito. «Sembra un buono e non un banal demente pronto a menar le mani», mi
dico cercando di rassicurarmi.
«Em? ti va allora di tornare a Roma?», mi chiede
infine un po’ impaziente la Kles.
«Ma certo. Preparati.. e quando sei comoda andiamo», le
rispondo con gentilezza sorridendole.
Rapida, allora, Alx si veste, raccoglie le sue poche
cose nella borsa e mi fa cenno, con aria leggermente interrogativa e allusiva,
d’esser pronta.
«Allora ciao Mattia. E scusami, ma sai.. proprio non
me la sento di tornare in moto. Ci vediamo domani, okkei? E poi mi dici quanto
hai speso. Ciao», fa la Kles al giovanotto sempre più imbronciato cercando,
guardandomi, di banalizzarne l’irritazione.
«Io son pronta.. e se ti va possiamo andare», mi dice
allora con un mezzo sorriso che mi fa capire che non vede l’ora d’andarsene e
liberarsi di quel ragazzo.
«Allora Mattia Rodolfo, arrivederci.. È stato un
piacere averti conosciuto», faccio al giovane che ora ha l’aria un po’ più
frastornata.
Con la Kles in short bianchi, maglietta verde e di una
bellezza infinita, m’incammino così verso la macchina. Rapidamente penso:
«Dedalus morirebbe d’invidia all’istante, se mi vedesse».
«Senti un po’ micetta», le dico dopo un po’ mentre
andiamo verso la macchina.
«Ti andrebbe di fare un bagno poco lontano da qui?
Sai.. me n’è presa voglia.. a me non dispiacerebbe», concludo sorridendole
leggermente.
ndr - Ecco, dunque,
come il concupiscente e lussurioso M mette in atto le sue abiette strategie: con qualche ridicolo
vezzeggiativo, e modi non particolarmente gentili ma decisamente ambigui,
riesce a circuire una giovane donna che, forse inconsapevolmente, si lascia
incantare e conquidere da lui senza batter ciglio.
Il fatto è, e per questo me ne
scuso con il paziente e potenziale lettore che s’inoltra a leggere queste
righe, che ora son costretto, e a malincuore, a far proseguire il racconto di
M, giacché da qui si può ben dedurre lo stato mentale, psicologicamente folle e
un po’ criminale, in cui lo stesso signor M versava già da quel sedici
giugno duemiladiciassette.
«Siiiii..», mi risponde immediatamente la Kles ridendo e gongolando
come una bambina contenta di far qualcosa che in quel momento, così almeno a me
è sembrato, la rende felice e la ecciti un po’.
«A proposito Alx.. hai un asciugamano anche per me?»,
le chiedo un po’ fanciullescamente. «Purtroppo io non ne ho», aggiungo.
«Mm.. ho un belissimo asciugamano grande grande
che può bastare per tutti due. Non te preocupare», mi
risponde con voce amorevole, guardandomi dolcemente negli occhi e prendendomi
ancora un po’ in giro per il mio buffo modo di essere lì con lei. M’accorgo,
tuttavia, anche dai troppi errori fonetico-ortografici, che anche la Kles si sta emozionando.
Saliamo in macchina. Madame Fortuna vuole che abbia
messo dei boxer azzurro scuro che, molto vagamente e alla lontana, possono
anche somigliare a un costume.
Al Villaggio dei Pescatori, dunque, fermo la macchina.
La Kles, intanto, mi sorride deliziosamente, forse per averla fatta in barba al
ragazzo, o forse, e più probabilmente, perché ora è contenta di stare con me.
Arrivati in spiaggia, però, con non poca fatica
comincio a spogliarmi: giacca, scarpe, calzini (un buchino sul destro!),
cravatta, camicia, maglia intima, pantaloni. Uff.
La Kles, intanto, continua a ridermi letteralmente addosso,
accentuando in me la tragicomica difficoltà che ho nello svestirmi. Ma quando
finalmente mi ritrovo seminudo, la
Kles assume uno sguardo un po’ diverso, o, se così posso
dire, leggermente più attento verso di me, guardandomi sempre più spesso, e
fuggevolmente, negli occhi.
«Però.. non ti facevo così ben proporzionato», si
lascia sfuggire quasi stupidamente.
«Ma dai!.. che sciocchezza. Davanti a te, poi.. e alla
gran fica che sei, scusami se parlo così, io sono un bel nulla.. Non credi splendore?»,
azzardo.
Ad un certo punto, però, m’accorgo che lo sguardo di
Alx s’è fatto d’incanto leggermente più cupo e pensieroso. Penso in un lampo
che non c’è traccia di scene simili nell’Ulisse.
«Dolcezza dai, buttiamoci in acqua!», provo allora a
dirle con fare scherzoso invitandola ad andare verso la riva.
Alx, però, inspiegabilmente è rimasta immobile e, come
se non ascoltasse più quel che le dico, ora mi guarda seria ma in un modo e con
un fare, almeno così a me appariva in quel momento, sempre più curioso e
attraente o, se così posso dire, stranamente incantato.
Capisco improvvisamente che vuole un bacio da me.
Imbranato come sono, madame Fortuna vuole che mi senta in grado di accarezzarle
i capelli e, accompagnandola delicatamente per la nuca, baciarle teneramente le
labbra. Ci incamminiamo così verso il bagnasciuga, sfiorandoci spesso le mani e
guardandoci più volte negli occhi.
«Brrr, che freddo!», fa Alx tutta intirizzita nel
mettere un piede in acqua che però la elettrizza. E in quel momento m’accorgo
che la sua bellezza ha ormai preso il sopravvento su di me.
Piano, allora, mi avvicino a lei. C’è vento; non c’è
nessuno; ci guardiamo rapidi negli occhi; i nostri ventri si sfiorano e
teneramente, ma con un po’ più di passione, la bacio di nuovo. Le nostre
lingue, però, ora si cercano, si rincorrono e cominciano a giocare tra loro.
Un gran sorriso, esaltato dal rossore che le è
divampato sulle guance, si stampa ora sul suo bel viso. Come due veri amanti ci
prendiamo allora per mano ed entriamo in acqua.
Lasciandola, faccio per buttarmi, ma non ho il
coraggio perché il freddo che sento in quel momento m’inchioda. Lei intanto
però s’è tuffata, e subito, senza pensarci e non riuscendo a trattenermi, le
vado dietro.
Come in un dolce liquido amniotico ci incontriamo
felici sott’acqua; ora ci sfioriamo le labbra e, accarezzandoci un po’ dovunque
per tutto il corpo, ci baciamo. Sento ora i suoi seni sul mio petto; sono ben
turgidi e gonfi. Mi sto eccitando; cerco di controllarmi. Alx però se ne
accorge; riemergiamo.
Alx ride, ma ride e tossisce ora in un modo quasi
isterico; sembra dovuto al freddo, anche se il fatto di essermi eccitato
davanti a lei sembra la gratifichi.
«Ma cos’hai per ridere così tanto», le chiedo ridendo
e tremando anch’io.
«Mi sono accorta, sai.. Ma non ti preoccupare, dai!
Perché la cosa.. se posso dirtelo Em.. non mi dispiace per niente», mi dice
prendendomi piacevolmente ancora un po’ in giro ma guardandomi sottecchi
ridendo.
«Anima mia.. è un fatto naturale, non credi? E poi,
non ci trovo nulla di male.. perché davanti a tanta bellezza è difficile non
perdere il controllo e dunque, se puoi.. scusami», rispondo un po’ imbarazzato
ma divertito.
«Ma dai, figurati.. e poi non ti preoccupare», mi dice
con fare leggero e continuando a ridere. «Non sono mica una bigotta», aggiunge,
ma con quel suo incantevole sorriso che per me sta diventando il suo
inconfondibile marchio.
«What, Me Worry?», penso intanto fra me come un idiota.
Improvvisamente, però, divento un po’ più serio.
Guardandola intensamente negli occhi, con l’acqua che ci ricopre fin quasi
all’altezza delle spalle, la prendo deciso per la vita e l’avvicino a me,
mentre il mio sesso si spinge sempre più verso di lei.
Anche Alx ora non ride più. M’accorgo che si sta
emozionando, e allora più deciso la bacio di nuovo e quasi smodatamente in
bocca.
Mentre le nostre lingue si toccano e si rincorrono,
sento ora la sua mano scivolare deliziosamente sul mio sesso, ormai
inesorabilmente eretto. La guardo negli occhi stupito ed estasiato e,
baciandola sugli occhi, le infilo una mano nello slip, accarezzandole dapprima
l’orifizio anale e, con più passione e piacere, il clitoride. Alx ha le
palpebre socchiuse e, con la mia lingua leggermente insinuata tra le sue
labbra, stiamo piacevolmente godendo l’ebbrezza di questi piccoli preliminari.
ndr - Interferisco qui per precisare che l’uomo che
narra è ora completamente in preda alla sua follia. L’ho lasciato
andare per far sì che si veda in ciò che scrive il livello di abiezione cui
M era giunto già in giugno. Da quel che s’intende, da ciò che scrive e pensa,
il suo pensiero, o il suo modo di ragionare, tende solo a raggiungere e
soddisfare il suo senso carnale (o sensus carnis, come lo chiama
nel testo) costi quel che costi. D’altronde,
pur citando spesso e con dovizia Joyce, M non riesce a dare significato umano
né credibilità artistica a quel che scrive. Frasi tratte dall’Ulisse,
certo, ce ne sono molte, e alcune anche simpatiche perché fantasmagoriche, ma
cadono sempre nei momenti in cui l’argomento sesso domina e la fa da padrone.
Ad esempio, quando più avanti M
si troverà immerso nei meandri del corpo di questa giovane donna e esclamerà o
sussurrerà al suo orecchio, come riporta nel racconto, frasi del tipo: Sweet
eyes.. Soft soft soft
hand.. I am
lonely here.. O, touch me soon, now.. I am quiet here alone..
Touch, touch me.. [4], si intuisce
e si deduce chiaramente il grado d’imprudenza e impudicizia cui M è giunto; ed
anche solo pensando all’idea che gli è venuta poi di scriverlo.. e in quei
termini così dettagliati!
Lo lascio dunque proseguire per
capire ancor meglio.
Lentamente sprofondiamo in acqua, ma il freddo
pungente ci fa subito riemergere.
«Je mi zima Em.. Ho freddo», mi dice Alx
tremando.
«Usciamo dai, che qui ci prende un accidente», le dico
sfiorandole veloce il braccio sinistro.
L’Ulisse, intanto, sembra scomparso dal mio orizzonte.
«Ineluctable
modality of the visible: at least that if no more, thought through my eyes»,
riesco però rapidamente a dire all’improvviso e, inavvertitamente, ad alta
voce.
«Almeno questo, se non altro, il pensiero
attraverso i miei occhi»; così mi recito di nuovo il Telemaco
pensando al bardo gesuita che, in riva al mare, toccando con mano e con
dispregio del posticcio materiale organico marcio e in decomposizione,
impazzirebbe se vedesse e toccasse con mano il corpo splendido e vivo di Alx.
Di corsa verso le nostre cose, in fretta cerchiamo di
asciugarci.
«Asciugati mia piccola Gerty», le dico balbettando
vedendo le sue labbra diventate ormai viola e farfugliando un po’ pensando ora a
quel Mr Bloom che, alle otto di sera, passeggiando ai margini della spiaggia di
Sandymount, si trova improvvisamente di fronte alla divina ed eroticissima
bellezza di Gerty MacDowell e, pare, secondo le parole di Joyce, provandone infine
un piacere celestiale.
Tremando ancora rapida Alx comincia ad asciugarsi,
avvolgendosi con grazia nel suo grande asciugamano.
«Vien qui scemètto che t’asciugo.. Stai
tremando tutto», mi dice sorridendomi e tremando anche lei.
Con un po’ d’imbarazzo, dovuto sia all’emozione che al
comprensibile stupore che provo davanti a tanta bellezza, m’avvicino a lei che,
con una dolcezza sorprendente, comincia ora ad asciugarmi carezzevolmente il
viso, le spalle e il petto. Non riesco a trattenermi e la bacio di nuovo. Mi
sorride ancora, ma Alx ha ora un sorriso di una bellezza disarmante.
D’un tratto, Alx apre il suo asciugamano e
abbracciandomi cerca di avvolgermi vicino a sé.
Emozionati, ci sediamo allora sulla sabbia e, avvolti
nell’asciugamano, cominciamo a baciarci e a leccarci le labbra, così come
capita. Lentamente ci adagiamo sull’arenile, continuando a baciarci. Le nostre
lingue ora deliziosamente si rincorrono e si cercano sempre più freneticamente.
Per fortuna ci sono pochissime persone, e piuttosto distanti; nessun bambino,
grazie a Dio.
«Un matto.. io un matto come te non l’ho mai
conosciuto», mi dice dopo un po’ la Kles, ridendo e restando dolcemente con le
sue labbra sulle mie.
«Amore..», provo a risponderle cercando però di non
farneticare; «io.. io una meraviglia come te non l’ho mai conosciuta», riesco a
dire senza perder troppo il mio controllo emotivo.
«Ma dai.. vuoi prendermi in giro. Lo dici solo perché
mi vuoi bene. E poi me lo dici.. perché sei matto», mi dice la Kles quasi senza
senso e un po’ malinconica. Ma all’improvviso un bacio di una dolcezza senza
eguali si stampa tosto sul mio viso, scuotendomi l’anima e facendomi vibrare
forte il cuore.
«Viene a
casa mia?», mi chiede improvvidamente Alx con quel suo accento meraviglioso che
ora mi sconvolge. «I miei sono a Praga». E tutta rossa sussurrandomi aggiunge:
«I want to make love to you; Chci se milovat! Chci mít sex!
souložit! Voglio scoppare con te..», pronunciando ancor più
sottovoce, forse tradita dall’emozione, quelle due pi che, anche se in genere
se ne pronuncia una sola, solo per il loro particolare suono, ora mi scuotono e
sovvertono i sensi.
«Ho capito.. vuoi farmi innamorare. Vuoi divertirti a
farmi impazzire per te. È questo che vuoi.. mio dolcissimo fiore di montagna?»,
le dico cominciando con evidenza a farneticare.
«Ma dai.. Non ti mangio mica..», mi dice sorridendomi molto
e banalizzandomi un po’.
Estasiato da tanta bellezza, riprendo così ad
accarezzarle i capelli, baciandole delicatamente il naso, le labbra, gli occhi
e ancora le labbra.
Sicura ormai della mia arrendevolezza di fronte alla
sua sconcertante bellezza, Alx mi dice convinta e con aria decisa: «Dai Em..
Prepariamoci, andiamo».
In fretta, e ancora un po’ bagnati, ci vestiamo e,
anche se piuttosto scoordinati, ci sfioriamo e ci baciamo continuamente.
Durante il tragitto verso la macchina, poi, ci
fermiamo spesso per riprendere a baciarci e assaporarci ancora. Le nostre
lingue, infatti, riprendono freneticamente a cercarsi, col grave rischio di
lasciarci andare all’istinto e forse cominciare follemente ad amarci. Ci
tratteniamo, dunque.
Ma come entriamo in macchina, un altro forte e
incontrollabile accesso di passione ci travolge. Difatti, riprendiamo a
toccarci e a baciarci dappertutto. Ci ritroviamo così di nuovo seminudi, perché
Alx, già abbastanza discinta (ha i suoi splendidi seni completamente nudi e
carezzevolmente sul mio viso), è ora a cavalcioni su di me e cerca, come può,
di spogliarmi fremendo.
Presto ci accorgiamo dell’impossibilità di un amplesso
vero e pieno: ci sciogliamo.
Alx, dunque, rimessasi sul suo sedile, rapida si
ricompone, assumendo anche lei un’espressione semiseria.
Ad un certo punto, però, scoppiamo a ridere a
crepapelle come due matti. Ridiamo e insieme ci baciamo; e qui assaporo meglio
il profumo del suo alito, il sapore della sua saliva e l’odore sublime del suo
sudore, che ora mi esalta e mi eccita come nessun’altra cosa al mondo.
«Sai Em?», mi dice Alx con voce più seria e l’aria un
po’ stupita. «Forse non ci crederai.. ma poco fa ho avuto un orgasmo. Non ci
credi, vero? E allora toccami.. E dai toccami, ti prego.. », mi dice
sbalordendomi un po’.
Così, allora, m’avvicino a lei e accarezzo il suo
sesso, notando effettivamente come sia splendidamente piena d’umore. Il fatto è
che ora non riesco più a ritrarmi da lei, tanto è il piacere di sentirla godere
sotto i miei polpastrelli. Infatti, mentre comincio a giocare con lei con le
dita, Alx riprende di nuovo a godere, cercando di assumere, sollevando il bacino,
una posizione più comoda per questo piccolo amplesso.
In balìa del desiderio, però, m’inchino ora verso di
lei e, dirigendomi col viso sul suo sesso mentre penso Shut your eyes and
see.. Shut your eyes and see.., finalmente riesco a baciarla,
leccarla e succhiarla con tutto l’amore di cui son capace e riuscire a sentirla
sensibilmente mia.
‘Calvo egli era e milionario. Maestro di color che
sanno’, ‘son qui per leggere le segnature di tutte le cose’,
continuo come uno sciocco a pensare; e m’accorgo con fastidio che Dedalus, o
chissà quale altro diavolo, è ora qui con me.
E mentre la
Kles grida piano: «Můj bože.. můj bože.. what a day.. i love you.. je t‘aime..» e mugola di piacere accarezzandomi i capelli, penso e
mi chiedo: «‘E se ora cadessi da una roccia che strapiomba sulla sua base..’
non m’importerebbe nulla.. mi lascerei cadere. Ma perché Stephen sulla spiaggia
di Sandymount pensa e cita Amleto? Che c’entra.. che c’entra qui la messa in
guardia di Orazio sull’improvvida decisione del principe di seguire fin nello
sprofondo lo spettro?».
ndr - L’ho lasciato narrare fin qui per far notare al lettore il
serrato intrecciarsi tra argomento erotico e argomento letterario, che, a
quanto pare, M mischia e combina tra loro solo per giustificare e quindi difendere
la sua ormai fin troppo immaginifica concupiscenza, ora giunta, con evidenza,
al suo massimo grado.
Non posso dunque non intervenire, perché da
qui in poi son stato costretto a operare dei tagli, e alcuni dei quali anche
molto significativi per capire lo stato psichico dell’uomo e quanto di
patologico v’è scritto qui in questo racconto. Ciò non toglie, che abbia deciso
lo stesso di tagliare: è la mia dignità morale che me lo impone.
Tra l’altro, tra queste righe,
anche se ricorrono spesso rimandi ai personaggi maschili dell’Ulisse, ci
si accorge subito che di loro ad M non importa nulla e nulla ha a che vedere
con lui la loro storia. Ad esempio, quando M fa commenti su Mr Bloom, mediocre
impiegato trentottenne blandamente ebreo, si percepisce, è vero, che ne prova
simpatia, ma niente di più. Dell’altro, poi, del Dedalus, non dice un granché,
considerandolo solo un po’ infantile, e forse anche un po’ stupido. Della
donna, invece, forse per il suo nome ‘fatuo’ - così M s’esprime nel testo - o
per la sottile eroticità che trabocca dal suo monologo finale (‘una grandiosa
architettura mentale’, fu il suo commento critico), M ne parla ampiamente e con
una dovizia di particolari quasi maniacale. D’altronde, alla libreria
Mondadori, nel momento in cui si prepara ed è in procinto di rubare il libro
subito dopo aver letto il mellifluo Sì
finale dell’Ulisse, scontrandosi fisicamente con la
direttrice-proprietaria che, dopo aver intravisto sui monitor delle videocamere
la rapidità dei suoi movimenti gli si stava avvicinando per veder meglio cosa
stesse facendo, M le palpa clamorosamente e voluttuosamente il seno ripetendole
svenevolmente in faccia l’ultima frase che aveva letto: «yes I said yes I will Yes».
La donna, peraltro, s’era
avvicinata a lui solo perché incuriosita dal modo con cui M sfogliava
nervosamente e con fare convulso le pagine del libro. Difatti, aveva un non so
ché d’elettrico nel modo di muovere le dita e quando ‘sentì’ che la donna gli
si sarebbe avvicinava per dirgli qualcosa, improvvisamente le fu subito
fisicamente addosso. D’altronde, dicendole quelle frasi sconnesse,
aggiungendovi quella ancor più incomprensibile «and drew him down to me so he could feel my breasts all perfume»,
sembrava che M volesse nientemeno che annusarle il seno: così disse la donna,
che si ritrovò il naso di M fluttuare tra i suoi capelli e a quattro o cinque
centimetri al massimo dal suo collo.
Ma la cosa ancor più sorprendente
fu che il libro che M aveva avuto fino a quel momento tra le mani
improvvisamente scomparve. Proprio così: quel libro letteralmente scomparve.
«Ventotto euro.. Pazzo!», fu il
commento un po’ banale ma molto irritato e preoccupato del medico pediatra.
Scacciato in malo modo dai
commessi della libreria e sotto la minaccia di denuncia per molestie sessuali,
M si ritrova così a girovagare tra i viali del parco dei Daini, raggiunto dopo
aver percorso tutta via Piave, via Isonzo e un tratto di via Po.
Il fatto è che, al momento del
furto, mentre fingeva di voler annusare il seno della donna creando in essa un
certa apprensione e un po’ di scompiglio nella libreria, rapido M s’infilava il
libro tra la cinta dei pantaloni e la zona lombo-sacrale.
«Elle cinque esse uno! Mai
sigla osteo-articolare ha avuto un senso e un significato così magicamente poetico
e magnificamente letterario!», fu il suo stupido commento quando, seduto
allegramente su una panchina, riprendeva a sfogliare l’Ulisse.
Dopo esser stato costretto a
tagliare, e spero con attento e sincero discernimento, perché un conto è
cercare di capire una malattia, un conto è voler morbosamente attaccarsi alla
vita degli altri, qualsiasi essa sia, provo dunque a riagganciare qui la narrazione di M, dove alcuni dettagli, dopo
averne letti tanti, credo, non vengono più a turbar l’animo umano di chi legge.
Lo faccio così riprendere da dove l’avevo lasciato.
Ma lo splendore di assaporare il suo sesso, e il
piacere che provo nel sentirla godere, ora è tale che non riesco più a
controllare e frenare il mio desiderio di immergermi in lei.
«Shut your eyes and see», mi dico ancora
sottovoce quasi senza pensare.
Riprendo a scandagliare il suo sesso. Lecco e succhio
quanto più possibile del suo clitoride e della sua fica meravigliosa e, finalmente
sazio e pieno di lei, un po’ sudato e tutto rosso in viso, provo a rimettermi
al mio posto, anche se ora completamente sconnesso e fuori di me.
Con il meraviglioso sapore del suo sesso in bocca, il
suo sorriso davanti ai miei occhi, i suoi baci e i suoi capelli carezzevoli sul
mio viso.. provo così a ricompormi.
Lentamente riprendo a pensare.
Taglio le parti un po’ più
spigolose, che sono poi quelle in cui il medico pediatra o soleva ridere a
crepapelle o arricciava il naso, a seconda di quel che in quel momento gli
veniva in testa leggendo.
Ma quel che pensa M in quel
momento, quando descrive ‘naturalisticamente’ le sensazioni provate, esula dal
tema del nostro discorso principale, che non è quello d’indagare l’animo umano
per dargli poi una nostra spiegazione magari sbagliata, ma di capire quale
motivo possa essere all’origine della sua strana malattia. D’altronde,
l’intento che ci guida è sempre stato quello di capire e riportare M alla
serenità: niente di più; niente di meno. E se pure ciò che M scrive può sembrar
pura follia, è sempre possibile dire che M ha scritto sempre e soltanto per sé.
Riavvio, dunque, la narrazione di
M, tralasciando ovviamente le scemerìe che seguono dopo il primo amplesso.
Colmi di piacere per aver riso tanto e baciandoci
sempre, ci sciogliamo di nuovo.
«Em.. Andiamo a casa mia.. I want to make love to you». Così mi chiede Alx all’improvviso con aria più seria e
quasi impaziente.
«Sì.. Yes!», le rispondo avviando il motore
della macchina. «Il mio primo Yes!», penso.
Arrivati a Roma, in un grazioso palazzetto di via Po
saliamo veloci all’ultimo piano.
«La sera estiva stava cominciando ad avvolgere la
città nel suo misterioso amplesso; così apre il Nausicaa», mi dico
stralunato vedendo e ammirando dall’alto il parco dei Daini ora avvolto da un
luce un po’ più crepuscolare.
«Non far caso al disordine.. Non ho fatto in tempo
stamattina a sistemare», mi dice Alx sorridendomi e baciandomi in punta di
piedi aprendo la porta di una mansardina contigua all’appartamento dei suoi,
impiegati d’ambasciata, credo, ancora inondata di sole.
Al centro della stanza, un letto alla francese, con
delle lenzuola candide e profumate del suo odore, mi accende e mi fa vibrare
forte nel corpo.
«Ma che profumo che c’è qui!», esclamo per sciogliere
un po’ la situazione.
«Dai.. vien qui scemètto.. facciamo una doccia,
Mr Em», mi dice sottovoce Alx baciandomi, carezzandomi dove le capita e
tirandomi verso di sé prendendomi per mano.
Mentre ci spogliamo, seri cominciamo a guardarci un
po’ più intensamente nei corpi. Finalmente nudi, ci guardiamo di nuovo; e in un
attimo siamo vicini, l’uno accanto all’altro.
Mentre le accarezzo i fianchi e i seni, Alx accende la
doccia. Ma un violento getto d’acqua fredda improvvisamente c’investe in pieno,
togliendoci il respiro. Un po’ scossi, tremiamo e ridiamo convulsamente, mentre
il mio sesso ha già raggiunto una certa consistenza.
«Scusami Em.. Ho premuto acqua fredda!», mi dice Alx
ridendo nervosamente come una matta ma tornando subito seria accorgendosi emozionata
della mia subitanea erezione. Immediatamente allora m’abbraccia, mi stringe
forte a sé e al suo corpo e prende a baciarmi con ardente trasporto in bocca.
E così, umanamente e sensibilmente cominciamo ad amarci.
ndr - Tralascio, da qui, quanto scritto dopo da M, anche
se più avanti c’è una dettagliata e bellissima e divertente descrizione
toponomastica del percorso che da salita Trevi a via Venti Settembre, passando
e commentando su sant’Andrea, san Carlino, il Quadrivio Sistino e s. Maria
della Vittoria, porterà M in via Piave.
«Alle diciannove in punto, a piedi, sono alla
Mondadori».
Così finisce la prima parte del
racconto di M.
Della seconda parte, quella
riguardante il furto del libro, di cui in parte è stato già narrato, che esula
però dal tema del nostro discorso principale, che non è quello d’indagare su
come certi vizi vengano alimentati ma piuttosto capire perché quest’uomo sia
giunto a sì grave malattia, non trascriverò nulla, anche se se ne può dedurre
facilmente la conclusione. Al parco dei Daini, infatti, dopo esser fuggito, o
esser stato scacciato a malo modo (il ché fa lo stesso) dalla libreria Piave,
attratto dai riflessi del sole al tramonto, «coi suoi raggi orizzontali che
tagliano le ombre e ti si ficcano negli occhi e nel cuore..».
Ma mi sembra inutile proseguire
qui con il racconto di M, quando ormai s’è giunti alla conclusione dell’enorme
indifferenza e irresponsabilità che M ebbe riguardo i suoi comportamenti e le
terribili conseguenze che ne seguiranno.
[1] Il ventottesimo, ossia il penultimo
della prima infornata e poco prima del Finnegans.
[2] Alla
presentazione di un libro alla Sala del Carroccio, in Campidoglio, con discreto
entusiasmo così s’espresse: «Amo questa scrittura, questa letteratura così
vintage!». Ma la cosa che più mi sorprese, e a lungo mi rimase in mente, fu il
modo con cui quella bellissima donna aveva usato quel verbo, ormai caduto quasi
in disuso e che, almeno a me così sembra che sia, quasi nessuno è più in grado
di usare con intelligenza.
[3] Le
vocali sono graziosamente sempre aperte; un accento che, se accompagnato dal
suo splendido sorriso, metterebbe in moto a chiunque il desiderio di voler fare
l’amore o del sesso con lei.
[4] Ma a
legger bene, non son forse le stesse divagazioni erotiche di quel Mr. Bloom
che, in un bordello dublinese, in preda alla sua lascivia così s’esprime?
Dulcinea del Toboso IX
(Dissolution)
the dissolution of M
ndr - Ed ora non mi resta che raccontare della
stranissima e rocambolesca sparizione di M che, se paragonata anche solo alla
più irragionevole delle mille stravaganti e surreali traversie del cavalier
manchego, renderà ancor più evidente l’assurdità di questa storia.
T’avevo lasciato, paziente e
attento lettore, al punto in cui avevo deciso di far parlare M con i suoi
scritti (quasi tutto il capitolo precedente) affinché si sapesse del contesto
psicologico e della condizione mentale in cui già versava poco prima d’essere
rinchiuso in manicomio e, già dalle prime prescrizioni e previsioni, per un
lungo periodo.
Riconosco fin d’ora di non essere
stato un’abile guida capace di risparmiarti
l’esperienza di seguire tratti aridi e tortuosi giri traversi che
caratterizzano la scrittura di M[1]; ma non so se si poteva
far meglio, perché effettivamente seguire
l’animo umano è sempre prova difficile e controversa. Adesso, però, tenterò,
almeno in parte, di riparare alla fatica che t’ho procurata per farmi seguire
fin qui e far sì che queste ultime pagine siano meno disordinate e vaghe quanto
piuttosto chiarificatrici di tutta questa allucinante vicenda.
D’altronde, nessuno sa, se non io, come M riuscì ad eludere
i controlli della clinica in cui era ricoverato e dunque eclissarsi e
letteralmente a scomparire. Il dottor Mentòre diceva
che qualcuno, forse, lo aveva aiutato, senza però pensare che nessuna
comprensibile traccia - almeno secondo quanto scritto a verbale dagli agenti di
polizia penitenziaria che avevano effettuato i rilievi - era stata lasciata da
M o da chicchessia.
Le righe che seguono possono però far luce sul
perché M è scomparso e quali preoccupazioni potevano essere nella sua testa
quando apprese dal fratello che, per almeno sei mesi, sarebbe dovuto star
rinchiuso in quella clinica in cui era stato ricoverato senza poter leggere,
scrivere o ascoltare musica.
«S’alimentava a vino rosso e
cioccolato.. continuamente.. E non mangiava altro?», chiese dunque Fabrizio al
fratello e alla moglie di M che gli raccontavano di come si svolsero i suoi
ultimi giorni agli arresti domiciliari poco prima d’essere ricoverato.
«Un mix perfetto per chi vuol
morire lentamente.. e, forse.. per meglio assaporare la sua fine..», fu il
sarcastico e poco assennato commento finale del medico pediatra davanti alla
moglie e al fratello gemello di M che lo guardavano, seduti in poltrona, mentre
lui, ancora in piedi e molto rosso in viso, parlava e si muoveva con fare
convulso e agitato.
In realtà, Fabrizio cercava solo
di spiegare ai due che quel che lui aveva letto di M non era solo frutto d’una
mente malsana. Logica perfetta, e una certa ‘geometria’ v’era, per lui, in
quasi tutti i suoi scritti; checché ne potesse pensare Mentòre. «Quel
mentecatto di merdra»[2],
aggiunse un po’ sottovoce e con tono di dispregio il medico pediatra amico di
M.
«Cosa ancora inspiegabile,
infatti, è che, eccettuate le scemerìe che tuo fratello può dire e scrivere di
sé e della sua singolare malattia, se si tratta d’altre cose, ragiona con
ottimi e distesi argomenti e dimostra in modo assoluto d’avere un’intelligenza
chiara e equilibrata. Dunque, purché non lo si guardi nella sua mania, o quando
scrive sotto l’effetto e l’urto della sua fissazione, non ci sarà nessuno che
non possa giudicarlo uomo di gran buon senso». Questo aggiunse infine, esausto,
il medico pediatra in faccia al fratello gemello di M che, attento, lo guardava
sconcertato.
«Vado in bagno», aveva concluso
il medico.
«Sembra che reciti.. Davvero!
Pff.. Questo coglione.. recita!», fu il commento sprezzante e sarcastico del
fratello gemello di M che, alzandosi nervosamente dalla poltrona, aveva
cominciato a sbirciare anche lui tra gli ultimi appunti del fratello raccolti
nel fantasmino.
«E poi.. parla come M.. Fabrizio
parla come tuo marito; non te ne sei accorta?», aveva aggiunto con tono
tagliente e subdolamente velenoso.
«Gli ha sempre voluto bene.. e
questo conta molto», rispondeva la donna leggermente impassibile.
«Ma cosa ha combinato? Che cosa
ha scritto di tanto indegno o di così folle per essere ricoverato in manicomio?
Sempre attento alle virgole.. sempre pieno di sé e presente a se stesso.. M
sarebbe dunque impazzito.. così, d’emblée. Incredibile, mio fratello è
impazzito.. E per cosa? E poi sarebbe diventato matto solo a giudicare da quel
che scrive? Pff.. merdre», fu
l’ultimo commento molto esacerbato del gemello di M, i cui gesti ed espressioni
verbali ricordano ora alla donna i gesti e le espressioni del marito ma, e sia
detto molto en passant, senza l’eleganza dei modi di lui.
Ma poco prima della sua scomparsa
M aveva scritto al medico psichiatra una missiva (e qui il plagio sembra essere
il suo forte, perché sembra che a tratti M riporti intere frasi del Chisciotte)[3], che
la mattina seguente il dottor Mentòre aveva trasmesso al fratello e alla moglie
di M insieme alla notizia della sua sparizione.
La lettera, in quel momento in mano al fratello di M che l’aveva sfilata dal
fantasmino, suonava dunque così:
roma, el dìa martes, el
primero de diciembre ad mmxv
gentile prof. Claudio Mentòre,
posso già immaginare il suo stupore dopo aver letto le
mie mirabili note che, dietro sua incomprensibile richiesta, e senza dirmi
nulla, mia moglie o mio fratello le hanno consegnato.
Potrei qui discutere del metodo o della deontologia
che appare dietro il vostro procedere, ma quel che però ora più mi preme farle
sapere è che son più di quattro anni che scrivo regolarmente su tutto quel che
mi accade e vivo a livello emozionale e che riguarda quel che m’è successo, ma che,
mio malgrado, non riesco ancora, pur sforzandomi, razionalmente a spiegarmi.
Ovviamente, potrà sembrarle stravagante e forse anche
un po’ banale quel che scrivo; ciò nondimeno le anticipo che tutto quel che
riguarda la mia stramba fissazione trova conferma nella mia scrittura, sia nel
modo in cui scrivo che di quel che scrivo. Certo, non credo sia facile,
leggendomi, capire l’evoluzione psichica di un soggetto ormai da un bel po’
fuori di sé; però, con piccoli passi, e magari seguendo il dsm-iv, il vostro grimoire, la
vostra bibbia, lei saprà trovarne certamente una spiegazione[4].
Le faccio dunque una piccola cronistoria di come è
andata evolvendosi la mia pratica scribale, o meglio, di come, con le mie
circonlocuzioni verbali da immaginifico e smarrito autobiografo alla ricerca di
sé, ho tentato di esprimere me stesso e la mia malattia scrivendo.
Dapprima, cominciai a farneticare sulla mia sofferenza
cercando inutilmente di spiegarmene l’origine, ma senza riuscire a capirla e
trovare il modo di come superarla. Pensai allora al suicidio; cosa che per lei
sarà indubitabilmente conseguenza, spiegazione e ragione prima della strana
follia a cui son giunto e di cui quasi tutti, e mio fratello in primis,
ormai si son convinti.
Ora però, se mi permette, primariamente e seriamente
le chiedo: ma lei, dottore, è in grado di capire quel che dico? È in grado di
percepire che già da qualche anno io non esisto più? Che sono già scomparso?
Che anche se lei in questo momento mi vede e parla, e presto darà la sua
scientifica interpretazione sulla mia prossima sparizione, io sono già morto?
Nevvero che lei comprende tutto questo?
D’altronde, per trovare una soluzione, dopo tre anni
di angosciosa e maniacale trascrizione della mia follia cominciai a rubar libri
per farmi arrestare, con l’incomprensibile speranza che, forse, con l’isolamento
e scrivendo, sarei riuscito a superare questo stato di prostrazione e di
sofferenza che ancora mi opprime.
D’altro canto, di quel periodo funesto, ebbi anche la
tentazione di scriverci un racconto o, peggio, un romanzo, osservandovi tutti
quei principi che son previsti per scriver bene libri e così provare a dar
forma e ‘visione’ alle mie terribili e sempre più insostenibili angosce.
Confesso che, per la verità, di questo racconto ne
avevo già scritte quasi cento pagine. E per provare poi se quei principi
corrispondessero a quelli che pensavo io, le feci leggere a persone che
potessero essere attratte da questo tipo di letture, sia a dotti che a
semplici, che magari badano solo al piacere di sentir cose stravaganti, e da
tutti indistintamente riportai lodi lusinghiere.
Ciò nondimeno non son voluto andare avanti, sia perché
mi pareva cosa aliena da me, che matto non lo son mai stato, sia perché vedevo
che erano solo gli sciocchi che v’esprimevano un parere ed io non volevo
sottostare al giudizio incerto di questi.
Ma ciò che soprattutto mi tolse il pensiero e il
piacere di finirlo, fu infine il ragionamento: da ciò che scrivo, traspare
l’animo mio; il che può far ridere o piangere, e quindi espormi o alla burla o
alla commiserazione, secondo il gusto di chi legge le mie apparentemente ben
congegnate assurdità.
Decisi, dunque, di distruggere tutto quel che avevo
scritto, cercando poi di consolarmi con altri scritti di più ameno e piacevole
contenuto. Il fatto è che dopo questo cambio di registro, più scrivevo di cose
amene e banali, più sentivo che lentamente stavo cessando di esistere. Certo,
in quel periodo cominciai anche a ridere di me e della mia malattia, cercando
di rendere, nella scrittura, la banalità della vita che ormai conducevo.
Alla fine interruppi quell’inutile e insensato
intermezzo e ripresi a scrivere del mio dolore che, e solo in quel momento
cominciai a rendermene conto, aveva origini molto più profonde di quanto fino a
quel momento avevo pensato. Scrivendo, cominciai allora a prendermela con mia
madre, su cui scaricavo ferocemente tutte le colpe e le responsabilità della
mia infelicità.
Devo dire, però, che la cosa, con mia enorme sorpresa,
cominciava a attenuare la mia sofferenza. Così continuai, fino ad arrivare a
scrivere cose di una crudezza inimmaginabile. Amavo mia madre, ma in quel
momento, in quel che scrivevo, cercavo di renderla vittima e insieme partecipe
consenziente dei miei più turpi e crudeli piaceri. E poi, cosa a cui lei saprà
dar certo una scientifica spiegazione, godevo profondamente nel farla godere di
me e soffrire per me.
Finalmente smisi di scrivere di mia madre, anche se a
volte mi masturbavo ancora pensando intensamente a lei. Riuscivo, in tal modo,
e inspiegabilmente, a curare in parte qualcosa della mia incomprensibile
malattia.
Queste, dunque, sono le ragioni per cui ho voluto
scriverle, perché le torneranno certamente utili quando vorrà dare una
spiegazione alla mia sparizione. Vale.
ndr - Allegato alla missiva, come accennato, e anch’esso
scritto a mano su carta intestata dell’ospedale, seguiva, forse a
giustificazione o a difesa della sua non molto comoda posizione, un breve appunto
di Mentòre per il gemello e la moglie di M sulla sparizione di Em:
gentile dt. M,
gentile signora,
nonostante abbia appreso in leggero anticipo, con la
lettera che vi allego, delle intenzioni del vostro congiunto, e dopo averne
informato il tribunale di sorveglianza e allertato gli infermieri di reparto,
stanotte il signor M, almeno così sembra che sia, è scomparso.
Quel che appare ancora inspiegabile è come possa
essere successo, perché s’era pronti ad intervenire e fare in modo che il
paziente non mettesse in atto i suoi propositi.
D’altra parte, ieri sera, fino a circa mezzanotte,
l’avevano visto sereno e quasi sorridente che guardava fuori dalla finestra.
Confidando nella vostra collaborazione nel ritrovare e
curare il signor M, invio cordiali
saluti.
Prof. Claudio Mentòre neuropsichiatra. Addì, 2
dicembre 2017, dall’Ospedale Divino Amore in Roma.
«Quindi Mentòre sapeva già da
ieri che M sarebbe scomparso. Che misero! Che inetto.. dicck head.. shit.. fface», fu il
commento acre e freddo del gemello di M.
«Ma Fabrizio ha letto questa
lettera? Ieri sera, guardando M e vedendolo che si muoveva tutto storto, non
volevo riportarlo in clinica. Mi faceva pena.. e paura. Cosa strana, è che
avrei voluto abbracciarlo per rassicurarlo.. ma non ci riuscivo, tanto ero
disgustato e profondamente impressionato da lui», concluse infine, teso e
preoccupato, il gemello di M.
La mattina stessa, tra l’altro,
un paziente cronico completamente fuori di senno e forse amico di M, incontrandolo
alla reception così gli si era rivolto, con gli occhi sbarrati e completamente
fuori dalle orbite: «Dove te ne sei involato ieri sera?!». Inoltre, a detta di
un’infermiera, pare che qualche ora prima della sua sparizione M avesse
rimproverato ferocemente al dt. Mentòre la distruzione di tutti i suoi libri: d’altronde,
glielo aveva comunicato tra le lacrime la moglie quella mattina stessa, per cui
M aveva scritto allo psichiatra [la lettera testé menzionata e trascritta - ndr]. «Stupido idiota», sembra poi
gli avesse detto incontrandolo in corridoio; e pare anche dicesse di volerlo
uccidere con le sue mani e che fosse in grado di poterlo fare se l’infermiera
non si fosse messa a piangere terrorizzata. D’altronde, la forza e la
determinazione che in quel momento M sprigionava ben giustificava il
comportamento della donna, che pare fosse l’amante dell’anzidetto medico
psichiatra; e, per pena degli amanti, M soprassedette, sorrise alla donna e,
per tranquillizzarla, le chiese banalmente una Gauloise, la marca delle
sigarette ch’egli stesso fumava.
Il fatto è che la sera poco prima
della scomparsa di M[5], ci
fu un rapido e sintetico colloquio tra i due gemelli, e fu M, piuttosto
infastidito dall’inaspettata presenza del fratello a Roma, ad aprire con eccentrico
frasario le danze.
«E quella blonde girl londinese, quell’incredibile bellezza che
t’accompagnava l’anno scorso qui a Roma e che cercavi di non farmi vedere, come
sta.. che fine ha fatto?». Così M s’era rivolto al fratello mentre, intento a
preparare con cura le sue cose, provava a farlo ridere un po’ sperando di non
uscir troppo male dalla strana e imbarazzante situazione in cui egli stesso si
era cacciato.
«Da quando sa che sei mio
fratello gemello - rispose il fratello di M leggermente ridendo - Helen legge
tutto di te, perfino le puttanate che pubblichi su quella stupida rivista
online; quella di letteratura erotica, per intenderci. Poi, la bimba, vuol raccontarmi;
ma io non la sto a sentire. Difatti, le dico solo: ‘Fai il tuo lavoro[6] e non
mi scocciare con queste baggianate, che è già troppo che quell’idiota l’abbiano
messo in manicomio per star anche a sentire te che parli di lui e della sua shine,
della sua brightness’.
Proprio così: ancora parla di te e di quel che scrivi usando spesso termini
come ‘lucentezza’, se non addirittura di ‘splendore’. È impazzita.. è impazzita
anche lei, leggendoti; come te, d’altronde, che sai scrivere solo scemenze. Da
allora, infatti, non scopiamo più. Per colpa tua.. eh, eh, eh.. per colpa tua.
Sei contento, eh! vecchio lurido bastardo? E dice anche che sei più bello di
me; bah.. che stupida! E poi, dice che le piacciono molto i tuoi quadri, quelle
immani cagate con cui ultimamente hai riempito lo studio; con quei titoli così
insensati, poi, che sfiderei chiunque a tirarne fuori uno straccio di
interpretazione». M ascolta in silenzio, mentre guarda il fratello negli occhi
senza ormai ridere più.
«Ma a tua moglie piacciono i tuoi
quadri? Ieri, guardandoli, sforzandomi di capire qualcosa di te e di quel che
t’è successo, il mio primo impulso è stato quello di andare al cesso. Che
consolazione, vero? E volevi anche che t’aiutassi a piazzarli a Londra! Ma
veramente sei diventato matto? E cosa significa poi ‘Den Mutter!’?.. quel
titolo in tedesco di quello sgorbio incomprensibile che ultimamente hai fatto?
E perché ‘Madri’ in tedesco, lingua di cui non conosci un’acca? E quel titolo
in francese di quel quadro tutto nero? ‘Ighitur, o la follia d’Egmont’.. Ma
cosa vuoi dire? Che cosa vuoi significare?! Ma tu sei tutto matto.. ma matto
matto matto! Dai preparati, che ti riaccompagno in clinica. E poi tirati su! Riassestati,
shit!.. rimettiti in ordine, perché
più va avanti questa storia e più m’incazzo, perché tu così scemo non ti ci
avrei mai immaginato».
ndr - Sospendo qui il
resto della conversazione - che si svolge in bagno - perché le lacrime non mi
consentono di continuare. Dico solo che il gemello di M, imprecando e coloritamente
bestemmiando in inglese, rimprovera ora al fratello, ancora in quasi sacrale
silenzio, quel che da perfetto fedifrago sta facendo vivere alla moglie e ai
figli.
Il fatto è che due gemelli, in
molte cose affatto simili e affini, sono ora due uomini completamente agli
antipodi; così almeno in quel momento apparivano M e suo fratello in bagno:
determinato, sicuro di sé e cinico, almeno all’apparenza, il londinese;
smunto, depresso e quasi fuori di sé e morente, l’altro.
Provo, però, a riprendere e trascrivere
la conversazione, perché da qui in poi si capiscono molte cose della
controversa sindrome che può aver colpito M.
«E poi.. sei sempre a caccia di
donne? Tua moglie non se ne accorge che non vedi che peli di fica? O si fida
ancora solo del fatto che sei un imbranato? Però, più invecchi e più diventi
concupiscente: confessa.. Pare che d’Albert t’abbia insegnato qualcosa. E leggi
ancora Gautier? Ti piace ancora Théophile Gautier?», prosegue con arrogante
superiorità il gemello di M.
«E Balzac? Flaubert? Racine? Una
piccola regressione: alla scoperta del mistero intra-uterino del fanciullino
che è in te. Tre anni fa leggevi solo Bachelard, Adorno, Gadamer, Chomsky.. ed
ora.. Gustave Flaubert!», grida piano fingendo, alzando un indice, di fare una
piroetta facendo sorridere leggermente il fratello.
«Pare che il tuo amico sia rimasto molto
impressionato dalle sottolineature e dalle note che hai fatto su tutti quei
libri. Forse non lo sai, ma gli è stato anche chiesto, da Mentòre e da tua
moglie, di dar fuoco a tutto e, a quanto sembra, pare l’abbia fatto
egregiamente. Però, prima d’incenerirli ne ha preso nota in un suo book of
memoires: così l’ha chiamato ieri sera ridendoci su. T’hanno così bruciato
i Joyce, i tuoi Duchamp, i Pessoa e chissà quant’altra tua roba hanno dato alle
fiamme. Fra un po’ la stessa sorte toccherà ai tuoi quadri e forse anche a te.
Ma ancora non hai capito che devi scomparire? Tu, così come sei, devi
scomparire! mettitelo bene in testa!
«E poi li rubi. Dal verbale dei
carabinieri sembra che ne hai rubati almeno una trentina.. e sempre credendo di
farla franca, anche quando, con tanto di riprese video, e pare che tu ne fossi
consapevole e te ne divertissi anche tanto[7],
avrebbero potuto sin da subito inchiodarti e ridicolizzarti. Ma perché li rubi?
Perché rubi libri? Non hai più soldi? E perché volevi farti arrestare? Così
almeno m’ha detto quel demente di Mentòre. Ma che t’è preso? Scemo!», aggiunge
infine rabbioso il dottor M stringendo forte il fratello per il braccio e
scuotendolo un po’.
«Ho visto, poi, che leggi Spenser
e che addirittura lo rubi», prosegue con tono sarcastico il gemello di M. «In
Inghilterra è ormai da secoli considerato una reliquia e tu, qui a Roma, lo
esalti e lo osanni a tal punto da considerare il The Faerie Queene il
più gran poema mai scritto; così almeno ha capito Fabrizio, che ha letto quasi
tutte le tue stramberie. Bah! Ma lasciamo perdere.. tanto hai perso la bussola
e non ti ritrovi più.. where are you? shit! Che pena!».
Da ciò che riferisce il fratello,
pare che in quel momento, imprecando dapprima contro quel ‘farabutto’ di
Mentòre e in parte anche verso l’ingenuità di Fabrizio, M ebbe un breve attacco
d’ira; ma, ricomponendosi subito dopo, quietamente e seraficamente ebbe a dire:
«Non so se tu e mia moglie vi
rendiate conto di quel che state facendo. A me sembra che dal momento in cui
avete deciso di quel che sarà la mia prossima esistenza, ciò significa che per
voi io non sono e non conto più nulla. Da questo momento, dunque, so che tu non
moverai più alcun passo verso di me; ne sono consapevole, e ciò mi crea un
disagio non indifferente. Sappi allora che sono anni che percorro strade che
non son strade, sentieri senza traccia che non so affatto dove conducono e che,
percorrendo anche vie traverse, ancora non riesco a chiarire una verità, anche
se il tempo, che dicono riveli tutte le cose, ancora non me ne ha reso la
benché minima ombra. Ciò nondimeno, io non dispero di liberarmene, perché sento
che prima o poi troverò il modo».
D’altronde, in una
lettera inviata al fratello qualche anno prima e risalente al periodo iniziale
della sua malattia, M aveva anche cercato di darsi e dare una spiegazione al
suo stato di prostrazione. Difatti, in quella lettera, poco dopo i suoi
tradizionali convenevoli di rito, che come ormai suo solito si divertiva a
riempire di inutili florilegi cervantini, M rese e scrisse questa sua
importante confessione che provo qui a riportare quasi per intero, tanto è il
senso di inadeguatezza e di galoppante follia che traspare dall’uso di certe
parole ivi impiegate.
«Dunque, quel ventisette ottobre[8], con questa agitazione m’incamminai
per tutto il resto della notte per le vie deserte del centro, finché all’alba,
esausto e senza più orientamento, giunsi in un posto, certi prati che non so
proprio da che parte di questa magica città stiano, e ne rimasi completamente incantato.
‘Forse - pensai - sono arrivato in
quella radura che dentro di me andavo cercando, quella clairiére di cui parlava Marcel?’.
In quel momento, però, capii d’aver
perduto il senno; e sento dentro di me che, da allora, non sempre ce l’ho
intero e a volte così menomato e debole che posso far mille pazzie, come
ripetere invano il nome dell’amor mio nel cuore della notte, immaginare
d’averla accanto a me distesa sul mio corpo, immaginare di sentire l’odore del
suo alito e il fresco sapore del suo sesso. Ma quando poi mi ritrovo in senno,
sono così stanco e pesto che a stento riesco a muovermi e a respirare. Il fatto
è, che da allora cominciai a non voler più guarire e neanche a morire.
D’altronde, avevo già letto qualcosa
(nel don Chisciotte, mi pare)
di quel che significa essere incantati, cioè esser presi dal desiderio
più feroce seguito però dalla melanconia più nera per non averlo potuto
soddisfare. Ma ora leggi ciò che
sto provando a scrivere per calmare un po’ questa ancor troppo incomprensibile
mia malattia».
Così M annunciava al fratello di
aver cominciato a scrivere il suo grimoire
facendogli leggere la breve e strana nota con cui lo avrebbe introdotto, e che
la dice lunga sul grado di prostrazione in cui M era sprofondato:
«Quel che qui scrivo riguarda me, solo me..
[1] Tra
l’altro, M, scrivendo, fa molti errori ortografici e sintattici, contravvenendo
e distruggendo spesso anche la consecutio
temporum. Ma gli ‘errori’, a volte, riescono ad esprimer meglio lo stato
d’animo (per eccesso d’emotività, euforia o eccitazione) con cui M scrive. Tra
le note alla sua traduzione dell’Igitur di Mallarmé Fabrizio, d’altronde, aveva letto l’appunto: ‘è più l’espressione fonica, o sonora, che rende il significato emotivo di chi scrive’.
[2] Pare
che, quando M gliene parlò, Fabrizio rimase molto entusiasta delle alterazioni
fonico-verbali di tal Alfred Jarry, il
cui Ubu Roi, insieme agli Exercices de style tradotti da Eco,
erano tra le cose più esilaranti che M gli aveva recentemente consigliato di
leggere, e meglio se in lingua originale.
[3] Pare
che ultimamente, anche al fratello gemello, M parlasse e scrivesse (con mucho
gusto, gli diceva poi) con frasi imparate a memoria tratte, appunto, dal Chisciotte.
[4] ndr - A quanto pare, i primi tempi
della sua strana malattia M si dedicò all’analisi del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (dsm-iv), da cui trasse alcune
indicazioni che, riportate in una sua vecchia nota, probabilmente M aveva
recentemente ripreso e consultato, ma che però non riteneva sufficienti a
spiegare la sua mania. In questa nota, d’altro canto, v’era scritto: «Non
soffro certo di disturbo ossessivo-compulsivo di personalità, checché ne
possano pensare autorevoli strizzacervelli per cui tutti, chi più chi meno,
soffriremmo di questo disturbo. D’altronde,
non son mai stato un bipolare, perché non alterno mai una condizione depressiva
ad un’altra d’euforia e tutto si può dire di me, ma certo non che i miei
comportamenti possano essere classificati come distonici, se non peggio,
‘aberranti’. Sì, è vero, piango spesso e, forse, posso essere affetto da quella
stranissima sindrome chiamata ‘la malattia del fantasma’ che il dsm indica tra le sindromi culturalmente
caratterizzate, perché ora le mie preoccupazioni si concentrano tutte sul
pensiero di morte, che mi procura svenimenti, vertigini e allucinazioni, anche
se però non perdo mai coscienza perché, al contrario, sono di una lucidità che
a volte impressiona e sconcerta anche me. Ma ciò significa, e non riesco a
rassegnarmene, che non sono ancora in grado di dare un nome alla mia
incomprensibile malattia e che, forse, non guarirò più. E questo non mi
rasserena per niente».
[5] Pare intorno a Mezzanotte,
come riferiscono gli infermieri e alcuni pazienti.
[6] Il fratello di M è
direttore, da circa dieci anni, di un importante hotel di Londra.
[7]
Ripreso in una video-sorveglianza alla libreria Rinascita, pare che M salutasse
verso la videocamera mentre s’imbragava i pantaloni con dentro il The Faerie Queene.
[8] La data dell’anno non
appare, ma è probabile che la lettera risalga al 2011; presto chiederò conferma
al fratello.
Dulcinea del Toboso
X
(Epilogue)
a ddt
Of all tales ‘tis the saddest
- and more sad,
Because
he makes us smile
(Lord Byron, Don Juan, Cant. XIII, St. IX)
Quel che segue sono le ultime
cose scritte da M subito dopo la sua scomparsa.
Ovviamente, ti prometto lettore,
che su queste proverò a non intromettermi se non il meno possibile, perché qui
molte cose ‘spiegano’ M e in quale stato mentale scrive. Tra l’altro, ciò che
v’è scritto, grazie a Dio, ora esula completamente da quel narrare situazioni
che, come s’è visto, possono anche raccapricciare il gusto di chi legge e da
cui si potrebbe infine esprimere un giudizio d’acrimonia se non di dispregio
verso di lui.
Pertanto, trascriverò dapprima
una lettera di M al suo gemello scritta la notte stessa della sua sparizione,
che all’apparenza può anche sembrar poesia, mentre in realtà so che non posso farmi
illusioni perché ormai so bene quanto la scrittura di M sia indenne da
qualsiasi scrupolo di tipo artistico o, e non varrebbe neanche la pena di dirlo,
di tipo affettivo o sentimentale.
Più oltre, trascriverò invece la
lettera (che in questo momento ho tra
le mani), indirizzata da M a se stesso, in cui però, benché in compenso anche
in essa non vi sia nulla dello scandaloso ossequio che M in genere fa nei
confronti del corpo e del sesso delle donne, vi si trova quanto nessuno
ragionevolmente s’aspetterebbe[1].
PS. Ti confesso, però, caro e
improbabile lettore, e non so razionalmente spiegarmi il perché, che ora,
leggendo le sue ultime cose, Em m’è
venuto quasi a simpatia, anche se, almeno
così sembra che sia, un bel po’ fuori di testa lo è e che, forse, lo sia
sempre stato, e indipendentemente da quello di cui qui si duole: un don
Chisciotte o un Mr Bloom del 2017, se così posso dire, che s’esprime così come
gli viene senza poi stare a pensar più di tanto o dar troppo peso a quel che
dice; e nonostante quel che dice e che qui scrive! Vale quello che ho
detto.
Roma, 16 gennaio 2018.
Lettera
di M al fratello gemello, dt M, subito dopo la sua scomparsa
deste
lugar[2], el dìa
miércoles,
dos de
diciembre, a las cuatro de la
mañana
Caro M, io tuo e tu mio doppio, specchio deforme della
mia ben più deforme realtà.
Se sapessi da dove ti parlo.. Certi luoghi mentali
ancora sconosciuti anche a me ma che ora frequento e mi sforzo di conoscere
meglio, anche se spesso, e ancora non so perché, perdo l’equilibrio e insieme l’orientamento;
ma a breve capirai come e perché mi ci trovo.
Sappi, intanto, che il solo motivo per cui son qui e
che ora riesco perfettamente a capire, e vi son giunto per vie traverse e a me
sconosciute e che m’han fatto diventare quel che ormai sono, è che sento ancor
viva una ferita così sanguinante che fa dolere il mio cuore ad ogni istante,
incessantemente.
Ogni mio pensiero, come anche ogni silenzio, non
riesce, infatti, a trattenere e a placare questo mio fuoco, e dalle ceneri del
mio cuore, anche se solo leggermente scosse, avvampano spesso immani fiammate
che mai si placheranno, perché quelle fiamme ardono sempre, anche se da me
gelosamente e scrupolosamente tenute nascoste[3].
Eppure, sin da giovane, quel che credevo fosse mio padre, o chissà quale altro
strano diavolo al suo posto, m’aveva avvertito e indotto a dominare con la
ragione quelle fiamme striscianti che, conoscendomi, prima o poi, con la loro
furia, sarebbero potute divampare oltre ogni misura dentro di me.
E così ora invecchio soffrendo, e permanentemente si
rinnova la mia sofferenza.
Il fatto è che tanto sprezzai come vano il sacro nome
di Amore e derisi così tanto gli amanti quando li sentivo piangere, che il loro
Dio, infastidito da me, mi scagliò contro così tanti dardi che alla fine
m’accese e ne rimasi completamente incendiato. Vinto così da lunghi assalti,
alla fine come un demente m’innamorai, e ora languo pene infernali.
Soffrendo, però, a un certo punto, non potendo più
resistere, cominciai a scrivere.
Dapprima cercando di lenire il mio dolore narrandolo:
così, come mi veniva; anche se poi, continuando a scrivere e a piangere, pensai
di smettere, con l’idea che scrivere m’avrebbe invischiato ancor più in questa
storia.
Il fatto è che m’accorsi subito che non ci riuscivo.
Provai allora a scrivere pensando ad altro, ossia a qualcosa che mi distraesse
e che, facendomi ‘divertire’, m’allontanasse dal mio dolore. Ma durò poco,
perché così facendo sentivo che stavo cominciando a distruggermi l’anima e
lentamente a scomparire.
Ed ora, dunque, se scrivo, m’inoltro sempre più per strade contorte e perverse, tutte rotte
e abbandonate, alla ricerca di una seppur lieve e blanda ma plausibile
spiegazione.
Ma troverò, prima o poi, la mia radura, la mia grotta di Montesinos, il
luogo della mia pace; ci puoi scommettere caro mio M/M.
PS. Non ti
doler di me. Vale.
lettera a M
Gentile e stranamente (per me) mio incauto e benevolo
amico.
So già, per esperienza, che far nota delle mie gravi
disavventure psichiche e mentali non sia compito da poco, considerati gli
sviluppi che la mia strana malattia ha avuto e le disgrazie che, malaccorto me,
mi son procurato. Tuttavia, anche se non le sarò mai grato per quel che ha scritto, lei è
riuscito a dar forma alla mia pur sempre insignificante e ancora ridicola
esistenza.
Quel che ora le chiedo, però, è chi o cosa glielo ha
fatto fare e se ne ha tratto qualche beneficio; spero di sì, anche se
onestamente ne dubito, perché questa storia non credo valga la pena d’esser
raccontata a chiunque se non forse solo a se stessi o, peggio, solo per dare
una spiegazione medico-psichiatrica a questa mia singolare affezione.
Certo, se la trascrizione o il racconto delle mie
disavventure che lei sta facendo fossero qualcosa di istruttivo per chissà
quale improbabile lettore, io non avrei nulla da rimproverarle.
Il fatto è che lei narra di cose e fatti mentali che,
anche se quasi certamente hanno del patologico, non sono ancora definibili all’interno
di una casistica chiara e analizzabile e, dunque, nulla di particolarmente
‘edificante’, se non solo per confermare e ratificare conclusioni di un’astratta
e incerta analisi di tipo neuro-psichiatrico.
Quel che non tollererei, tuttavia, è che possa
apparire come un buon resoconto delle mie angosce solo per alimentare la
curiosità di quelle persone che, nel vedere come la sofferenza altrui si
manifesta, trovino in essa quell’abietta forma di conforto che solo i più
miseri e sventurati riescono ad apprezzare, che, detto fra noi, sono molti ed
enormemente di più della semplice maggioranza.
Le chiedo, infine, di inserire nella sua trascrizione
quel che a breve le scriverò, perché forse potrà ben spiegare, a lei stesso e a
me, quel che m’è successo, anche se, come già detto, non potrò mai esserle grato
per aver reso tangibile la mia terribile angoscia e reso nota la mia
conseguente sparizione.
Sappia, allora, che qualche anno fa io quasi non
esistevo e stavo così bene e sereno senza amore, che quasi non m’accorgevo che
la mia vita scorresse nella più sana e inutile sobrietà. Il fatto è che quando
improvvisamente m’accorsi che l’amore per una donna stava cominciando a
ribaltarmi l’anima e il cervello, cominciai da allora a sragionare e, così,
arrivare a imprecare contro il mio Dio per ciò che dapprima m’aveva fatto disumanamente
desiderare ma che infine volle con violenza negarmi, costringendomi poi
lentamente e sensibilmente a morire e gradualmente a scomparire.
D’altronde, per lei sola io nacqui e per lei sola ho
voluto prender vita; e voglio che lei, caro M, sappia da dove sono nato e quali
sono le mie nobili origini.
Ecco dunque il busillis
che arrovella e occupa il mio cervello da mane a sera, costantemente,
ferocemente, perché l’esser nato senza scopo non significa affatto ch’io oggi
voglia completamente scomparire. Semplicemente mi faccio da parte, per poi
forse ri-nascere ma con più vigore di prima.
D’altra parte, quando m’accorsi allarmato che stavo
scomparendo, ripensai a quel triste e sconsiderato cavalier manchego che nel
suo delirio finale, poco prima di lasciarsi morire, era giunto incoscientemente
a dire:
«Benedetto l’Onnipotente.. che tanto bene mi ha
fatto. Davvero le sue misericordie non hanno limite, né peccati di qualsivoglia
natura riescono a impedirle».
Il fatto è che forse lo sprovveduto ex gran hidalgo
non s’era ancora reso conto d’esser già morto; infatti, il non più gran
manchego e non più ingegnoso hidalgo così continuava improvvidamente a recitare
senza capir più nulla di quel che diceva:
«Ormai, ho il giudizio libero e chiaro.. senza le
ombre caliginose dell’ignoranza in cui m’aveva avvolto l’incresciosa lettura di
tutti quei detestabili libri che avevano reso il mio cuore un’ingannevole landa
sanguinante».
Ed era contento! L’idiota cavalier manchego,
instupidito dal dolore, ora era contento di morire, perché subito dopo riprese
a dire:
«Finalmente questo mio cuore non sanguina più,
anche se a volte il desolante deserto che sento in esso mi turba l’anima. Ma
col ragionamento, e lo sguardo limpido della coscienza, son riuscito, al di là
di tutto, a guarirmi. Non son più pazzo, e voglio e desidero che, dopo morto,
mi si ricordi come uomo dabbene».
«Che mi si ricordi, dopo morto, come uomo dabbene..»: così s’espresse l’ex
mirabile e triste cavalier manchego! Ma quale uomo! Stupido idiota! Egli dimenticava! Voleva dimenticare! L’ex
geniale Cavaliere dalla Triste Figura era giunto a voler dimenticare! Che
stupida follia!
Infatti, subito dopo l’ex amabile hidalgo aggiungeva:
«Alimentavo tutto il giorno i miei sogni d’amore
con la lettura, cercando nei libri ciò che ne potesse dar forza e verità; e
solo ora capisco quanto questo sentimento sia menzogna, quanto sia un sottile
sortilegio con cui demonici incantatori avvolgono quegli ingenui cavalieri che
in esso credono così di dare un senso alla vita. Ed ora ormai, son nemico di
tutto ciò che ho letto e scritto; e questo mi rasserena anche perché qui dove
sono tutto quel che vedo è chiaro; non c’è la benché minima ambivalenza o
ambiguità: o bianco o nero. Certo è, che io aspiro al bianco; anche se poi
infine è e rimane sempre tutto nero. Ma, d’altronde, questa è la mia vita ed io
posso far ben poco per rendermela piacevole e secondo i miei gusti».
Proprio così giunse infine a dire stupidamente l’ex
amabile cavalier manchego. Ma io ora aggiungo: «Il puzzo di trementina non
obnubila più il mio cervello: credo che non dipingerò più». Vale.
[1] Né, tantomeno, i componenti della sua
famiglia, che s’aspettavano, se non la richiesta di un perdono, perlomeno una
giustificazione plausibile della sua ‘folle’ scomparsa e del suo scrivere da
chissà dove.
[2] Ovviamente, non è
possibile stabilire il luogo cui M si riferisce.
[3]
Sembra che, come se fosse preso da un irrefrenabile slancio poetico (anche se
ammetto, può esser solo una mia impressione), in ciò che M scrive ci sia come
un’intenzione a stabilire un parallelo, o una
concordanza, tra il bruciare dei suoi libri e il bruciare del suo cuore - ndr.
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