lunedì 21 settembre 2015

Breve presentazione di: 2018. A True Story of Schizophrenia

Roma, 4 agosto 2016
Gentili Lettori,

la storia che qui ho intenzione di presentarvi, sebbene denoti una narrazione all’apparenza ancora di matrice realista, se ne allontana notevolmente, sia nei modi che per i fini che si propone.
In effetti, in testa al frontespizio l’indicazione ‘Mental Health. True Stories Series’ già svela l’inusuale disposizione narrativa dell’autore perché, redatto in forma anonima, racconta la storia di un bibliofilo malato di mente, un attempato schizofrenico che, in balìa dei suoi ‘incontrollabili’ sentimenti, sembra si trovi ora impegnato in una improbabile ricomposizione di sé attraverso i libri e la loro attenta ‘ri-scrittura’.  
Ecco, dunque, che ci troviamo di fronte ad un libro scritto coi libri e sin dalle prime pagine ci si porrà necessariamente il costante e allarmante interrogativo: «Ma si può rendere omaggio all’arte o alla grande letteratura attraverso il plagio e da una visuale ‘malata’»?
D’altronde, ciò che si narra è essenzialmente un’avventura di tipo mentale, cioè una narrazione costruita tutta su fatti e contesti che trovano una spiegazione soltanto in una esuberante ‘mania’ bibliofilo-bibliografica, che rende il racconto un continuo riflettersi delle opere letterarie lette, sottolineate e postillate dal protagonista, uno schizofrenico di nome M che, forse per amore, dopo maniacali immersioni in ricerche bibliografiche per dare una spiegazione alla sua ‘consapevole’ follia, ora sembra voglia soltanto annullarsi e distruggersi. Di qui la decisione dell’ospedale psichiatrico dove M è in cura di far fuoco di tutti i suoi libri, considerati la ragione prima della follia in cui il protagonista è sprofondato.
Dico subito, però, che non c’è quasi nulla di particolarmente tetro nella sfumata biografia di M, anche se molte ripetute indicazioni bibliografiche (soprattutto nella prima parte) possono suggerire un quadro fosco del tipo di letture con cui il soggetto s’è insufflato la mente e che, a volte, rendono la lettura asfissiante se non addirittura ‘nauseante’. In effetti, quel che si legge nella prima parte è sempre relativo a contesti e situazioni inerenti a opere letterarie ormai quasi sconosciute e cadute in disuso, di cui M invece è assiduo e attento lettore (il riferimento qui è al The Faerie Queene di Edmund Spenser).
Il fine, ovviamente, è quello di trasportare chi legge nel contesto lecto-psico-patologico del protagonista seguendo un percorso di tipo esclusivamente psico-letterario, da cui però è possibile desumere l’evoluzione mentale di questo schizofrenico innamorato.
Il libro, dunque, è diviso in due parti (di cinque capitoli ciascuna) completamente agli antipodi tra loro. La prima parte, come accennato, è fatta di varie ‘oscurità’ e di vagheggiamenti pseudo-letterari, in cui l’indeterminatezza e l’inconsistenza del personaggio predominano. Alcuni lumi però appaiono attraverso le indicazioni bibliografiche delle opere lette, sottolineate e ‘alacremente’ postillate dal protagonista, che denotano però il grado di prostrazione mentale raggiunto e dunque potrebbero giustificare la decisione dell’ospedale psichiatrico di far scomparire tutti i suoi libri.  
La seconda parte, invece, è tutta all’insegna della ‘luminosità’, in cui il protagonista prende finalmente forma e ‘corpo’ e agisce (o re-agisce) a suo modo alla sua incomprensibile malattia.
A una ‘Discesa agli inferi’ succede così una ‘Ascesa al cielo’ e le due parti sono intitolate Igitur, ou la folie d’Elbehnon, titolo di un’opera di Mallarmé che tratta appunto di una discesa agl’inferi, e Marcel (invisible) re-monte un escalier, titolo di un quadro di M che richiama, invertendone il senso, il titolo di un’opera di Marcel Duchamp, ovvero il Nu descendant un escalier, a sua volta ispirato all’Igitur di Mallarmé.  
Ogni capitolo è intitolato-dedicato a Dulcinea del Toboso (superba creazione mentale del Don Chisciotte) perché, come tanti piccoli tasselli, ognuno di loro indica l’idea di bellezza che il protagonista si è costruito. Infatti, ciascuno di questi capitoli è sottotitolato con un riferimento a un’opera famosa e spesso ‘importante’ della letteratura mondiale (Faust, The Faerie Queene, Ulysses etc.), ovvero una traccia su cui è andata evolvendosi non solo l’idea di bellezza che M s’è fatto, ma anche il livello di faticosa ricerca di una soluzione al suo malessere, denotando nel contempo la snervante condizione psichica e mentale a cui è giunto.
La prima parte (Discesa agli inferi) è perciò una vera e propria ‘immersione’ nei libri letti, sottolineati e maniacalmente postillati da M, che in essi sembra sia alla ricerca di ‘paralleli’, nel libro concordances, e comunque qualcosa che possa dare una spiegazione al suo stato di prostrazione.
Difatti, tutto ciò che il medico pediatra (un amico fraterno del protagonista incaricato dall’ospedale di incenerire tutti i suoi libri) legge consulta e annota è sempre in relazione con quanto negli ultimi tempi M andava cercando nei libri che leggeva e sottolineava (soprattutto classici della letteratura, come i già citati Faust, Don Chisciotte, Ulysses, The Faerie Queene).
Dunque, è come se tutta La letteratura del mondo - per citare il titolo di un vecchio libro trovato dal medico pediatra sul comodino di M - piombasse qui tutta insieme per dare una spiegazione all’afflizione del protagonista, perché i rilievi bibliografici fatti da M e letti dal medico sono tutti incentrati sulla ricerca delle ragioni per cui la sua ‘strana’ psicosi ha avuto luogo, e dunque come trovare il modo con cui riabilitarsi e uscirne.
Tantissimi, d’altronde, sono i libri di M che vengono destinati all’incenerimento perché ormai considerati da tutti (come già diagnosticato dall’ospedale psichiatrico in cui il protagonista, dopo l’arresto per furto di libri, è stato recluso) la causa prima dello suo stato di alienazione e straniamento.
Un’opera, tra queste, apre infine un varco alla comprensione dello stato mentale in cui versa il ‘paziente’. Si tratta del già citato Igitur, ou la folie d’Elbehnon, una pièce teatrale pressoché sconosciuta e incompiuta di Stéphane Mallarmé, che ricorre e si ripercuote in modo quasi ridondante e ossessivo in quasi tutte le note e i post-it all’interno degli altri libri letti e postillati da M e consultati dal medico pediatra.
Questo testo teatrale, pertanto, in cui il protagonista è intento a prepararsi a una discesa agli inferi per cercare la ‘morte’ (cioè il suo annientamento interiore) per poi forse rinascere, è la traccia e il percorso mentale che M sembra stia seguendo alla lettera. Un racconto di M, inoltre, vi si ispira. In quel che scrive, infatti, M emula Igitur, sprofondando in se stesso e nella sua interiorità, provocando uno ‘squarcio’ (e un vulnus) nell’economia del racconto (cfr. capitolo quattro).
Un’altra opera, tuttavia, appare illuminante riguardo la ‘strana’ sindrome di cui M è vittima, e precisamente il Don Chisciotte, con quella ‘assurda’ creazione mentale con cui il grande hidalgo ha dato vita a Dulcinea del Toboso. D’altro canto come già detto, ogni capitolo ne porta il nome; e quando l’idea di bellezza dell’ingegnoso cavaliere errante (Don Chisciotte) entra in relazione con altre immagini di bellezza suscitate da altre importanti opere letterarie (Faust, The Faerie Queene libro sesto, Don Giovanni etc.), l’idea prima, reagendo con quest’ultime ‘chimicamente’, sviluppa situazioni oltremodo inconsuete, secondo quanto prevede la lois de l’hasard.
La storia dunque narra di un bibliofilo ‘psicopatico’ che, per cause incerte (forse un amore non corrisposto, di cui non si saprà mai nulla di specifico), trovando nei libri la soluzione alle sue angosce, decide di annientarsi e distruggersi fin quasi a scomparire.
Dico, infine, che la narrazione è sia in terza persona (un anonimo narratore che altri non è che il protagonista in veste di proprio censore) sia in prima persona, quando cioè M narra le sue avventure bibliofile (furti di libri) e erotiche. Il fatto è che protagonista e narratore alla fine si ‘ricollegano’ fino a ricongiungersi e coincidere, ossia la dimostrazione di una possibile recuperata integrità mentale del personaggio che la ‘strana’ malattia che l’aveva colpito aveva precedentemente disunito e scisso.

Cordiali saluti e buona lettura.


BREVE SINOSSI (che forse i più inclini alle sorprese letterarie di un testo non leggerebbero)


Il primo capitolo (Dulcinea del Toboso I - Don Chisciotte de la Mancha) s’apre subito in media res: un medico pediatra è intento a far fuoco di un buon numero di libri, ormai considerati la causa prima della strana malattia che ha colpito M, il protagonista. Tra i tanti libri che vengono dati alle fiamme (L’Anti-Edipo, Una sola moltitudine, Ulysses, Sexual Personae, Finnegans Wake etc.) v’è anche un Don Chisciotte, la cui innocuità per la salute mentale di qualsivoglia lettore viene poi riconosciuta anche dal medico pediatra, amico fraterno di M. In questi libri, tuttavia, moltissime sono le postille di M riferite al Faust, all’Igitur, alla musica di Mozart e all’opera di Marcel Duchamp. Alcuni inserti con scritti di M trascritti e inseriti dal narratore, infine, danno comunque un’idea della malattia che può averlo colpito.

Nel secondo capitolo (Dulcinea del Toboso II - L’azur! l'azur! l'azur! l'azur!), che s’apre con un breve ritratto del medico pediatra come lettore, una lunga postilla di M sulla musica di Mozart dà un primo segnale della strana sindrome di cui egli soffre. In essa appare, infatti, un confuso desiderio di morte che collega il Don Giovanni mozartiano all’Igitur di Mallarmé. Spaziando qua e là tra le note e i post-it di altri libri emerge infine che l’Igitur è l’opera con cui M crede di poter dare una soluzione al suo dilemma. Il capitolo si chiude sul The Faerie Queene di Edmund Spenser, probabilmente tra le opere più amate da M («forse un fiore all’interno di quel libro..»).

Il terzo capitolo (Dulcinea del Toboso III - Una sola moltitudine) si sofferma soprattutto su una raccolta di scritti di Fernando Pessoa (Una sola moltitudine) e sul Faust di Goethe - di cui il narratore riporta le numerose postille ivi fatte da M - e si comprende perfettamente quel che già, citando ancora l’Igitur di Mallarmé, s’è intuito nei capitoli precedenti: il protagonista vuol sprofondare in se stesso per poi forse rinascere.

Difatti, nel quarto capitolo (Dulcinea del Toboso IV - Faust II: Den Mutter!) è riportato distesamente un progetto di racconto in cui M, novello Igitur, aspira a sprofondare in se stesso. Ma qui, d’altronde, s’apre un aspro conflitto di natura morale tra il narratore (supportato dai commenti dello stupefatto medico pediatra) ed M, che è riuscito a scrivere cose che forse nessuno si sentirebbe in grado di raccontare; e probabilmente nemmeno a se stessi, tanta è l’enormità di quanto qui vien scritto (si narra di crudi amplessi con la madre e con la morte, la ‘sua’ morte, come specificato nel testo).   

Infatti, apertosi questo vulnus, il quinto capitolo (Dulcinea del Toboso V - Magnes sive De Arte Magnetica) è tutto caratterizzato dalla furia incendiaria di cui ora è preda il medico pediatra amico di M. Lo stesso narratore, d’altronde, prende le dovute distanze da quanto scritto dal protagonista, affermando che d’ora in poi tutto ciò che trascriverà sarà passato al vaglio della sua ‘irreprensibile’ moralità censoria.
Vengono così destinati all’incenerimento tutti quei libri che possono aver ispirato M a scrivere quel suo ‘turpe’ racconto. Dapprima, vengono dati alle fiamme molti autori francesi dell’Ottocento (Gautier, Balzac, Flaubert etc.) insieme a un Racine, tutti molto commentati e a tratti anche riprodotti, poi alcuni Shakespeare e infine dei libri scritti da donne, ma di quelle donne che, per intenderci, hanno aperto la narrativa e la scrittura femminile all’elemento ctonio (Agota Kristof, Luce Irigaray, Luisa Muraro, Rossana Ombres), come Camille Paglia suggerisce nel suo Sexual Personae riferendosi al principio femminile già potentemente in atto in Goethe e Spenser.
Il capitolo si chiude con una breve incursione nel primo libro rubato da M, ovvero il The Faerie Queene tradotto in italiano, da cui M sembra notevolmente attratto.

Con il sesto capitolo (Dulcinea del Toboso VI - The Faerie Queene) si apre la seconda parte, dove il protagonista, attraverso i suoi racconti, emerge in forme più chiare e distinte. Infatti, dopo una breve scorsa alla lista dei libri rubati da M, il narratore trascrive per intero il primo racconto che capita tra le mani del medico pediatra.
Su questo racconto appare la data 16 novembre 2017, il giorno del ricovero di M, ma narra del primo stealing book messo in atto dal protagonista un anno prima, e a seguito dell’insensata decisione di farsi arrestare.
Il primo furto riguarda dunque il The Faerie Queene, da poco tradotto in italiano, da cui M sembra attratto innanzitutto per verificare l’attendibilità di una sua recente traduzione di alcuni canti del libro sesto. Ma un imprevisto incontro con un’affascinante sessantenne è l’occasione per capire con quali modalità e intenti ora M avvicini le donne. Infatti, poco più avanti il narratore da ampi stralci di un incontro erotico tra M e l’anziana donna conosciuta in libreria.
Chiude il capitolo, dopo un corposo approfondimento sul significato che l’Igitur di Mallarmé ha assunto per M (che ne ha voluto fare una traduzione completamente diversa da quella fatta cinquant’anni prima da un eminente francesista italiano), una breve analisi del dt. Mentòre su quanto scritto da M, rilevando in quel che legge la gravità psichiatrica che ‘inconsapevolmente’ il paziente ha raggiunto.

Col settimo capitolo (Dulcinea del Toboso VII - The Creative Act : Marcel Duchamp), quasi completamente dedicato ad un altro racconto di M, appare ancora più chiara la strategia di M per risolvere la sua ‘stranissima’ malattia. Difatti, nonostante i molti tagli scaturiti dalla volontà censoria del narratore, si capisce bene a quali livelli di irresponsabilità morale sia giunto il protagonista, che nel narrare del furto di un libro costosissimo sembra si diverta anche a descrivere le sue avventure erotiche.

Stesso discorso per l’ottavo capitolo (Dulcinea del Toboso VIII - Ulysses : an incredible Bloomsday), in cui la debordante satiriasi di M, nonostante i numerosi tagli censori del narratore, sembra ormai inarrestabile. Dedicato all’Ulisse joyciano, molto apprezzato da M e ampiamente citato e commentato assecondando gli impulsi ‘degeneri’ provati in quei frangenti dal protagonista, il racconto narra di un incontro erotico con una giovanissima donna e si svolge dapprima su una spiaggia del litorale romano per poi finire, dopo i numerosi tagli censori del narratore, sull’inverosimile e rocambolesco furto del libro. Ciò che tuttavia caratterizza il capitolo è l’ostentato sensus carnis (nel testo opposto a carnalis concupiscentiae) di cui M è intriso.

Col nono capitolo (Dulcinea del Toboso IX - Dissolution) ci avviciniamo all’epilogo. Molti nodi vengono al pettine: si fa conoscenza del fratello gemello di M; sappiamo della sua scomparsa; traspare meglio di come M sia consapevole del suo stato mentale; veniamo a conoscenza della sua ostinazione a risolvere il problema che lo affligge.

Con il decimo capitolo (Dulcinea del Toboso X - Epilogue), infine, la vicenda si chiude con due lettere di M inviate al fratello gemello e a se stesso. Avviene qui una ricomposizione del personaggio. Infatti, narratore e protagonista sembrano infine coincidere, lasciando però quel margine di aleatorietà che caratterizza un po’ tutta la composizione del racconto.


martedì 30 giugno 2015

Breve conversazione con Théophile Gautier (21 giugno 2015)


A Franco Irawan Esposito-Soekardi editore,

mio grandissimo amico.



Breve conversazione con Théophile Gautier (21 giugno 2015)



Roma, lunedì 22 giugno 2015



Ho scoperto, con mia grande sorpresa, di avere molti amici: almeno a me così sembra che sia.

Flaubert, Gautier, Balzac; il grande Assiano, Amedeus, Stéphane, Marcel, Fernando! Tutti miei grandissimi amici, nati nel Settecento o nell’Ottocento, con cui parlo e rido di cuore.

L’altra sera, sabato, verso Mezzanotte, ho parlato con Théo.

Tra le altre cose, gli ho anche chiesto di d’Albert: volevo capire come e perché si arriva al grado di concupiscenza a cui io son giunto.

Ha riso di me, e affettuosamente e lentamente m’ha risposto: «sensus carnis vs. carnalis concupiscentiae».

Al ché gli dico, e gli domando subito: «Perché credi che la donna a cui io aspiravo era per carnalis concupiscentiae»?

«Ma va là.. non sai di cosa parli».

Rimango interdetto. Non so più cosa dire.

Al che lui mi fa: «Che cosa volevi di quella donna: l’anima? Che stupido che sei; Dedalus? è lui forse che t’ha insegnato questo?».

«Ma conosco anche Balzac!», rispondo rapido e leggermente alterato.

«Honoré? Non è poi così intelligente come molti ancora dicono. Inoltre, gli è rimasta addosso quella pinguedine che ancora lo rende ridicolo. Lo hai mai visto quando si atteggia a bohémien, con quel bastoncino tutto storto e quel cilindro in testa che sembra più un bidone da pattume che un cappello? E poi emana un odore repellente; e ciò spiega perché non abbia mai avuto alcuna relazione con donne giovani: solo donne, diciamo così, ‘mature’, che poi in fondo son quelle che lo avvicinavano solo per la fama che andava acquisendo: vedi il caso della contessa Évelyne, la Hańska, femmina polacca veramente brutta e anche un poco insolente e vanitosa; un po’ come la Marquise de Listomére da lui descritta.

«In ogni caso, anche se oggi nessuno vorrà riconoscerlo, era un ipocrita degno rappresentante della più bieca borghesia parigina, perché dopo il clamoroso successo che ebbi con la Maupin faceva di tutto per oscurarmi o mettermi in ombra; e senza che io me ne preoccupassi minimamente!

E questo è quanto mi dissero poi alcuni miei amici durante quei martedì a casa di Stéphane, che lui, Honoré, al contrario di me, da morto non volle mai frequentare.

Il mio caro Gerard[1] mi disse, infatti, che lo vedeva spesso alla redazione del “Chronique”, da lui da poco acquistato, mentre, con tono agitato, parlava a Jules e a Victor[2] di me. Voleva a tutti i costi ch’essi non pubblicassero alcun articolo su quanto in quel periodo avevo scritto[3].

Difatti, già prima, m’aveva costretto ad abbandonare il “Chronique” per “La Presse” per non avermi in redazione, nonostante avessi fatto di tutto per procurargli fama con i miei mirabolanti portraits su di lui.

Ma io non me ne preoccupavo: sapevo, infatti, ch’era sempre a caccia di soldi, che poi si faceva fregare come un demente, e se c’era qualcuno che potesse oscurarlo a livello editoriale quello, per lui, ero solo io; e questo mi bastava, perché la cosa mi faceva ridere.

Povero idiota!

Charles[4] stesso aveva una cattivissima opinione di lui. Prima di morire mi confessò, infatti, di aver strappato con disgusto l’Eugénie, perché più che un romanzo storico, e come tale all’epoca di sicuro impatto editoriale, gli sembrava la cronaca di come lui non fosse riuscito a far soldi.

Chiacchiere a parte, per la tua concupiscenza, t’auguro di superarla: succede a tutti. Parlane, piuttosto, con Stéphane: ne sa più di me. Al prossimo sabato».




[1] De Nerval, suo amico di collegio.
[2] Sandeau (Le « petit Jules », all’epoca disperato per la bellissima George Sand, che finì per essere ammesso à l'Académie française quando le « titan Honoré » non lo fu mai) e Hugo.
[3] ‘La morta innamorata’, già pubblicata sul “Chronique”. «Infatti, che la mia Maupin facesse arricchire Renduel e rendeva ‘famoso’ me, lo faceva impazzire d’invidia», così aggiunse Théo.
[4] Baudelaire.

mercoledì 17 giugno 2015

2018. A True Story of Schizophrenia




Mental Health - True Stories Series.             





2018. A True Story of  Schizophrenia





Index:                         Part I (Igitur, ou la folie d’Elbehnon)



Dulcinea del Toboso I (Don Chisciotte de la Mancha)

Dulcinea del Toboso II (L'azur ! l'azur ! l'azur ! l'azur !)

Dulcinea del Toboso III (Una sola moltitudine)

Dulcinea del Toboso IV (Faust II : Den Mutter !)

Dulcinea del Toboso V (Magnes sive De Arte Magnetica)



Part II (Marcel, invisible, re-monte un escalier)



Dulcinea del Toboso VI (The Faerie Queene)

Dulcinea del Toboso VII (The Creative Act : Marcel Duchamp)

Dulcinea del Toboso VIII (Ulysses : An Incredible Bloomsday)

Dulcinea del Toboso IX (Dissolution)

Dulcinea del Toboso X (Epilogue)









avvertenza: La storia qui narrata è un’avventura mentale.

È disposta su più piani, ognuno dei quali può essere indagato e percorso anche grazie alle indicazioni bibliografiche e alle note a piè pagina. Ovviamente in ciascuno di questi piani[1] vi si incrociano e intrecciano anche parti degli altri[2]; il che vuol dire che l’interpretazione spesso rimane aperta a qualsiasi significato, che dipende dall’osservatore-lettore: c'est la loi de l’hasard, quella mirabilmente espressa da Marcel Duchamp.

Il testo, infatti, è costellato di interrogativi e di momenti di sospensione, a cui a volte non può darsi una spiegazione se non risalendo alle fonti che il testo stesso fornisce. Rimane comunque un testo volutamente ‘non finito’ affinché possa dar luogo alle interpretazioni le più disparate.







interests:

James Joyce, Mental Health, Schizophrenia, Johann Wolfgang von Goethe, Georges Bataille, Fernando Pessoa, Stéphane Mallarmé, Philosophy of Love, Edmund Spenser, Marcel Duchamp, Don Chisciotte, Sociology of Emotions, Sacred Space, Inframince, James Joyce's Ulysses, Athanasius Kircher, Wolfgang Amadeus Mozart, Sociology of Love, Miguel De Cervantes Saavedra, The Faerie Queene, Art and Mental Sciences, Bloomsday, Il Grande Vetro, Quarta Dimensione, Dulcinea Del Toboso, Igitur, ou la folie d’Elbehnon, The Creative Act and Mozart en ré mineur.










part i



(Igitur, ou la folie d’Elbehnon)
Dulcinea del Toboso I

(Don Chisciotte de la Mancha)



¿Aldonza? ¿quién eres tú? ¿tiene usted lo que estoy buscando? no lo creo..

Me voy a morir de amor.. me voy a morir de amor por Dulcinea ;

Pero tù no es Dulcinea.. por lo tanto, me voy a morir.. también sin amor..

(M, Ober 2th, 2017)



E così cominciarono a far fuoco di tutti i suoi libri, ormai considerati, tra le persone che lo conoscevano, quale unica fonte e ragione della sua ‘straordinaria’ follia.

Dopo un breve sopralluogo nei posti ove maggiormente si trovavano quelli d’uso quotidiano (in cucina, sulla scrivania dello studio, sul comodino nella stanza da letto e, un po’ dappertutto, anche in bagno), Fabrizio, d’accordo con la moglie di M, decise che quei libri sarebbero stati tra i primi ad essere inceneriti.

Così, raccolti alla rinfusa tutti quelli che si trovavano in quel momento nella stanza da letto, il primo libro a essere immolato fu l’Anti-Edipo che, abbondantemente sottolineato, conteneva ancora tra le pagine alcuni post-it pieni di appunti. Quel che Fabrizio provò a leggere in quel libro, senza però capirvi nulla, riguardava alcune note sul concetto di ‘macchina desiderante’, con moltissimi rimandi al Grand Verre di Marcel Duchamp e, anche se in misura minore, al Faust (il secondo Faust, come specificato), a un’opera, credo sconosciuta perché incompiuta, intitolata Igitur, ou la folie d’Elbehnon di Stéphane Mallarmé e, strano a dirsi, al Don Giovanni di Mozart.

Il titolo del libro, però, insieme a quelle insistenti e maniacali sottolineature sotto la frase ‘macchina desiderante’, già bastavano a Fabrizio per considerarlo un libro degno del fuoco, perché anch’esso doveva certamente aver contribuito alla ‘strana’ follia del suo stimato amico.

Fabrizio, d’altronde, un medico pediatra da tanti anni amico di M, con cui gli piaceva andare in giro per Roma per mostre e convegni d’arte, voleva solo onorare al meglio l’incombente incarico che in quel momento la moglie di M gli aveva pregato di prendersi, ossia quello di fare una prima cernita dei libri da incenerire secondo quanto richiesto dall’ospedale psichiatrico dove M era in cura.

La moglie di M, in effetti, aveva da poco ricevuto un promemoria dell’ospedale psichiatrico Villa Divino Amore (l’ex San Valentino, sulla Cassia giustinianense), che riguardava sia le modalità che la durata del ricovero del marito.

Difatti, subito sotto le indicazioni sull’igiene e sulle necessità materiali del paziente, una marcata cancellatura a penna, sovrastata da una nota scritta a mano a caratteri cubitali, destò stupore e vivo sconcerto tra i suoi familiari perché, se ad altri pazienti era consentito l’uso di libri, riviste e tutto l’occorrente per scrivere, per M erano tassativamente vietate non solo la lettura e la scrittura, ma anche l’ascolto di musica. Sempre a penna, inoltre, v’era stato aggiunto l’inquietante appunto:



«L’opportunità del caso richiederebbe anche la distruzione, o la scomparsa, di tutti i libri del paziente prima del suo rientro in famiglia».



Nel leggere questa brutale nota, i figli piansero, pensando che il padre fosse realmente in un grave stato di salute psichica. La moglie di M, su questo, per il momento non volle commentare, per non aggravare lo sconforto dei ragazzi; ma come riuscì a star sola e a chiamare l’ospedale, piangendo sommessamente chiese all’operatore di turno: «Ma come! Nessun libro da leggere? E nessuna possibilità di scrivere qualcosa? Ma vi rendete conto cosa chiedete? Riuscite a capire cosa significa tutto questo per mio marito? Mi scusi tanto.. ma sa perché glielo dico? Perché quel che ora volete negargli è la sua vita.. e non credo che senza leggere o scrivere sia in grado di resistere».

Dall’altra parte del telefono, intanto, l’operatore, che avrebbe voluto metterla in contatto con il dt. Mentòre, il medico psichiatra che teneva in cura M, non riusciva a spiegarle che, forse, qualcosa era possibile concedere al marito. Ma tante le lacrime e i singhiozzi che in quel momento la signora non riusciva a tenere a freno, non permisero a quello di finire la frase, perché, ormai in preda ad un pianto irrefrenabile, la povera donna subito dopo chiudeva la telefonata.

Dopo l’Anti-Edipo, quindi, ad ardere nel fuoco fu il Don Chisciotte, ma solo il primo tomo, in una vecchia ma discreta edizione della collana Grandi Libri Garzanti. Anch’esso, infatti, era abbondantemente sottolineato, soprattutto nei punti che riguardavano i modi di dire un po’ antiquati cervantini (che spesso ritroveremo in seguito anche negli scritti di M, come, ad esempio, la frase ‘se così sembra che sia’) e nelle stupefacenti circonlocuzioni riferite alla meravigliosa Dulcinea del Toboso, superlativa creazione mentale dello strambo e immaginifico cavaliere errante, il cui nome però si ritrova spesso accompagnato dall’incomprensibile sequenza di lettere maiuscole, scritta tra parentesi e a matita, con tratto leggero e quasi invisibile: ‘ddt’.

La scelta di Fabrizio di dare alle fiamme anche il Chisciotte, all’apparenza un libro innocuo per la salute mentale di chiunque e quindi anche di M, fu dunque determinata dal fatto che questo libro, come molti altri, era ‘troppo sottolineato’, e quindi, come tale, in qualche modo ‘studiato’ e dunque probabilmente anch’esso all’origine dello stato mentale in cui si trovava il suo amico.

Il criterio di scelta che il medico pediatra s’era dato era pertanto, seguendo alla lettera le indicazioni dell’ospedale, quello di far sparire tutti quei libri che potevano aver causato la ‘strana’ follia dello ‘strano’ paziente ivi ricoverato e, con incredibile e superficiale sillogismo, anche il Chisciotte era, per il ‘medico’ Fabrizio, all’origine dell’inspiegabile spersonalizzazione che ora affliggeva M.

Il camino, intanto, si andava riempiendo di altri libri.

Tra quelli più a portata di mano, e dunque subito pronti per essere inceneriti, ve n’erano alcuni ancora nuovi e appena sfogliati, come Un Karma pesante della Bignardi, forse un regalo, segnato da una lunga diagonale a penna nera sul frontespizio, un Meridiani, praticamente intonso, con tutte le opere di Hemingway e una nuova edizione Adelphi del Siddharta, con alcune pagine costellate solo di punti interrogativi e due brevi diagonali sul titolo nel frontespizio; altri libri, invece, assai lisi dall’uso frequente e riccamente annotati ai margini, sembravano testimoniare l’ossessione maniacale con cui erano stati letti. Tra questi ultimi v’erano anche alcuni vecchissimi manuali di liceo, come la Storia moderna del Villari e il terzo volume dell’Adorno Gregory Verra, probabilmente usati recentemente da M solo per consultarne alcune pagine. Su quest’ultimo, d’altronde, v’era un post-it quasi nuovo, incollato tra le pagine su Heidegger[3], che riportava ancora una volta alcuni passi del Faust (o meglio, dell’Ur-Faust) relativi questi alla Notte di Valpurga, e specificamente la frase, scritta in rosso e sottolineata due volte:



Mirala bene! Ell’è Lilith



accompagnata, subito sotto, da quest’altra nota scritta a matita:



Sta in guardia dai suoi bei capelli,

Da quello splendore che solo la veste.

Fai che abbia avvinto un giovane con quelli,

E ce ne vuole prima che lo lasci.



Fu così che tra i libri che sembravano essere d’uso quotidiano, e quindi pronti ora per essere immolati nel fuoco, uno in particolare destò l’attenzione di Fabrizio, sia per l’importanza del libro sia per l’abbondanza di post-it e di annotazioni e postille all’interno.

In quel preciso istante, in effetti, sarebbe dovuta essere la volta del secondo Faust, che il medico pediatra, avendolo ora tra le mani, andava ghiottamente sfogliando soffermandosi sulle numerose postille a margine, tutte scritte in minuto stampatello, con rimandi alla musica di Mozart, al Don Giovanni soprattutto, all’Igitur di Mallarmé, al De rerum natura e, strano a dirsi, al Grande Vetro di Marcel Duchamp, a tal punto che, sfogliando il libro, Fabrizio non riusciva più a smettere di leggere.

Un passo particolarmente annotato e ricco di glosse sulla musica di Mozart, era quello riguardante l’episodio della nascita di Euforione, il cosiddetto Arcadia (o Bosco ombroso), dove Faust, in mistiche nozze con l’Elena paridéa, nome accompagnato spesso dalla sigla ‘ddt’, nel breve giro di trecento versi vede nascere, volare e morire questo suo figlio: ‘un’idea’, era riportato a margine.

Un rimando bibliografico a un certo Magnani, Goethe, Beethoven e il demonico, era accompagnato dalla nota, con sottolineatura doppia: ‘cfr. viaggio alle madri, faust ii, v. 6265, e igitur’.

Nel libro, poi, Fabrizio rinvenne un altro post-it con su scritto questa nota incomprensibile e all’apparenza completamente slegata dal contesto faustiano:



La vita? L’amore.. la sofferenza ch’esso procura, la noia e il fastidio di dover pensare ad altro, il senso e la voglia di non-essere più o trasformarsi in qualcos’altro che lieviti e non trattenga più il terreno sotto i propri piedi, e così sostenere, coerentemente, che quello sia l’unico speciale oggetto del proprio desiderio che mai sarà sostituito con altri perché a quello ci si vota per sempre, fino a che, riappacificatisi col mondo attraverso la morte, si ri-torna a possederlo, re-immergendosi e ri-confondendosi in lui attraverso la materia informe.



In basso a destra la nota ‘cfr. bataille, l’informe’ chiudeva il post-it.

Senza farsi accorgere dalla moglie di M, Fabrizio, in un evidente ‘raptus di follia’, volle così nascondere il libro nella sua borsa da medico, e dunque risparmiare il volume goethiano (così alacremente postillato) dal potere distruttivo e violento delle fiamme.

Fu poi la volta di Fernando Pessoa, del grandissimo Fernando, o meglio, dei grandi eteronimi di Fernando Pessoa [letto con passione, l’ho conosciuto ed amato anch’io - ndr]. Una sola moltitudine, in due volumi, prese ben presto fuoco insieme ai numerosi post-it all’interno. Probabilmente questi due libri potevano effettivamente ricondurre all’origine della ‘strana’ follia di M, perché, dopo aver letto, barrata con tre verticali ai margini laterali, la frase:



Sono un istero-nevrastenico, ma fortunatamente la mia nevropsicosi è molto debole. La mia isteria è solo interiore, è solo mia; nella mia vita con me stesso ho quell’instabilità di sentimenti e di sensazioni, quell’oscillazione di emotività e di volontà che caratterizzano la nevrosi proteiforme



alla pagina centodiciassette del primo volume dove inizia la Lettera a due psichiatri francesi, il medico pediatra, in un irreprensibile e per lui consono scatto d’ira, letteralmente li scaraventa nel camino, compiacendosi anche per la sua integerrima fedeltà alle istruzioni impartite dal dt. Mentòre, direttore e insieme ‘guida morale’ dell’ospedale psichiatrico in cui M era ricoverato: far fuoco di tutti i libri di M, indubitabilmente all’origine della sua stranissima malattia.

Così, nel prosieguo, canettianamente presero fuoco nell’ordine: La commedia della vanità, un grosso Penguin dal titolo The Faerie Queene, à Rebours, il Dizionario filosofico di Voltaire, l’Apologia della storia, un vecchissimo Pbe tutto sottolineato e postillato, Sexual Personae, molto appuntato soprattutto laddove tratta del Don Juan di lord Byron, Eclisse della ragione, Dialettica dell’Illuminismo, Eros e civiltà, di cui Fabrizio lesse di quest’ultimo solo l’etichetta nel retro, ‘maraldi roma - lire ottomila’, L’uomo senza qualità in due volumi, leggiucchiati un po’ dal medico ma, lette alcune postille all’interno, subito gettati nel fuoco, quattro Pbe di Roland Barthes (La grana della voce, L’ovvio e l’ottuso, Il grado zero della scrittura, I frammenti di un discorso amoroso) completamente passati inosservati, un Tutti i racconti di Lovecraft, il quarto volume in Oscar Mondadori con ricche sottolineature all’interno, i due volumi dell’Ulisse e il Finnegans wake joyciani, immediatamente immolati nel fuoco perché il primo era pieno di postille e di vecchi post-it gialli tra le pagine usurate, motivo già di per sé sufficiente per essere distrutto, mentre il secondo - e questa fu l’osservazione che fece Fabrizio ricordandosi di come il libro inizi in minuscolo e finisca senza punto, cioè un ‘fluidofiume’, come già gli aveva fatto notare M indicandogli la natura vichiana dello scritto - perché, facendolo boriosamente notare alla moglie di M, era un libro ‘assurdo’, cioè una semplice ma contorta trascrizione onomatopeica della realtà. Un libro, dunque, fatto di ‘rumori’, come già gli aveva fatto notare M, e dunque ‘folle’ per Fabrizio, come ad M, d’altronde, appariva, ma solo un po’, l’ultimo Joyce, quello dei Finnegans appunto, superficialmente definito sui generis su Wikipedia, l’utile enciclopedia telematica a volte soggetta ai giudizi incompleti di alcuni critici improvvisati.

Una nota a matita sulla seconda di copertina incuriosisce infine Fabrizio, che rapidamente legge: ‘le veglie di finnegan, ovvero l’uomo come storia di tante e diverse identità - cfr. anche anti-edipo cap. ii’.

Ma letta, sempre in seconda di copertina, un’altra vecchia nota a matita agganciata all’Ulisse: ‘ineluttabile modalità del visibile: almeno questo se non altro, il pensiero attraverso i miei occhi - ulisse iii’, anche il sui generis Finnegans wake va.





[1] Reale, mentale, artistico, fisico, erotico, psichiatrico, letterario, scientifico, filosofico etc.

[2] Si pensi, ad esempio, ad alcuni quadri di Escher, dove più piani prospettici intersecanti rendono la comprensione spaziale univoca praticamente impossibile, perché continuamente contraddetta da prospettive sovrapposte.


[3] In cui si trova, a mo’ di epigrafe, la frase scritta in rosso: «La grandezza dell'uomo si misura in base a quel che cerca e all'insistenza con cui egli resta alla ricerca».



Dulcinea del Toboso II
(L’Azur! l’azur! l’azur! l’azur!)

Le fiamme del camino, intanto, cominciano a divampare e rapidamente a prender forma mentre Fabrizio, in attesa che quei primi Ventinove sacrificati all’insaziabilità distruttiva del fuoco brucino completamente, con un leggero ghigno tra il sadico e il sarcastico disegnato sulle labbra e una cert’aria da sottile intenditore, corroborata anche dalla sua integerrima decisione di volersi attenere alle istruzioni che il dt. Mentòre ha dato - e quindi di ‘aver dovuto’ proprio lui, un medico, dar fuoco a quei libri - dopo essersi guardato un po’ intorno con fare subdolo e un po’ ambiguo, comincia a sbirciare tra i libri che ancora lo circondano.
Esperto di cultura bellica e storia militare, amante di racconti sulle grandi battaglie del passato e autentico entusiasta e ammiratore del dettagliato Storia della guerra 1870-71 scritto dal geniale feldmaresciallo prussiano Helmuth von Moltke, sapeva perfettamente che non avrebbe mai trovato tra i libri di M qualcosa che potesse soddisfare a pieno i suoi gusti. Però, appassionato anche di letteratura, aveva una certa sensibilità d’animo e non disdegnava di interessarsi a ciò che M amava leggere né, tantomeno, di cercare di capire perché il suo stimato amico si fosse ridotto in quello stato di prostrazione fisica e che cosa, di preciso, potesse essere all’origine di quella sua ‘stranissima’ malattia. 
Tra i libri ancora superstiti, dunque, già pronti e accatastati dai figli di M su cinque pile da trenta e in attesa d’essere sacrificati alle fiamme - alcuni molto ordinari, o all’apparenza di poca rilevanza riguardo la malattia dell’amico - Fabrizio va ora in cerca della prova madre, ossia la causa prima del delirio fantastico e folle in cui M sembra essere sprofondato.
Sulla prima pila, l’ex seconda pila ora la più vicina al camino e dunque prossima a prender fuoco, tra i libri più in alto e più a portata di mano, guardando attentamente Fabrizio scorge e distingue un voluminoso e graficamente brutto Le grandi opere liriche di Mozart, un’orrenda edizione dell’ottantacinque dei Fratelli Palumbo (con quelle loro melense copertine plastificate color rosso fuoco) che difficilmente avrebbe potuto attrarre anche minimamente un amante di libri. In tal guisa, d’altronde, andava ora reputandosi il probo medico pediatra. 
Tra le sue mani, però, Fabrizio s’accorge subito che il libro consta di un’introduzione (molto annotata e sottolineata da M) del sottile e raffinato Goffredo Petrassi e che molti post-it, sottolineature e rimandi bibliografici si trovano laddove nel libro si tratta del Don Giovanni. Difatti, i terzetti di basso in re minore, vera prodigiosa ‘invenzione’ vocale mozartiana - così in una nota a matita - riportano ai margini tantissimi cfr. al solito Igitur di Mallarmé, al secondo Faust goethiano e al Nu descendant un escalier di Marcel Duchamp.
Sempre qui, tuttavia, e precisamente tra le pagine della scena XVII del cupo e sinistro Finale, in un grande post-it quasi nuovo Fabrizio è quasi costretto a leggere questa sconcertante postilla:

«Don Giovanni, a cenar teco / m’invitasti, e son venuto».
Oh, che magnifico annuncio! Che splendida affermazione di sé riesce a declamare l’incomparabile e incantevole Commendatore, con quelle evoluzioni vocali e quegli strabilianti salti d’ottava che segnano l’ingresso dell’inaspettato, dell’inconoscibile, che se al tremebondo Leporello fan calar le braghe all’empio libertino, anche se dapprima, al cimitero, facevan morir dal ridere, ora si pongono soprattutto come interessante ed emozionante dilemma!
Ma quel mondo luciferino espresso in re minore, dicevo dunque, quel re minore che mirabilmente s’oppone a quello luminoso e chiaro del maggiore, non potrebbe anche essere la tonalità che può accompagnare tutto il gran sogno del mio Igitur per l’assoluto qual’egli è? D’altronde, anch’io ora miro a sprofondarmi.. e probabilmente morire e forse rinascere.

La strana glossa, in effetti - e questo è ciò che appare anche nelle più caute riflessioni di Fabrizio - denota e manifesta quel turpe desiderio di morte cui ora sembra aneli anche M, un desiderio di morte, per giunta, vissuto come inconcepibile realizzazione di sé. Fabrizio, infatti, in quel momento, sbottando, sconcertato esclama: «Incredibile.. Un uomo di stile.. e di finissima intelligenza che vuol lasciarsi morire.. è impazzito.. M è completamente impazzito. Ma ci sarà un motivo.. Sì, c’è sicuramente un motivo..», conclude mestamente fra sé il poco intrepido medico pediatra amico fraterno di M.
Così, selezionato con un po’ d’acredine e secondo i suoi immaginifici criteri il Mozart, e dunque rendendolo primo della nuova pila da incenerire, tre vecchi testi della Nuova Universale Einaudi (un Minima moralia, un Angelus novus e un vecchissimo Canzoniere edizione sessantaquattro con un’introduzione dell’illustre Contini), afferrati insieme e senza far caso, sono ora blandamente nelle mani del medico pediatra, che sfoglia il primo con poco interesse; guarda l’angelo sulla copertina del secondo, che ovviamente sembra non conoscere affatto e lo scarta immediatamente dopo aver letto una nota per lui incomprensibile; si ferma a contemplare vagamente il terzo, che lo incuriosisce leggermente più per la vetustà del libro che per le quasi inesistenti tracce mnemoniche ivi incise da M.
Così, sovrapposti i tre NUE al Mozart, «Roba comunque da incenerire», fu il superficiale commento finale di Fabrizio, a seguire, e con sempre maggior noncuranza, il medico pediatra agguanta un blocco di quattro Newton Compton, ossia quattro volumi di quegli stravaganti Paperbacks freudiani che, molto in voga negli anni Settanta tra i giovani più squattrinati, appena acquistati facevano ben ridere quando ci si accorgeva che aprendoli venivano subito sfaldandosi in modo ridicolo tra le mani.
Non molto usati o letti da M, per la verità, e quasi sicuramente in uso al figlio maggiore ma pur sempre libri che potevano destare un certo prevedibile sospetto, con quei titoli così improbabili che mai il profetico ebreo austriaco avrebbe dato ai suoi scritti (come, ad esempio, Personalità, libertà e amore o Sulla Cocaina), senza grandi riflessioni del medico pediatra vanno subito a sovrapporsi ai tre NUE e al Mozart, e così prossimi anch’essi all’incenerimento.
Ma ecco che, improvvisamente, un bellissimo Guida al Novecento del mitico Salvatore Guglielmino, di cui Fabrizio riconosce con vivo stupore la familiare copertina grigia (in terza edizione ampliata del settantuno, su cui vi aveva studiato anche lui più di quarant’anni prima), è ora tra le mani del medico pediatra: anch’esso è pieno zeppo di appunti e di vecchi post-it all’interno, con molte pagine ricche di meticolose sottolineature e note a margine.
Aperto così il ‘suo’ Guglielmino, e pensando tra sé che questo libro, che con sua somma gioia lo sta trascinando lentamente verso le sue reminiscenze giovanili di imberbe liceale mamianense, mai e poi mai avrebbe potuto essere tra quelli che potevano aver dato origine alla malattia di M, Fabrizio, con accorta lentezza e genuina curiosità, comincia delicatamente a sfogliarlo.
Alle pagine trentasette-trentanove della Sintesi, però, dove in sole tre pagine son trattate la vita e le opere di Stéphane Mallarmé, poco sotto la nota bibliografica finale un post-it quasi nuovo con la scritta in maiuscolo accompagnata da un marcato punto esclamativo: ‘dov’è igitur!’ lo incuriosisce.
A margine, intanto, Fabrizio legge anche la postilla: ‘je suis hanté. l'azur! l'azur! l'azur! l'azur!’, ben nota poesia mallarméana di cui M cita solo il finale ma assente anch’essa dalla seconda sezione (l’Antologia) guglielminense[1]; il che fa porre al medico pediatra alcuni importanti interrogativi, perché sembra che M avesse recentemente dedicato alcuni suoi quadri a queste due opere di Mallarmé completamente ignorate dal Guglielmino.
Igitur, ou la folie d’Elbehnon e Je suis hanté. L'Azur! L'Azur! L'Azur! I'Azur![2] erano infatti i titoli che M aveva dato a due dei suoi ultimi dipinti.
 Tutto questo, inoltre, conoscendo perfettamente i quadri in questione ancora nello studio di M, induce Fabrizio a prenderne nota sulla sua agenda, su cui accuratamente e diligentemente scrive: ‘S. Guglielmino, Guida al Novecento, Il Principato 1971: le opere di Mallarmé, riferite ai quadri Igitur e Je suis hanté, sono completamente assenti’.
Così, riavvicinandosi di nuovo ai libri per sbirciarne i titoli, e forse con la speranza di trovare qualche prova più congrua a giustificazione della malattia di M, a circa metà della seconda pila, o ex terza pila ora proprio vicina al suo fianco, Fabrizio riesce casualmente a scorgere l’altro mitico Guglielmino, ossia l’ineguagliabile e geniale Civiltà letterarie straniere Zanichelli del settantasei, incredibilmente mai più riedito o ristampato dall’importante casa editrice.
Utilissimo per preparare il suo esame di maturità classica, e ora in preda alle rievocazioni del suo brillante percorso scolastico, con accorta delicatezza e ossequio reverenziale Fabrizio lo sfila lentamente dalla pila e, messosi comodo in poltrona, dopo averne sfogliato alcune pagine sull’età romantica, alla numero cento ottantadue s’accorge di un post-it, anch’esso abbastanza recente, con la già letta nota,  di nuovo in maiuscolo e con due punti esclamativi, ‘dov’è igitur!!’.
Ma qui, alla nota già letta nel primo Guglielmino, seguono ora il commento ‘merdre’, scritto a matita con tratto veloce, e un appunto, anch’esso in maiuscolo ma più marcato, ‘solo de nardis’, con una doppia sottolineatura sotto il nome del francesista italiano.
«Ma cos’è Igitur?», si chiede allora, finalmente, anche se ancora con un pizzico d’ingenuità, il probo medico pediatra, che capisce infine che M è a caccia di indicazioni bibliografiche su quell’opera sconosciuta di Stéphane Mallarmé.
«E vorrà pur dir qualcosa quell’avverbio, quel quindi in latino che M ripete continuamente in tutte le sue note; e poi.. con quel commento così volgare.. nel Guglielmino, per giunta».
In preda alla voglia di capire, Fabrizio riprende allora a sbirciare con più attenzione tutti i dorsi dei libri così brutalmente e confusamente accatastati davanti a lui e al camino.
Intanto, d’impulso, comincia a ripensare ai libri già dati alle fiamme. Prova a ripercorrerne i titoli, cercando di ricordare quelli che, d’istinto, ha gettato nel camino senza pensarci troppo, perché in quel momento ritenuti subito come indubitabile causa dell’invalidante stato mentale dell’amico.
Un po’ stanco ma concentrato su ciò che ora ha intenzione di fare, avvicinandosi al tavolo dove ha appoggiato la sua borsa e le sue cose, Fabrizio, sfilandosi con fare riflessivo la sua montblanc dalla giacca ed estraendo un foglio bianco dalla stampante, sedendosi comodo sulla poltroncina lì accanto comincia a scrivere:

- James Joyce, Ulisse,
- James Joyce, Wake..

Immediatamente, però, puntandosi la penna sul mento e sui denti e leccandola un po’, il medico pediatra si ferma e ad alta voce si fa, sforzandosi di ricordare: «Ma quale altro libro di Joyce ho dato alle fiamme? Eppure.. l’ho avuto in mano fino a qualche minuto fa.. e M me ne ha parlato un sacco di volte..», commenta fra sé, sconcertato per la sua debole memoria, ma alzando un po’ più la voce per farsi forza e concentrarsi meglio.
Di scatto, allora, il probo medico pediatra si dirige verso il camino, cercando forse qualche indizio che possa aiutarlo a ricordare; ma le fiamme, ancora molto alte perché ben alimentate, lo costringono ben presto a indietreggiare.
«Merdra! Non si leggono più neanche i titoli! Eppure..», tentenna ancora un po’ il medico pediatra, ora con la fronte leggermente imperlata di sudore.
«Finnegans!», esclama all’improvviso Fabrizio, teneramente entusiasta e ora leggermente rincuorato per la sua ancora non troppo flebile memoria.
«Sì, Finnegans!; la veglia di Finnegan! O meglio: le veglie di Finnegan, diceva M», si dice e si ripete felice il medico pediatra.
«Ma andiamo per ordine», prende infine a dirsi Fabrizio alzando ancor più la voce per ascoltarsi meglio e rimettendosi a sedere per riprendere a scrivere sul suo promemoria.
«Ma quanti ce n’ho buttati là dentro?», si chiede ancora ad alta voce il medico pediatra.
«Una ventina, credo: i due Musil, un Voltaire, un Meridiani di Hemingway, Marcuse e Horkheimer, così almeno credo si scriva, un Villari, i due Joyce.. e quattro di quel francese.., Barth.. forse Roth.. No, no.. Ronald Barth, mi sembra».
Pensoso e un po’ inquieto, dopo aver scritto e riletto i primi titoli grossolanamente trascritti, Fabrizio decide di avvicinarsi di nuovo al camino, con la speranza di poter leggere al volo alcuni di quei pochi titoli che ora fa fatica a ricordare.
Sul dorso di un grosso mille pagine Einaudi, intanto, Fabrizio riesce a leggerne alcune lettere dell’autore e del titolo. ‘Paglia Sex’, trascrive così sul suo promemoria, a cui aggiunge il numero quattrocento cinquantasette posto sotto al logo della collana Gli Struzzi, unici caratteri rimasti leggibili di quel libro, a cui però, pensa Fabrizio prendendone nota, si può risalire.
Così, con fare più deciso e animo fermo da esperto medico pediatra, Fabrizio s’avvicina ancor più ai libri barbaramente inceneriti, e, affilando lo sguardo, sulla copertina di un Biblioteca Adelphi riesce a leggere integralmente: ‘Una sola moltitudine. Volume primo’, con parte del nome del curatore ridotto alle sole lettere ‘Antonio Tab’. «Un gran visionario», gli aveva detto M anni prima riferendosi al Tabucchi del Requiem ch’egli aveva appena letto.
Incoraggiato da tali insperati e piacevoli progressi, sbirciando meglio, anche se sulla copertina di un Paperback Einaudi riesce a leggere: ‘Deleuze e Guatt’ a cui però non sa dare troppa importanza, su un Grandi Libri Garzanti giallo gli appare improvvisamente, anche se mutilata, l’allarmante scritta: ‘la Mancha’, da cui deduce subito, impressionandosi non poco, che si tratta del Chisciotte.
«Ma perché ho dato fuoco al don Chisciotte?», con ansia si chiede ora Fabrizio che, sconcertato, non sa darsi una spiegazione plausibile dell’orribile scempio da lui appena compiuto.
«Mentòre?», si chiede mestamente per darsi una giustificazione ma senza riuscire a darsi pace.
«Si, è vero.. era tutto sottolineato.. ma il Chisciotte.. il don Chisciotte! Il Cavaliere dalla Triste Figura! Non credo possa esser stato causa dell’impazzimento di M, che poi, in fondo, un po’ scriteriato lo è sempre stato».
Assorto in questi tristi e ragguardevoli pensieri, all’improvviso, e con fare rabbioso, Fabrizio ad alta voce si fa: «Il portoghese.. quel cazzo di portoghese.. con quella farneticante lettera ai due psichiatri».
Frattanto il fuoco, fedele al compito distruttivo assegnatogli dal medico, ha finalmente cominciato a scemare. Qualche fiammella qua e là, permettono tuttavia di avvicinarsi più da presso al camino. Alcuni libri, infatti, benché tutti smembrati o inceneriti, lasciano ancora intravedere qualche piccola traccia, che consente però di risalire almeno al titolo dell’opera integrale di cui facevano parte.
Ma ecco che inaspettatamente una leggera fiammata dipinta d’azzurro scuote l’attenzione del medico pediatra. Fuoriesce da un libro enorme, ormai tutto bruciacchiato e mezzo incenerito. Però, poco sotto il ritratto offuscato della regina Elisabetta, Fabrizio riesce a leggere perfettamente sulla copertina: The Faerie Queene. Pensa, infine, e non si sa bene come e in base a quale sua immaginifica ‘illuminazione’, che forse un fiore, ancora all’interno di quel libro, può esser stato causa e all’origine di quella bellissima fiammella[3].



[1] Nel Guglielmino, infatti, alle pagine ventidue venticinque di detta Antologia, v’erano riportate solo le più ‘facili’ Brindisi, Brezza marina e Il vergine, il vivace.
[2] Le due opere sono qui riprodotte a fine capitolo, e datano rispettivamente 27 ottobre e 16 giugno di quest’anno. 
[3] Pare che i petali di rosa rossi se messi sul fuoco producano fiammelle azzurrine, mentre i petali bianchi fiammelle più tendenti al verde.






Igitur, ou la folie d’Elbehnon (SM, 1869)

(50 x 70 cm; 27 ottobre 2017)






 Je suis hanté. L'Azur! L'Azur! L'Azur! I'Azur! (SM, 1864)

(80 x 100 cm; 16 giugno 2017)





Dulcinea del Toboso III

(Una sola moltitudine)



Ora, l'essere tuo deve tendere al suo scopo,

mirare a sprofondarsi.

Discendi battendo i piedi,

e poi battendo i piedi rimonta.

(J.W. Goethe, Faust II)



«Ci sarà certo un significato, se lì dentro c’ha messo un fiore».

Così, con mesto candore, ragionò il medico pediatra che, provetto Mabillon ancora memore dei suoi studi di eziologia e patogenesi alla Sapienza, nonché convinto estimatore de Lo studio dei sintomi storici di Rudolf Steiner, il fondatore, tra l’altro, dell’ars medica antroposofica cui lui in parte credeva, in quel momento, in preda ad una sua immaginifica competenza critico-letteraria, scrisse dettagliatamente sul suo promemoria: ‘Edmund Spenser, The Faerie Queene, edizioni Penguin’; forse con l’intenzione, se necessario, di ricomprarlo.

In quel preciso istante però Fabrizio intuisce che per capire, e dunque voler ricercare le cause dello strano morbo che poteva aver colpito M, bisognava seguire un percorso di tipo ‘letterario’, se così posso dire, cioè risalire a quello che probabilmente M aveva letto ultimamente e, dunque, capire meglio quanto recentemente egli aveva scritto, o fatto nota, a margine di quei libri che in quel momento Fabrizio andava esaminando e leggendo.

Ovvio che, finora, il medico pediatra non aveva letto quasi nulla di quanto scritto da M se non le note e le postille scritte a margine di quei libri che Fabrizio stesso fino a quel momento aveva consultato, e ‘attentamente esaminato’, prima di darli alle fiamme. Ma all’improvviso, anche se piuttosto turbato, e come se si fosse di nuovo ‘illuminato’, Fabrizio ad alta voce ancora una volta si fa: «Il portoghese.. quel cazzo di portoghese.. con quella stupida lettera da psicopatico».

Un po’ agitato, il nostro Mabillon torna così ad avvicinarsi di nuovo al camino ormai spento, anche se ancora leggermente fumante, e, con suo grande stupore e meraviglia, smossa un po’ di cenere in superficie riesce infine a estrarre, quasi per intero, uno dei due libri di quel ‘cazzo di portoghese’.

Una sola moltitudine I’, così era scritto sul dorso del volume, all’apparenza in gran parte risparmiato alle fiamme e, fortunatamente, forse ancora leggibile, è ora nelle mani del medico pediatra.

È ancora ben caldo, ma il rischio di lesionarlo ulteriormente convince Fabrizio ad aspettare ad aprirlo. Appoggiato così il Pessoa primo sul davanzale di marmo e guardando di nuovo all’interno del camino per trovare qualcos’altro da annotare, arriva la moglie di M che, chiedendogli come procede l’abbrugio, gli ha portato il caffè.

«Ma tu sai dove tiene i suoi scritti? Le sue carte?», chiede d’istinto Fabrizio alla signora sua amica.

«Questo è quello che M teneva ultimamente nella sua borsa», fa allora la donna avvicinandosi a una vecchia borsa in tela verde ed estraendone una cartellina bianca con su scritto soltanto, in alto a destra e a matita, ‘dulcinea-ddt’.

«Te l’appoggio qui sul tavolo. Dentro c’è anche un ‘fantasmino’ con alcune stampe di M e il referto medico-letterario, almeno così a me sembra, che il dt. Mentòre ha scritto dopo averle lette. Vedi se possono servire, altrimenti.. dagli fuoco», conclude cinicamente la donna, forse rassegnata all’idea che il marito andato fuori di senno sia ormai inguaribile e irrecuperabile.

«C’è anche la lista dei libri che M ha rubato; è nel verbale di denuncia redatto dai Carabinieri. Io ho ancora un sacco di cose da fare e non son riuscita a riconsegnarli. Guarda, son tutti là dentro.. dentro quell’ armadio. Chiamami se ti serve qualcosa. E serviti un po’ di cognac, se ti và».

Allungatosi il caffè con della pregevole grappa seminascosta da un Calvados e custodita in una credenzina un po’ demodé lì vicina al camino, sedendosi comodo sulla confortevole petite bergère di M e riprendendo in mano il Pessoa primo ormai freddo, Fabrizio s’accorge subito che il libro è praticamente illeggibile: le pagine si sfaldano e si sbriciolano con sfrigolii quasi gementi sotto i suoi polpastrelli.

Ma, come d’incanto, all’improvviso dal corpo del libro rapido scivola via un foglio a-quattro ripiegato ancora non del tutto incenerito e non si sa come salvatosi miracolosamente alle fiamme.

In procinto forse di volarsene via o più banalmente cadere a terra, Fabrizio, quasi d’impeto, riesce a trattenerlo e, liberandosi nuovamente dell’ormai inservibile Pessoa, con cautela e un’anomala e incontenibile voglia di leggerlo, si accinge ad aprirlo.

Ovviamente, sono note di M - scritte al computer in garamond dieci - che sembra riguardino una certa Opheline, probabilmente la donna di cui era innamorato Pessoa, il Gran Portoghese, come si deduce dal testo.

Prova a leggerne quelle poche righe rimaste leggibili, che però, in parte, soprattutto nel cappello iniziale, sembrano indirizzate ad una donna.. forse conosciuta da M.

Ed ecco quanto in quel momento il medico pediatra legge:



Incredibile! Anche il geniale Fernando sembra (come me) un demente quando scrive e parla d’amore alla sua donna! Di un ridicolo (poveri, miseri amanti innamorati) che fa impressione: infatti, leggendo quel che scrive, non si sa se ridere o piangere. L’amore dunque rende ridicoli; me ne sono accorto ormai, e soprattutto quando non è corrisposto.

C’è una certa Ophelina (stesso nome della donna amata da Pessoa) che in un blog scrive come Gea e racconta delle stesse cose che recentemente hai fatto tu, amore mio: credere di cambiare tingendosi i capelli.. ridere, scherzare e andare al mare.. e dormire e fare altri sogni. Questo, d’altronde, è quanto tu mi hai voluto scrivere spacciandoti per Gea.

Sembro un matto per quel che scrivo; vero amore mio? Forse sono matto. Da quando sei apparsa nella mia vita.. io sono diventato matto; completamente matto.



dal blog di ophelina:

Siamo i libri che leggiamo, la musica che ascoltiamo e che parla alla nostra anima, le storie che scriviamo e quelle che sordidamente viviamo.

Siamo i nostri sogni, quelli notturni e quelli diurni, con la testa tra le nuvole, popolati da personaggi immaginari e persone del nostro passato, pieni di speranza e tensione verso quello che potrebbe essere e che desideriamo selvaggiamente e generosamente con tutti noi stessi.

D’altronde, si dice spesso che The moment of change is the only poem, il momento del cambiamento è l'unica poesia. Mi rendo conto, infatti, che tutti intorno a me cambiano: c’è chi arriva e c’è chi parte; c’è chi se ne va per non tornare più; c’è chi scrive un romanzo e c’è chi accoglie una nuova vita; c’è chi si mette in gioco o che infine si ritira a riflettere per qualche tempo per dare un nuovo corso alla propria vita.

La gente evolve, cresce, migliora, peggiora ma rivoluziona la sua vita: si trasferisce in una nuova città, in un nuovo paese, in un nuovo continente; taglia i capelli e ne cambia il colore come se niente fosse; s’innamora e smette di amare; cambia casa e cambia partner, fa e disfa, cade e si rialza. Ma io sto ferma, io credo solo nell’amore, forza massima capace di smuovere e di rivoluzionare il mondo.

D’altronde, Is there no way out of the mind, non c’è via d’uscita dalla mente.

E allora, continuando a vivere, far finta che vada tutto bene.. sorridere sempre, truccarsi per nascondere il pallore, sforzarsi di essere brillanti e divertenti, perché a nessuno piacciono le persone crepuscolari.



Per ora rimando il suicidio

e faccio un gruppo di studio:

le masse, la lotta di classe,

i testi gramsciani..

Far finta di essere sani.



Far finta di essere normali pur sentendosi profondamente diversi. E lasciarsi guidare, a lungo, nella notte, guardando fuori, come se la vita fosse un affare che in fondo non ci riguardasse.

Come se si potesse solo andare, andare, andare.. e continuare a sognare.. E rifugiarsi nelle parole, nei versi, nella poesia, nelle storie.

Ed esercitarsi a indurire la propria sensibilità e la propria emotività.

Nessuno, d’altronde, insegna che l'amore non è un'equazione, non conosce logica, non è un sillogismo perfetto: spesso è sbagliato, spesso fa male, spesso è impossibile, spesso è irraggiungibile. È una sorta di malattia, del corpo come dell’anima; una febbre che lacera e consuma.

Ma nella mia visione masochistica, romantico-bovaristica e contorsionistica, non solo l'amore è l'unica mia fonte di ispirazione, ma l’amore infelice lo è ancora di più, perché un amore infelice - perché non corrisposto, perché contrastato, perché reso difficile dalle distanze, dai tempi, dalle tempistiche, dalle aspettative diverse, dall’incomprensione - fa rifugiare nella scrittura.

E le parole fanno innamorare, le parole fanno ammalare.. e le parole fanno guarire: non mi stancherò mai di sostenerlo. Le parole sono causa e rimedio dello stesso male.

8 dicembre 2016.



Quel che scrive questa donna, anche farneticando un po’, è quello che da anni provo anch’io. Però lei riesce almeno a dare un ‘volto’, un significato tangibile a questa sofferenza immane: il mio scrivere, al confronto, è solo semplice balbettio.



Seduto in poltrona davanti al fuoco, ma con in mano ancora il foglio con le dolenti note di Opheline, Fabrizio ora fantastica e si sta convincendo di poter davvero ripercorrere l’itinerario mentale e letterario fatto da M [cosa che, d’altronde, sembra anche a me, considerando le note lette finora dal medico pediatra e quel ch’egli ha scritto sul suo promemoria - ndr].

Intanto, dalla cartellina bianca è scivolato fuori, quasi da sé, l’enigmatico ‘fantasmino’[1] pieno di stampe. Fabrizio ne estrae alcune (le prime due) e ne legge quasi distrattamente i titoli: Viaggio nel paese della quarta dimensione e Il grande vetro ovvero la ‘visione’ poetica di Marcel.

Sfila altre tre stampe, due titolate For Gea (part one) e For Gea (part two), accompagnate dalla scritta a matita in alto a destra ‘spenser’, e una dall’improbabile e immaginifico titolo Athanasius Kircher ovvero il Magnes sive De Arte Magnetica.

Improvvisamente, un rumore sordo alle sue spalle, spaventandolo un po’, lo costringe a voltarsi.

In un bizzarro e strampalato mucchio di libri, o meglio un ammasso librario formatosi a seguito della caduta, l’una sull’altra, di quelle che sono ora la terza e quarta pila proprio dietro di lui, ecco che Fabrizio intravede subito, sorpreso e quasi incantato, la copertina arancione di un libro ‘esuberante’, se così posso dire, con, all’interno, un gran numero di recenti post-it rettangolari accuratamente scritti in chiaro stampatello.

Così, lasciate le stampe del fantasmino sul tavolo, un vecchio Saggi Einaudi, un libro all’apparenza innocuo intitolato Goethe, Beethoven e il demonico del settantasei, è ora tra le mani del medico pediatra che, forse attratto anche dal titolo, comincia con cura e premura a sfogliarlo. Fabrizio, d’altronde, sa bene dell’amore che M ha sempre avuto per la musica e, quindi, pone molta attenzione affinché nessun post-it e nessun foglio d’appunti all’interno possa sfilarsi e per malaccorta noncuranza perdersi.

Ma di tutto il libro, di un certo Magnani e dedicato a Beethoven e ai suoi rapporti con Goethe, Fabrizio s’accorge subito che soltanto il terzo e ultimo capitolo, una ventina di pagine in tutto, intitolato Goethe e Mozart, sembra essergli stato di grande interesse, vista la gran mole di sottolineature, rimandi bibliografici[2], cavillose postille e i numerosi post-it che lo completano.

Un nome femminile, all’inizio del capitolo, appare sottolineato due volte: è il nome della sorella di Wolfgang, citata qui quale fida accompagnatrice clavicembalista e violoncellista del geniale fratello durante la loro seconda trionfale tournée nelle corti di Germania e d’Europa e, il 19 agosto 1763, alla loro ultima esibizione a Francoforte, alla corte dell’illuminato Federico il Grande.

Il fatto è, che al concerto vi assisté anche il quattordicenne Goethe (l’altro giovane Wolfgang), che già allora, come molti altri d’altronde, s’avvide subito, e ne rimase sbalordito, del prodigioso e miracoloso vitalismo che quello ‘stranissimo’ bambino manifestava.

Qualche pagina dopo, però, altre sottolineature, leggermente più marcate e probabilmente legate fra loro, destano presto una certa attenzione indagatrice in Fabrizio.

Ad esempio, frasi come:



per l’intima vitalità e freschezza della sua musica



oppure quella:



nel Don Giovanni, infatti, Goethe aveva avvertito la presenza di un elemento misterioso la cui natura trascendeva il puro fatto artistico e teatrale



e quella, alcune pagine più avanti, che recita:



in cui il particolare come l’insieme apparivano compenetrati da un potente soffio di una vita estranea allo stesso sentire e volere di Mozart, dominato dallo spirito demonico del suo Genio



sembrano legate tra loro da una sottile convergenza, o meglio da un ‘sign of concordance - cfr. Duchamp’, com’era scritto in maiuscolo in una evidentissima nota a penna nera sul margine superiore alla pagina novantanove; frasi su cui il medico, però, notandone la ‘distonica consonanza’, non tarderà a esprimere presto il suo ingeneroso e superficiale giudizio.

Con tatto, tuttavia, e con un’intonazione tra il professorale e il poetico e sgranando leggermente gli occhi dandosi un’aria interrogativa, Fabrizio si rivolge di nuovo a se stesso dicendosi buffamente e con tono leggermente amletico (più alla Polonio, per la verità): «Tutto ciò che s’inoltra verso la follia lo attrae. Sembra sedotto dall’inconoscibile; da ciò che non si può misurare..».



«Ma senti qui.. », si dice ancora il medico cominciando a leggere tra sé una lunga glossa riportata su un post-it rettangolare e riferita al Viaggio alle Madri del Faust che nel testo del Magnani è citato in una nota a piè pagina solo come fonte.

In testa al post-it, infatti, appare a penna e in maiuscolo la scritta: ‘cfr. una galleria oscura’, accompagnata da un’altra, tra parentesi, ma leggermente più grande: ‘cfr. igitur, discesa agl’inferi’. Subito sotto, però, ecco riportata l’enigmatica frase accompagnata dal rimando bibliografico ‘cfr. faust vv.’:



Non importa! Io ho ferma speranza di trovar nel tuo nulla il tutto



che Fabrizio ora quasi scherzosamente declama, seguita da quella:



Il mondo, è vero, fa pagar cara all'uomo la virtù del sentire;

ma gli è quando si è commossi che si arriva a comprendere l'infinito



frasi accompagnate tutte dalla sigla f. vv. seguita dal numero dei versi goethiani corrispondenti.

«E senti quest’altra!», prosegue stupito il medico pediatra leggendo ancora il post-it e declamando ora ad alta voce:



Discendi dunque.. o sali

giacché il dirti l'una cosa o l'altra torna lo stesso[3].

Sfuggi al reale, slanciati nei vuoti spazii dell'ideale,

per godere lo spettacolo di ciò che non esiste più da lungo tempo



Seguitando a leggere, subito dopo la scritta in maiuscolo ‘alle madri’, Fabrizio riprende stupidamente a declamare:



Esse ti circonderanno, ma non ti vedranno,

poiché non veggono che le idee..

Ora, l'essere tuo deve tendere al suo scopo, mirare a sprofondarsi.

Discendi battendo i piedi, e poi battendo i piedi rimonta.



In chiusura di questi ultimi due stranissimi versi si legge infine la postilla a penna nera e in maiuscolo: ‘igitur, ovvero il nu descendant un escalier, e marcel (invisible) re-monte un escalier hanno lo stesso significato’, nota del tutto incomprensibile al medico pediatra[4] che conclude dicendosi, ancora una volta sgranando buffonescamente gli occhi: «È pura follia; M è sprofondato nella follia più totale».

Continuando a leggere per suo conto, Fabrizio, tra sé e sé, ora prova a recitarsi una marcata sottolineatura nel testo del Magnani:



La bellezza gli appare dapprima nella sua emanazione sensibile, in Gretchen, ma dinanzi alla visione di Elena egli avrà la rivelazione della fonte stessa del Bello nella sua purezza; risalirà all’Idea. Un mondo nuovo e più vasto si schiude al suo animo



e sopra il nome di Elena è riportata di nuovo la sequenza di lettere maiuscole ‘ddt’, scritta a matita leggera e tra parentesi.

Incuriosito però dalle tante citazioni del Faust su quel libro di musica, il nostro provetto Mabillon si accinge ora a verificare, nel testo originale che sta estraendo dalla sua borsa, quanto letto nel Saggi einaudiano.



Ecco cosa vuol dir prendersi pensiero d'un pazzo!

Vi trovereste in guai, quand'anche foste il diavolo!



La sottolineata chiusa mefistofelica del primo atto del secondo Faust viene letta per caso, e senza volerlo, dal medico pediatra amico di M che, in quel momento, aprendo a caso una pagina e vedendo quei due versi vigorosamente sottolineati, senza pensarci ad alta voce li legge.

In realtà Fabrizio voleva solo verificare, nell’unico libro che finora gli era riuscito di salvare alle fiamme, se ci fosse stata effettiva corrispondenza tra i versi riportati da M sul Magnani sotto la sigla ‘cfr. faust vv.’ e i versi corrispondenti del testo originale goethiano, ora comodamente tra le sue mani.




[1] Così la moglie di M aveva chiamato una busta trasparente per raccoglitori piena di fogli e fascicoli spillati formato a-quattro stampati fronte-retro.
[2] Di cui molti all’imprescindibile Giovanni Macchia, Vita, avventure e morte di don Giovanni, e tanti altri all’insuperabile Massimo Mila, Il don Giovanni di Mozart, soprattutto riguardo il significato delle tonalità in Mozart (del re minore in primis) che l’illustre Hermann Abert, come si legge in una nota, aveva tentato ingenuamente di ridurne l’importanza col suo ‘tiepido’ Mozart in due volumi.
[3] Tra parentesi, accanto alla nota: ‘nu descendant un escalier (ou la folie d’elbehnon) / marcel (invisible) re-monte un escalier, appare l’incomprensibile commento: ‘scendere o salire: tanto per me fa lo stesso’.
[4] Marcel (invisible) re-monte un escalier è il titolo dell’ultimo quadro non finito di M, che qui viene riprodotto a fine capitolo.





Marcel (invisible) re-monte un escalier (M)

(100 x 120 cm; 2 novembre 2016 - non finito)










Dulcinea del Toboso IV

(Faust II: Den Mutter!)



dopo i primi ventinove..

discesa agl’inferi



C’era perfetta corrispondenza; come d’altronde il medico pediatra aveva già sensatamente previsto.

Ma il libro che però lo stupì in maggior grado fu senza dubbio Stéphane Mallarmé. Tutte le poesie e prose scelte, un vecchio testo del sessantasei egregiamente curato dal francesista Luigi de Nardis per quei tipi Guanda che all’epoca lasciavano ampi spazi ai margini delle pagine, e quindi un libro ideale per le possibili riflessioni e annotazioni di un eventuale lettore particolarmente interessato.

Raccolto anch’esso, come il Magnani, tra quei libri che s’erano venuti confusamente accatastando in seguito all’inspiegabile e rovinosa caduta della quarta e quinta pila - e probabilmente con quello unito o collegato dagli interessi che M in quel periodo andava maturando - subito Fabrizio s’accorge che, come l’altro, anche questo libro è pieno zeppo di appunti, ricche note e recenti post-it incollati all’interno, ma con un foglio a-quattro accuratamente ripiegato e inserito tra l’ultima pagina e la terza di copertina, con l’allarmante e inquietante avvertenza, scritta in grande, a matita e in maiuscolo: ‘attenzione: veleno!’.

Rimessosi in poltrona, e osservando ora l’originale brossura rigida in tela turchina molto lisa e tutta sfilacciata ai bordi, sfogliando il libro Fabrizio nota subito che la maggior parte delle glosse scritte a margine e le postille dei post-it all’interno sono soprattutto concentrate sull’incomprensibile Igitur, ou la folie d’Elbehnon, un’opera incompiuta di Stéphane Mallarmé già incontrata, d’altronde, nelle note trascritte a profusione sul Magnani e sugli altri libri consultati e da lui dati grossolanamente alle fiamme. Sembra tuttavia che, ispirandosi a quest’eccentrico testo pseudo-teatrale, M deve averne realizzato un quadro, ancora nel suo studio, dedicandolo, pare, a Marcel Duchamp, il più visceralmente amato e studiato, il suo ideale d’artista tra quelli da lui conosciuti.

Ma ecco che, schiudendo quel curioso foglio ripiegato a-quattro, con quell’allucinante avvertenza e stampato fronte-retro in garamond dieci, Fabrizio scorge questa lunga e incredibile postilla che ora provo a trascrivere integralmente - includendo anche le note a matita scritte ai margini del foglio - tanto è il grado di introiezione e di inusitata ‘stravaganza’ che ne emerge.

La postilla, che riportava in alto sul margine destro le note a scaletta scritte a mano ‘igitur: confronta mia traduzione con quella del de nardis’, ‘amplesso con la madre’ e ‘ricerca di lilith’, suonava dunque così:



Discendendo sempre più in fondo le scale verso gl’inferi[1]



étant donnés :  Igitur, ou la folie d’Elbehnon (SM) et Den Müttern ! (JWG) trovare la relazione ‘geometrica’ tra i miei ultimi quadri Igitur, ou la folie d’Elbehnon e Den Müttern ! [2] con il Nu descendant un escalier, ultimo quadro di Marcel Duchamp. Musique en ré mineur : Hell, Fire and Damnation by Jocelyn Pook (Solo per l’ultima scena, quando la lettura dovrà avanzare sincronizzandosi sui settanta bpm di metronomo).



«Avvicinatevi ancora, ondeggianti figure

apparse in gioventù al mio sguardo offuscato.

Proverò questa volta a non farvi svanire?

Ho ancora il mio cuore incline a quegli errori?

Voi m'incalzate! E sia, vi lascerò salire

accanto a me dal velo di nebbia e di vapori»

(J.W. Goethe, Faust, vv. 1-6)



Ce Conte s’adresse à l’Intelligence du lecteur qui met les choses en scène, elle-même



Marcel-Igitur, sprofondando ora in sé e toccando il margine estremo di se stesso e della sua interiorità, appare, come d’incanto, ad alcune per lui ancora confuse e indefinibili figure che però, riconoscendolo, venendogli incontro e gradualmente prendendo forma tra le vaporosità di una fievole bruma, sembra vogliano prontamente manifestarsi e farsi riconoscere.
Intravede e riconosce dapprima la madre che, in preda a forte eccitazione emotiva e con le lacrime agli occhi, ha rapidamente preso forma e consistenza. Avvicinandosi a lui, vorrebbe subito parlargli. Non ancora in grado di proferir parola, riesce tuttavia a toccarlo e ad accarezzargli delicatamente il viso. Come impaurita, però, lesta si allontana da lui, nascondendo i propri occhi e il viso tra i suoi morbidi e fluenti capelli.
Ma lì da presso, ecco che M riesce a distinguere anche la Lilith [quella del Faust] che, a breve distanza e prendendo più chiaramente forma, con risoluta vivacità gli sorride e, come a suggerirgli la possibilità di un’intesa profonda con lui, sgrana i suoi incredibili occhi guardandolo intensamente.
S’accorge, infine, intuisce e riconosce una superba e compiaciuta madame Morte che, interposta a pari distanza tra le due donne che l’hanno preceduta e prendendo molto lentamente forma, lo saluta con un cenno assai breve, ma dall’espressione molto eloquente.
La madre, che sin da subito ha preso consistenza, esprime ora l’incantevole aspetto di una seducente donna di sessant’anni e tra le evanescenze di una luce lunare, ella, avanzando verso di lui, gli appare man mano sempre più bella, dalle forme fisiche sublimi e di una carnalità travolgente. Capelli corvini lunghi e lisci, la donna ha inoltre dei grandissimi occhi verdi e un sorriso molto rassicurante che, nel contempo, la rende ai suoi occhi eroticamente superlativa.
La più giovane Lilith, invece, ha capelli ad ampie volute di un biondo grigio-chiaro, occhi azzurrissimi e intensi e labbra leggermente pronunciate ma di una sensualità che subito lo agita e inquieta. Ha comunque un corpo magro e snello, anche se il suo seno erompe alla vista per enorme e straordinaria bellezza.
Madame Morte, che finalmente, sebbene a fatica, è riuscita a prender forma, ha lunghissimi capelli bianchi che, oltre ad avvolgerle i seni, giungono a ricoprirle finanche il sesso. Anch’essa a braccia scoperte, ha comunque una carnagione candida e più che gradevole. Fa spesso sfoggio della sua mobilissima lingua e, giocando con la saliva tra le labbra facendone delicate bollicine, esprime una sensualità cruda e dirompente.
Anche madame Morte, come la madre, ha un seno rigoglioso e, sebbene col viso leggermente segnato dal Tempo, appare anch’essa di un’incontenibile bellezza. Il suo sorriso, però, è beffardo e sprezzante, reso ancor più sinistro dallo sguardo quasi assente e distante che traspare dai suoi irresistibili occhi, di un celestino chiarissimo quasi tendente al bianco.
La prima donna in grado di rivolgergli la parola è però la più giovane Lilith, la cui voce cristallina e lieve è spesso contrastata e offuscata dal brusio di quella mormorante e sempre più incalzante di madame Morte. Le parole di Lilith, infatti, sono ormai quasi incomprensibili, tanto forte è ora il meccanico clangore che, con voce a bassissime frequenze, stridente e più che baritonale, madame Morte emette. Dalla sua flebile voce M riesce comunque a percepire le parole: « _----, - --- --------- ---, ------ ---- ------ ---- -- -------. - ------ ---- -- -- ----------, -- -- ----------- -, -- ----- - ------, -- ---- --------- - ------- ---- --- --------- -- ------ ------ -------, ----------, ------ ».
L’accresciuta bellezza di Lilith è però tale che le parole da lei pronunciate impressionano M a tal punto che ora sembra voglia avvicinarsi a lei quasi a volerla sfiorare o accarezzare. Ma, contrariata e visibilmente infastidita, Lilith (ddt) si allontana immediatamente da lui, dissolvendosi e scomparendo tosto alla sua vista. Spaventato e sconvolto, M all’istante sviene.
Risvegliandosi e riprendendosi a stento, ora M sembra che pianga; sì, in effetti, M ora piange.
Ma, come attratta o richiamata da quel sordo lamento, ecco la madre riprendere rapidamente forma e, sebbene d’aspetto molto più imponente e dalle forme ancora più morbide e calde, con passi leggeri, riavvicinandosi a lui sorridendogli, lo invita e lo accoglie subito tra le sue braccia offrendogli generosamente il seno.

Accarezzandogli dolcemente i capelli, il viso e gli occhi e baciandolo delicatamente sulle labbra, la donna, riuscendo ora a parlare, quasi sibilando a bassa voce gli dice: « _-- --------.. --- --------.. --- -------- ---, ----- ---.. », piangendo a sua volta. «_---------- --- ------ - --------.. --- ----- ----- », aggiunge continuando dolcemente ad accarezzarlo mentre M, baciandola dapprima smodatamente in bocca, ora, preda di più cruda passione, comincia a baciarle e a succhiarle con voluttà il seno.
L’eventualità di un qualche sprazzo o forma di tenerezza che questa scena potrebbe esprimere viene però improvvisamente e violentemente resa vana e annullata da un fragoroso e feroce sghignazzo di Morte; e anche la madre di M, immediatamente svanisce.
Seminuda e col seno che a tratti traspare dai suoi capelli e dalle sue candide vesti, lentamente madame Morte avanza ora verso di lui e, col chiaro intento di possederlo, con voce suadente sussurrando gli dice: « _- ------ --- ---.. - ------ --- ------  - --------.. _- ------ --- -- ----- --------- -’-----.. - --- ------------- ----- -- ------ --- -- ------- - --. _’--------, -- --- --’-- ---- ----- ----- ---- --- ------, ---- ? _----, ------.. _----.. ----- ------ -- --.. - -- -------- ------ -- ---- ----- -’------- --- --- ------ ------- - --------, ------ clairière -- --- ------- -- ---- ------ -------- -- -- --- ----- --- ---- --- -----, ----- -- --- ---- --- ------- -’------ ».
Ma mentre gli dice queste cose, madame Morte lascia che la sua veste si sciolga e lentamente scivoli via, producendo un fruscio di stupefacente leggerezza e d’indicibile piacere sonoro.
Terribilmente nuda e di una sensualità travolgente che lascia attonito M, madame Morte, lentamente, si adagia sinuosamente sulle sue vesti e, afferrandogli dolcemente le mani e accompagnandolo a sé con le sue candide braccia, lo spinge e invita a unirsi a lei. La sua lingua, intanto..



ndr - Non credo di far bene a trascrivere il resto di queste note, e dunque mi riservo di non riportare quanto letto dal medico pediatra, perché la natura obiettivamente folle di quanto scritto da M s’avvicina un po’ anche all’indecenza, cioè è frutto indubitabilmente di una mente malata, come d’altronde provano le condizioni in cui egli attualmente versa. Infatti, in questo scritto si parla di amplessi, spesso anche crudi, non solo con la madre ma nientemeno che con la morte, la ‘sua’ morte, com’è specificato nel testo. Posso soltanto dire che, alla fine del racconto, M chiude irragionevolmente con la frase:



«Riconciliatosi in tal modo con la madre (ne aveva sofferto profondamente l’assenza), che però ora gli dà forza, benessere e determinazione, M va in cerca di Lilith..».




[1] Qui, un asterisco a matita rimanda a due note a piè pagina, scritte anch’esse a matita e precedute da asterisco: ‘nella propria interiorità (contrasto caravaggesco: cupa oscurità e abbagliante luminosità)’ e ‘cfr. g. bataille: ma mére hélène et l’informe’.
[2] Igitur, ou la folie d’Elbehnon e Den Mütter! sono i titoli di due quadri recentemente eseguiti da M e datati rispettivamente 27 ottobre e 2 novembre 2017. Autorizzato dalla moglie, ne riproduco copia a fine capitolo.







Igitur, ou la folie d’Elbehnon (SM, 1869)

(50 x 70 cm; 27 ottobre 2017)










Den Mutter! (Faust, v. 6265)

(70 x 100 cm; 2 novembre 2017)








Dulcinea del Toboso V

(Magnes sive de Arte Magnetica)



Lo stesso tremito Bouvard lo sentì

nel palmo della mano della signora Bordin

(G. Flaubert, Bouvard et Pécuchet)



ndr - Anche se ora ho maturato qualche riserva nei confronti di M e sulla sua ‘stranissima’ malattia, mi preme comunque raccontare qui - dopo aver ‘registrato’ con molte perplessità quanto letto dal medico pediatra - ciò che avvenne subito dopo, perché spiega molto bene gli incredibili sviluppi di questa vicenda, che del resto si conclude, manco a dirlo, con la scomparsa di M.

Ovviamente, riguardo quel che mancherà in questo testo, confermo che ‘manca ciò che deve mancare e che son io a volere che manchi’ [però, che bel giro cervantino!]. Chi vorrà, poi, ammesso che la moglie acconsenti esponendo così il marito al ridicolo se non al ludibrio, pubblicherà quel che io oggi mi rifiuto categoricamente anche solo di trascrivere.



A fine lettura dell’oscena postilla, una furia libricida - e anche iconoclastica per quel che quei libri potevano significare per M, cioè quanto di più bello dell’immagine che dei suoi libri M s’era fatto - non ebbe più freno. Così, con metodiche annotazioni sul suo promemoria, ai primi Ventinove ‘d’uso quotidiano’ Fabrizio fece seguire nel camino quasi spento una nuova serie di libri.

Il Magnani, ovviamente, che nel foglio di Fabrizio veniva distrattamente riportato e trascritto sotto la voce ‘Goethe e Mozart’, accompagnata dalla qui poco congrua nota tra parentesi ‘discesa agli inferi’, fu il primo di questa seconda serie a prender fuoco, e con esso tutti i post-it e i fogli a-quattro ripiegati al suo interno, insieme, forse, a qualche petalo di rosa; cosa però piuttosto improbabile, considerato l’uso che di tale libro M ne aveva fatto: e questo fu ciò che venne in mente in quel momento all’intraprendente Mabillon medico pediatra, anche se le fiamme erano stranamente divampate sprigionando scintille in una ampia gradazione di sfumature azzurrine.

L’ormai illeggibile Pessoa primo, compresi i numerosi post-it all’interno, come quello letto con piacere da Fabrizio su Opheline, di cui riporta il nome nel suo promemoria affiancandolo a quello di Pessoa, seguì immediatamente il Magnani: la lettera ai due psichiatri, d’altronde, s’era già dimostrata sufficiente per determinarne la sorte.

Fu poi la volta di tutto un blocco di Grandi Libri Garzanti, copertina rossa, per lo più di letteratura francese, che, estratti quasi tutti dalla seconda pila, probabilmente M andava ultimamente consultando, perché tra le pagine di un Mademoiselle de Maupin, ad esempio, la marcata sottolineatura alla pagina duecento trentuno in cui si legge:



È uno strano paese la mia anima: fiorente e splendido in apparenza, ma più saturo di miasmi putridi e deleteri che il minimo raggio di sole (ddt) sul suo fango vi fa schiudere rettili e pullulare zanzare



può benissimo essere in relazione con quanto M veniva contestualmente elaborando (delirando) nei suoi incomprensibili scritti. Difatti, anche in Studio di donna e altri racconti di Balzac le frequenti e marcate sottolineature nelle pagine della superba introduzione biografica del Benni, testimoniano assai bene degli astrusi interessi che in quel periodo potevano occupare la mente di M. Su quest’ultimo libro, infatti, alla pagina tredici di tale introduzione, una breve sottolineatura rimarca dapprima gli interessi di Balzac verso l’occultismo, per poi distendersi, subito sotto, sulla frase che il curatore riprende da Falthurne - racconto giovanile balzachiano non presente in questa raccolta - che la dice lunga sugli interessi ‘mentali’ di M:



È una maga (ddt), e con i suoi poteri compie prodigi inspiegabili. È la portavoce di un’altra realtà, più profonda e reale di quella apparente, e assolve alla sua missione di educare gli uomini ad una ‘seconda vista’. Esistono nella natura delle forze sconosciute, e rapporti tra le sostanze in movimento che pochi uomini hanno saputo vedere. Contemporaneamente, nell’uomo esistono delle facoltà, dei fenomeni, dei godimenti che rimarranno a lungo ignorati. Dall’ultimo degli insetti, invisibile a quelli che noi non vediamo, fino alla forza immensa che fa muovere il mondo, esiste una catena di rapporti necessari che è possibile agire conoscendola.



Una nota a matita, tra parentesi e in maiuscolo, ‘cfr. athanasius kircher, de magnetica arte - duchamp quarta dim - (ddt)’, accompagnava a margine la frase sottolineata. Ma di Kircher, ripensandoci, nella cartellina bianca consegnatagli dalla moglie di M, Fabrizio aveva già trovato una stampa a costui riferita.

Carte, dunque, che riguardano gli ultimi interessi di M, se così posso dire, e che, riprese in mano e ricontrollate dal medico, sono le pagine del Magnes sive De Arte Magnetica, ma solo quelle relative al capitolo De magnetismo amoris, come trascritto nel titolo del fascicolo stesso che, in prima pagina, riproduce il frontespizio della prima edizione dell’opera kircheriana, ossia la catena aurea che unisce magneticamente i medaglioni delle arti e delle scienze con i loro corrispondenti emblemi: una sorta di cosmo magnetico, dunque.

Nel testo kircheriano, tuttavia, le sottolineature riguardano solo laddove viene a trattarsi



del modo di manifestarsi del magnetismo elementale, principio universale che lega intimamente tutte le cose create preservando così l’armonia del mondo



prima sottolineatura seguita da



vi sono, infatti, le forme del magnetismo vegetale, animale, medicinale, musicale e  dell’amore



con  le due ultime modalità accompagnate da una sottolineatura doppia e dall’incomprensibile e inafferrabile commento: ‘Amore e Musica sono complementari: senza l’uno l’altro muore’.

Ai due primi ‘francesi’, dunque, inconsultamente piroettati e gettati nel fuoco, che intanto, ancor più felicemente alimentato, cominciava a mostrare strane configurazioni luminose (d’altronde, la mirabile Madeleine de Maupin, Rosette e il concupiscente d’Albert, insieme alla marchesa de Listomère e a Mme de Beauséant, s’erano appena uniti al giovane meravigliosissimo Mozart[1] e a sua sorella, al grande Assiano quattordicenne, alla dolce Opheline e al Portoghese), seguirono presto gli altri, francesi anch’essi.

Il fuoco, come detto, andava ora riprendendo vigore, ma a tal punto che le fiamme, che in così poco tempo erano gagliardamente divampate, sembrava volessero inoltrarsi al di là del camino, col grave rischio che si potesse generare un banale e insignificante incendio nella bellissima casa di M [e questa storia, poi, se ne sarebbe andata a farsi friggere in quanto troppo somigliante al burning books del canettiano, inconsistente e vile sinologo Kien; ndr].

‘Gautier’ e ‘Balzac’, furono pertanto i nomi riportati nel promemoria fabriciano, banalmente accompagnati rispettivamente dalle note ‘Putridume’ e ‘Magnetismo Kircher’, da cui non si sa quale significato avrebbe poi potuto dedurre l’ingenuo ma amabile medico pediatra.

Estratto anch’esso dalla seconda pila, un’Educazione flaubertiana si trova ora tra le mani del maldestro ma bonario medico pediatra, di nuovo seduto comodo in poltrona e vicino al camino. Soltanto una pagina, però, e precisamente la duecento trentasei, ha una sottolineatura e un’orecchia ripiegata in alto a destra a mo’ di segnalibro. Riguarda la frase che il non più giovane protagonista rivolge finalmente a Mme Arnoux, quando cioè, praticamente alla fine del libro, il ‘quasi banale’ Federico (così in una nota a margine a matita) riesce faticosamente a dichiararle eterno amore.

Certo, ovviamente nessun sospetto, da parte di Fabrizio, per il più classico, ma anche il più bello, tra i roman d'apprentissage dell’Ottocento, che tuttavia si ritrova ben presto nel camino.. ma insieme a chi? insieme a quell’esilarante e inatteso Bouvard et Pécuchet, quel postumo incompiuto con cui il quasi sessantenne Flaubert si dilettò negli ultimi cinque anni della sua vita, soprattutto quando narrava a se stesso dell’imbarazzo ma anche dell’intraprendenza del senescente Bouvard davanti alla magnificenza carnale e all’ancor rigogliosa bellezza fisica della meravigliosa e stupefacente Mme Bordin.

Il de Nardis, intanto, cioè l’allarmante Mallarmé con quella lunga e inimmaginabile scandalosissima postilla - forse il racconto di un sogno o una folle fantasia elaborata da M - è rimasto appoggiato sul davanzale del camino, perché è, probabilmente, la ‘prova madre’ che Fabrizio va cercando.

Tuttavia, pensando a quest’ultimo ‘francese’, per logica e naturale conseguenza tutto ciò che ora ‘suona’ in quell’incantevole lingua viene dato rapidamente alle fiamme.

Della stessa collana Grandi Libri, con quell’ormai inconfondibile copertina rossa e anch’essi tutti sulla seconda pila, il medico pediatra destina così all’incenerimento un Bel-Ami, un La ricerca dell’assoluto e un Sarrazine balzachiani, seguiti subito dopo dal primitivo Oscar Mondadori L’amore e l’occidente di Denis de Rougemont e, a raffica e senza più prender nota sul suo promemoria, i già pronti e predisposti al fuoco Le grandi opere liriche di Mozart, i quattro Paperback freudiani e i tre Nuova Universale Einaudi: il Minima Moralia dell’Adorno, il Canzoniere continiano e l’Angelus Novus benjaminiano.   

Il camino, intanto, già colmo e saturo di libri e variamente scoppiettante, ha raggiunto un livello di fiamma non indifferente che non consente più al medico di procedere con l’incenerimento di altri libri.

Così, costretto a concedersi una pausa nell’abbrugio e prendendo distrattamente un voluminoso Sansoni con copertina rossa, Fabrizio torna a sedersi.

Rasserenandosi un po’, rendendosi conto di avere ora in mano un più che rassicurante Teatro di Racine (in una vecchia ma bellissima edizione Grandi Classici dell’ottantacinque), Fabrizio si accinge lentamente a sfogliarlo. D’altro canto, egli sa bene che nulla di conturbante o di ‘nocivo’ può esservi contenuto, considerando che l’autore, assai più del gesuita Corneille, almeno secondo le sue ancor vive reminiscenze liceali, passò per il grande moralizzatore dei costumi di quella Francia che, subito dopo le siècle d’or, avrebbe poi conosciuto i Voltaire, i Diderot e tutti quegl’altri ‘illuminati’ che facilmente (quelli sì!)  potevano essere accusati di fosco e caliginoso libertinismo.

D’altronde, consultando l’indice e scorrendo rapidamente i titoli di quelle opere, è quel che in questo momento pensa il nostro Mabillon medico pediatra.

Continuando a leggerlo, infatti, s’accorge ch’è sottolineato soltanto in Fedra, ossia laddove l’infelice regina rivela la sua inconfessabile pena alla vecchia nutrice Enone; e ciò non lo preoccupa affatto.

Ma continuando a leggere seguendo la meticolosa sottolineatura fatta da M, Fabrizio, voltando pagina, s’avvede subito che sotto la confessione dell’esangue regina v’è una strana nota a matita seguita da un punto interrogativo, che però nulla sembra avere di ‘letterario’ o in relazione con quanto sottolineato: ‘può esser vero amore mio? ddt’.

Allarmato, capisce subito che quella nota non può che essere un incontrovertibile indizio; un indizio, dunque, che prima di diventar fuoco costringe il medico pediatra a trascrivere nel suo promemoria:



alle parole di Fedra: «Lo vidi e arrossii, impallidii a vederlo. Nell'anima smarrita irruppe lo scompiglio. Non vedevo più niente, non potevo parlare. Poi sentii il mio corpo bruciare e raggelarsi» è stata aggiunta la nota ‘Può essere vero amore mio?’.



Sfogliando l’introduzione per capir meglio quella chiosa priva di aggancio al testo, Fabrizio arguisce, nelle poche righe dedicate al Fedra, che la donna è innamorata del figlio; questo, infatti, così almeno sembra, è quanto lui è riuscito a capire[2].

Senza pensar più di tanto, agguanta allora a caso, e senza nemmeno sfogliarli, altri cinque piccoli libri dalla seconda pila, ne legge rapidamente il dorso (Trilogia della città di K., il Diario di una scrittrice della Woolf, Un dio coperto di rose di una certa Rossana Ombres, un vecchissimo L’ordine simbolico della madre della Muraro e un Luce Irigaray in francese, un decrepito Ce sexe qui n’en est pas un delle édition de Minuit) e, riflettendo tra sé dicendosi: «Tutte donne», li immola insieme al Fedra, dapprima squadernandoli, rendendoli meno compatti e più arrendevoli alle brame divoratrici del fuoco, e poi, con suo turpe piacere, meticolosamente appoggiati uno per uno dentro al camino, facendo sì che subito vengano avvolti dalle fiamme.

Il fuoco, d’altronde, già colmo di libri, gli risponde subito, come per ringraziarlo, con un’altissima fiammata e un rimbombante e preoccupante rumore sordo, dovuto forse al fatto che l’accumulo d’inchiostro possa aver creato una camera asfittica all’interno del camino e che la cruda e impellente necessità d’ossigeno delle inesorabili fiamme può aver fatto esplodere.

«Però, con tutte queste donne è il minimo che può succedere a questo bel fuoco maschio dominante!», ragiona rozzamente Fabrizio, che fra sé ripete ad alta voce una frase letta per caso sulla quarta di copertina del libro della Muraro e che, anche se nervosamente, lo fa ridere di gusto, compiaciuto del suo crudo humor e delle sue conseguenti e stupide riflessioni filologiche.

Ancora non soddisfatto, ecco che quattro vecchi Shakespeare appena sfogliati, i famosi Shakespeare della einaudiana Scrittori tradotti da scrittori - un Come vi piace, in cui il medico legge un rimando a M.lle de Maupin, un Antonio e Cleopatra, in cui trova sottolineate alcune parole lascive che Antonio rivolge alla regina, un Amleto, con molti rimandi al solito Igitur di Mallarmé, e, con un petalo di rosa all’interno, la Tempesta, col nome della protagonista più volte evidenziato e accompagnato dalla sigla a matita ‘ddt’ - sono anch’essi subito nel fuoco.

I Sonetti, però, incomprensibilmente vengono risparmiati; non si sa e non si capisce il perché. Non ci sono commenti in merito; so solo che raggiungono rapidi un posto sicuro vicino al secondo Faust già custodito nella borsa del medico. Credo, tuttavia, di poter azzardare un’ipotesi: forse perché possono aver alimentato alcune reminescenze amorose nell’imperturbabile medico pediatra?

Infine, per completare la seconda serie da incenerire, un ultimo ‘francese’, ultimo anche della seconda pila, un Racconti fantastici di Gautier della stessa collana Grandi Libri, viene dato alle fiamme. Di tutto il libro soltanto la frase finale de La morta innamorata:



«Disgraziato! Disgraziato! Che cosa hai fatto? Perché hai dato ascolto a quello stupido prete? Non eri felice? E che ti avevo fatto io, perché tu violassi la mia povera tomba e mettessi a nudo le miserie del mio nulla? Ogni comunicazione tra le nostre anime e i nostri corpi è ormai interrotta. Addio. Mi rimpiangerai!». Si dissolse nell'aria come fumo e non la rividi più.



risulta sottolineata.

Ma a seguire, la nota a matita, trascritta subito e integralmente dal medico pediatra sul suo promemoria sotto la voce: ‘invisibilità - cfr. freud, sogno e telepatia’, lo induce a lugubri pensieri. Stanco, e leggermente disgustato, forse a causa dei contesti mentali a dir poco inusitati, a lui non molto congeniali, Fabrizio cerca comunque di riflettere e capire perché, per sua malaugurata sorte, deve dar fuoco a tutti questi libri e quale possa esserne poi l’effetto salvifico o ‘curativo-benefico’ su M.



«Dentro c’è anche l’elenco dei libri rubati da M[3]. Sono tutti in quell’armadio; io non sono ancora riuscita a restituirli». Così gli aveva detto la moglie di M prima di andar via consegnandogli la cartellina bianca con il ‘fantasmino’ pieno di stampe e il verbale di denuncia dei Carabinieri completo di elenco dei furti compiuti; e a questo va pensando Fabrizio, ora seduto in poltrona mentre distrattamente fissa il grande armadio in stile provenzale lì di fronte a lui.

Preso l’elenco, redatto su carta intestata del Comando di san Lorenzo in Lucina, Fabrizio comincia a leggerlo e, a voce alta, rapidamente a contare: «.. ventisei.. ventisette.. ventotto.. ventinove.. Ventinove! quasi trenta.. ». Sotto ogni titolo, una data; probabilmente quella del furto.

Nell’angolo dell’armadio, dunque, cioè dove la moglie aveva radunato tutti i libri rubati da M - rubati tra l’altro con l’evidente intenzione di farsi riprendersi dalle videocamere delle librerie, episodi poi raccontati da M in un resoconto richiesto dai medici - il bellissimo La regina delle fate salta subito agli occhi del nostro improbabile Mabillon medico pediatra.

In una sobria e ruvida copertina verde chiaro (priva cioè della sovra coperta plastificata) e con numerosi piccoli note-pads arancioni interposti tra le pagine, è evidente che, in questo libro, c’è qualcosa che può averlo preso a tal punto da fargli perdere il senno. I canti sette e otto del Sesto libro, cioè quello dedicato a sir Calidore, or Book of Courtesy, sono tra i più sottolineati: in carta così leggera, M v’aveva impresso in egual modo il suo marchio ‘sottolineatore’. È evidente, però, che M sottolineasse solo per sé; forse per ricordare meglio, e magari proprio attraverso e per il piacere di sottolineare quel che voleva ricordare. Ma quel che sottolineava denotava, per il medico, quel che egli ormai sospettava di cosa M soffrisse: «La pura follia».

«Certo, un libro del genere, ‘tradotto per la prima volta in italiano nel 2012, solo dopo quattro secoli dalla prima pubblicazione in lingua inglese’ - come riportato in una nota a matita sulla seconda di copertina - non poteva mancare nella libreria di quel matto di M»; così s’espresse tra sé, ma bonariamente, il medico pediatra pensando all’amico ormai infermo di mente che rubava libri del peso di più di due chili e di oltre duemila e trecento pagine.

Aprendo il libro al note-pad più sporgente e con la scritta ‘book vi cant. viii’, guardando sulla pagina del testo a fronte all’inizio del canto otto, Fabrizio ripensa subito alle due stampe in inglese già lette e ritrovate nel fantasmino: anche lì, d’altronde, c’erano le diciture ‘book vi cant. vii’ e ‘book vi cant. viii’, precedute dal titolo in grassetto for gea (part one) e for gea (part two). Anch’esse in aulico inglese e ora di nuovo nelle sue mani, confrontate con le due versioni del libro, l’intraprendente Mabillon medico pediatra ne riconosce facilmente l’origine anche se non il motivo della loro trascrizione né, tanto meno, del loro essere nel fantasmino.

Che la storia, poi (che nei due canti tratta delle vicende di una certa Mirabella il cui nome è spesso accompagnato dalla nota a matita ‘ddt’), sia il ritratto di una donna altezzosa e sprezzante che sta pagando le sue pene (condotta da un asino e costantemente afflitta da Sdegno e Dileggio - così nel testo) perché condannata dal tribunale di Amore proprio a causa del suo tracotante disprezzo, sembra che nulla abbia a che vedere con la malattia di M.

Del testo, tuttavia, sia in inglese che in italiano, Fabrizio legge quanto nelle due versioni era delicatamente ma attentamente sottolineato, del canto sette, alla stanza Ventinove[4]:



Unworthy she to be belou'd so dere,

That could not weigh of worthinesse aright.



Indegna era lei d'esser tanto caramente amata, 

Se non riusciva a dare il giusto peso al valore.




[1] Pare che, in età più matura, mentre suonava il piano con gli occhi bendati e sostenuto da giovani donne con le gambe in aria, davanti a conti e seducenti marchese scoreggiasse a ritmo, efficacemente e sonoramente [Scusami mio paziente e improbabile lettore, ma proprio non sono stato in grado di trattenermi e non dirlo - ndr].
[2] In realtà è innamorata del figliastro.
[3] ndr - Sembra che M per ogni furto commesso ne abbia fatto un racconto. Ci sono alcune stampe, nel ‘fantasmino’, che dal titolo, ad esempio, Come e perché rubai l’Arturo, fanno pensare ad una strategia non solo pratico-logistica ma anche di carattere filologico-letterario, perché ogni stealing books sembra essere stato un ‘furto su commissione’ per un certo fantomatico Max Neodimio, sedicente scrittore e storico d’arte conosciuto nell’invisibilità del web e in procinto, pare, di completare il suo grimoire.
[4] È l’unica pagina che riporta un note-pad verde.


Part II

(Marcel, invisible, re-monte un escalier)


Dulcinea del Toboso VI
(The Faerie Queene)

in galera..
voleva andare in galera..
(Fabrizio, December 2th, 2017)

Così aveva cominciato a rubar libri, fin quando lo scoprirono, lo denunciarono e, continuando lui a rubarne, infine ad arrestarlo (il due novembre scorso), per esser poi mandato, qualche giorno dopo gli arresti domiciliari e a seguito di visita medico-legale richiesta dal tribunale, in una clinica psichiatrica[1].
Tra i libri rubati (Ventinove)[2], sulla prima pila di dieci, da cui il medico pediatra aveva già tratto il gigantesco La Regina delle Fate, «Prezzo quaranta euro», era stato il suo commento finale su quel libro, v’era un Duchamp, un mille pagine in inglese (un Abrams Editions di pregio del 1970) curato da un certo Arturo Schwarz.
«Euro millesettecento ventitré.. virgola settanta!», legge ora, con fare sbalordito, il candido medico pediatra, impressionandosi anche nel veder riprodotto, sulla prima di copertina, un corpo nudo di donna col viso rovesciato verso il basso e coperto da poco visibili capelli biondi, sdraiata su fascine, col sesso slabbrato e un bec Auer in mano rivolto e proteso verso l’alto. étant donnés: i. la chute d'eau, ii. le gaz d'éclairage, era il titolo dell’opera, letto quasi controvoglia in seconda di copertina.
All’interno del libro, una copia del racconto di M Come e perché rubai l’Arturo, datato dieci ma riferito al  primo giugno duemiladiciassette.
Sempre dalla prima pila, un libro dal titolo Unlocking Mallarmé, che per istinto il medico crede di poter dare subito alle fiamme per avvedersi subito dopo che fa parte della lista dei libri da riconsegnare, viene messo da parte dal medico pediatra[3].
Un Music and Writing Literature, from Sand Via Debussy to Derrida, di un certo Dayan, edizioni Ashgate duemiladiciassette, le cui sottolineature alla pagina ottantuno non lasciano scampo e spazio a eventuali diverse tematiche che non siano di sesso o di morte, sconcerta di nuovo il medico pediatra.
D’altronde, in questa nota vi si tratta e si spiega, secondo la teoria del sogno classica (o freudiana), il significato del salvataggio da annegamento da parte di un uomo nei confronti di una donna; e, da quel che sembra, il salvataggio della donna da parte dell’uomo significa renderla madre. Infatti, facendo riferimento alla nota a margine ‘cfr. freud, psicologia della vita amorosa, v. ix p. 419’, nel nono volume Boringhieri preso dalla libreria all’ingresso della bella casa di M e ora tra le sue mani, il medico pediatra legge sottolineato:

‘Quando un uomo in sogno salva una donna dall’acqua, ciò significa: egli la rende madre, il che equivale a: la rende sua madre. Quando una donna salva dall’acqua un’altra persona (un ‘bambino’), essa si riconosce nella madre di lui’.

C’è anche un racconto di M, all’interno di questo Boringhieri, che riguarda proprio il salvataggio dall’acqua di una donna. Una certa ‘Maria II’, infatti, com’è scritto all’inizio del racconto, dopo una breve passeggiata lungo il greto del fiume, s’è gettata tra le acque fangose del Tevere. M, che è lì con lei, la trae in salvo, rischiando di annegare anche lui [Non si capisce se sia una storia vera o solo inventata da M, che qui accenna anche a un misterioso manoscritto - ndr].
Della ‘linea francese’, come ora Fabrizio identifica tutti quei libri che denotano un certo interesse di M verso quella cultura e quell’educazione culturale, ancora un Mallarmé: la grammaire & le grimoire, dove l’attenzione di M si concentra soprattutto sul capitolo dedicato all’Igitur (alle pagine ottantuno-centododici) e sulla parola grimoire, in italiano grimonio, che significa: ‘libro magico’ (così in una nota a matita alla pagina trentatré).
Seguono un libro sulle implicazioni e l'uso etico di biotecnologie anti-amore e un nuovo Ulisse einaudiano, ancora con residui di celophan all’interno, curato e tradotto da Gianni Celati[4].
Ma tutti libri che all’apparenza sembrano inconsistenti se messi in relazione con la malattia di M. «Ma perché, poi, tutti stì libri così strani?», si chiede infatti Fabrizio che, nella sua ingenua perplessità, prova ora anche a riderne e farne scherno, ma bonariamente: un po’ alla Sancho, se così posso dire spigolando un po’ nel mio don Chisciotte, che anch’io ho amato ed è sempre stato parte della mia mentalità vagamente ‘letteraria’.
Dal fantasmino, intanto, Fabrizio estrae il referto medico-letterario del dt. Mentòre, a cui è allegato il racconto fatto da M il primo giorno del ricovero e scritto su espressa richiesta dei medici, che volevano sapere il motivo psichico del suo ‘rubar libri’; da cui poi, ovviamente, la decisione di non farlo scrivere più e la iniqua e crudele distruzione di tutti i suoi libri. Di questo racconto, datato sedici novembre e scritto su carta intestata dell’ospedale San Valentino, e probabilmente un resoconto a memoria di un racconto già fatto, l’egregio Mabillon, ora anche un po’ Panza, legge:

Una grande impresa: come ho fatto a rubare La regina delle fate

Roma, 16 novembre 2017

Simulare un reato (rubar libri, fare stealing books come fosse una malattia) per farmi arrestare (di un reato che meno mettesse a repentaglio la mia vita) era il piano che volevo attuare: volevo farmi arrestare per concentrarmi su ciò che m’era successo; e magari scriverne fino a morirne.
Il caso ha voluto, che ora son rinchiuso in un’asettica camera d’ospedale: anch’esso un posto ideale per scrivere, come d’altronde i medici di qui ora mi invitano carinamente a fare.
Il ventisette ottobre duemilasedici riuscii a mettere in atto i miei propositi: avevo deciso, infatti, di rubare tutti i libri che a me sembravano i più belli, i più interessanti, intriganti, affascinanti; prima o poi, pensavo, m’avrebbero arrestato.
Sapevo dell’esistenza di gente specializzata in rubar libri ma il far finta solo di sbirciare per poi infilare, proprio sotto le videocamere, un libro nei pantaloni, mi diede una felicità immensa, pressoché totale.
Ne rubavo uno per volta: erano tutti grandi, e ogni qualvolta riuscivo a tornare a casa senza essere colto in fragranza di reato, la mia felicità raddoppiava. E poi, mi piaceva l’idea di poter rubare pressoché indisturbato; ero fiero di me e, anche se nel mio piano desideravo d’essere arrestato, decisi di protrarre l’evento il più in là possibile.
Quel ventisette ottobre, dunque, fu per me una data fatidica e ci vollero quasi dodici mesi e mezzo prima che finalmente riuscissero ad arrestarmi.
Credo che inizialmente le librerie in cui andavo a rubare tollerassero quei miei furti e facessero finta di non vedere: le vendite, d’altronde, ormai scarse in tutte le librerie, ne avrebbero ben presto imposto la chiusura, come recentemente è stato per la quasi centenaria e romanticissima libreria Croce.
Il giorno in cui decisi di attuare il mio piano andai a piazza Venezia, linea urbana Settanta. Conoscevo bene la libreria Rinascita: personale educato e pragmatico, dimensione asfittica ma di grande concentrazione; il contrario cioè delle più ‘confusionarie’ e accoglienti Feltrinelli Repubblica o Mondadori di via Piave, dove pensavo di andare nei giorni successivi, e comunque presto: dovevo arrivare a Ventinove! Ero dunque ‘a caccia di libri’. Il fatto è che in quel momento tutto questo, meravigliandomi, mi procurava un piacere immenso.
Sulla prima corsia di destra, codice ottocentoventuno punto tre (poesia elisabettiana), sullo scaffale in alto trovai subito quel che volevo portar via con me: il meraviglioso La regina delle fate. Certo, le novità non sono mai mancate a Rinascita e sapevo che il The Faerie Queene era stato da poco tradotto e curato da Luca Manini, un cinquantenne dabbene che, dopo solo quattrocento e passa anni, è riuscito a regalarci la prima traduzione italiana dell’epopea più umana e vitale scritta da uno ‘strano’ inglese esclusivamente per alimentare e forgiare lo spirito - e non certo solo per ingraziarsi la regina Elisabetta, che di ciò che lui scrisse non lesse mai nemmeno una riga.
Il The Faerie Queene tradotto in italiano dall’encomiabile Bompiani fu per me una rivelazione sorprendente. Ho a casa l’edizione Penguin, curata dal Roche nel settantotto, e non fu difficile arrivare ai canti sette e otto del sesto libro, che lessi lì su due piedi mentre una distinta sessantenne mi scrutava deliziata nel vedermi così ‘preso’.
Non diedi importanza alla donna. Volevo per prima cosa verificare le parole ‘Unworthy she to be belou'd so dere, That could not weigh of worthinesse aright’, stanza Ventinove del canto sette. Leggo così nel Manini: ‘Indegna era lei d'esser tanto caramente amata, se non riusciva a dare il giusto peso al valore ’.
«Come immaginavo. Forse non ha capito chi sono», penso in quel momento subito dopo aver riletto mentalmente la mia traduzione: ‘Indegna era lei d’esser così [tanto amata] che non era in grado di dar giusto peso al merito’.
Guardo di nuovo la donna che, a pochi passi da me, ancora, con discrezione, mi osserva. Le sorrido con fare amichevole. Mi risponde sorridendomi dolcemente, facendomi capire d’essere attratta da me. M’avvicino a lei e, tremando un po’, le sfioro delicatamente una mano. Subito lei mi risponde e m’accarezza a sua volta. Il caso vuole che, guardandomi negli occhi e sfilandosi via una parrucca bianca taglio corto nature, ella m’appare ora completamente calva e di una bellezza sconcertante. Con stupore e un po’ di vergogna la guardo ancora, la osservo in viso e nei particolari del corpo e, più i miei occhi bevono della sua bellezza, più m’accorgo che mi sto innamorando di lei. Ci guardiamo ancora negli occhi; con intensità e serenità.
«Le piace Spenser», mi dice allora, con voce suadente e armonicamente bellissima, sfiorandomi di nuovo e più teneramente la mano.
«Sì, il creatore dei luoghi mentali ideali per cui vale la pena vivere», rispondo rapido fissandola affascinato negli occhi.
Il suo aspetto, i suoi modi e la sua incantevole espressione esaltano il mio piacere di parlare con lei. Ne è pienamente consapevole, e con un sorriso serio e intelligente mi fa: «Venga a trovarmi al Goethe.. Dobbiamo parlare, io e lei. Mi chiamo Helene Kreutzer, sono dell’Institut, e son proprio curiosa di sapere chi si nasconde dietro quell’uomo totalmente immerso in quel libro, perché vederla così attratto e in quel modo, me lo lasci dire, è stato che per me di una bellezza sublime».
Detto questo, sorridendomi ancora, la donna si volta lentamente, lentamente depone la parrucca nella borsa e, allontanandosi e voltandosi di nuovo verso di me, mi guarda seria negli occhi come per dirmi «ti aspetto» e se ne va, lasciando nell’aria il profumo di sé e l’adorabile immanenza della sua presenza.
Rimango sorpreso, affascinato e leggermente inebetito da tanta bellezza.
«Per oggi tre chili e quasi tremila pagine possono bastare», mi dico dopo un po’ come un cretino consapevole delle difficoltà cui andrò incontro per fare asporto del libro: certo, volevo farmi arrestare, ma andare a casa e cominciare a leggere Spenser era per me la cosa più importante in quel momento. Volevo verificare se, di quanto letto nel Roche, la traduzione italiana di quei versi fosse più plausibile di quella che avevo fatto io. Certo, l’inglese antico non è mai stato il mio forte, ma quel che mi premeva era soprattutto la conclusione ‘etica’, se così posso dire, che Spenser voleva dare narrando della bella Mirabella.

Così finisce e s’interrompe il breve resoconto di M su quel suo primo furto del ventisette ottobre dell’anno scorso, scritto su carta intestata dell’ospedale e ritrovato nel fantasmino; e dunque anch’esso tra le carte lette dal dt. Mentòre. 
Tra le stampe ritrovate nel fantasmino c’è anche un racconto di M sul suo incontro con la signora Helene del Goethe Institut intitolato ‘L’Incantatrice Calva’ (così M, d’altronde, chiama la donna per ghermirla a sé), ossia la breve cronaca di un incontro galante, almeno così sembra che sia, fatto di ‘sguardi profondi’, ‘lievi toccate’ e ‘lente penetrazioni’ - così nel testo - che però non sto qui a riportare perché prolisso e pieno di quella viscerale passione che a me sembra la parte più stupida dell’uomo che sto descrivendo.
S’erano incontrati per caso, alle cinque del pomeriggio, alla sala Baldini, in piazza Campitelli, praticamente alla Guillaume Apollinaire, la biblioteca italo-francese lì vicina e da lei frequentata. Davano musica da camera. S’erano intravisti nell’androne del palazzo, ma nel trambusto di gente non erano certi d’essersi riconosciuti. Per M la donna in quel momento somigliava molto, forse anche per averne lo stesso nome, all’Helen Mirren di The Cook, The Thief, His Wife & Her Lover, che alcuni anni prima aveva intravisto per caso al Roma Fiction Festival - insieme a Peter Greenaway, credo, come sembra desumersi da un inciso all’inizio del racconto.
Alla fine del primo quartetto, col bel Finale fugato del Sunrise haydniano eseguito da un’anziana violoncellista amica di M e da un buon primo violino inglese - così dice lo scritto - con sguardo più attento si sono cercati e, sorpresi e incantati l’uno dell’altra, immediatamente riconosciuti. Dopo essersi guardati da lontano fissamente negli occhi, si sono alzati e subito venuti incontro. Uscendo, e baciandosi nervosamente come due giovani amanti nell’androne del palazzo, senza quasi parlare - così dice il testo - sono letteralmente fuggiti. Il resto, ovviamente, lo lascio alle fantasie di chi legge; io di quel che ho letto, rimanendo letteralmente di sasso, non ne trascriverò nemmeno una riga. Dico solo che la frase «Dai vieni, siediti su di me amore mio» è più che sufficiente per capire da quale humus mentale quelle parole provengano. Inoltre, perché raccontarlo, perché scriverlo?
«Misteri dell’arte», si disse infine Fabrizio ricordandosi di un quadro di M ancora nel suo studio[5].

Dal fantasmino, intanto, Fabrizio ha ora sfilato un fascicoletto spillato di tre fogli a-quattro stampati fronte-retro. È intitolato Igitur, ou la folie d’Elbhenon, con la versione originale (di Mallarmé, ovviamente, come si deduce anche da una nota a piè pagina) e una traduzione fatta probabilmente da M confrontata con quella del de Nardis, come suggerisce la nota in alto a matita ‘cfr. traduzione de nardis’.
Il testo poetico è di per sé incomprensibile, sia nell’originale, che nelle due traduzioni; almeno questo è quel che pensa il medico pediatra. La lettura è difficile, c’è un utilizzo enorme di connecteurs, ed M l’ha scritto probabilmente solo per se stesso.
Quel che però salta subito all’occhio dell’accorto medico pediatra sono dei piccoli cerchietti rossi con un punto al centro e posti laddove, nel testo, il protagonista ‘decide’ (sì, letteralmente ‘quando decide, prende azione o mette in moto l’azione, il movimento’, com’è scritto in una nota anch’essa in rosso a piè pagina). Infatti, vicino a ogni cerchietto rosso c’è spesso l’evidenziazione in grassetto di frasi in cui il protagonista ‘agisce’, come ad esempio quella in francese

Minuit sonne - le Minuit où doivent être jetés les dés. Igitur descend les escaliers, de l’esprit humain, va au fond des choses : en « absolu » qu’il est

e la traduzione in italiano

Mezzanotte suona - la Mezzanotte, quando devono essere gettati i dadi. Igitur discende le scale, dello spirito umano, va al fondo delle cose: da ‘assoluto’ qual’egli è

fatta da M.
Le marcature in grassetto sono spesso accompagnate dalla nota scritta in rosso e tra parentesi quadre ‘[grimoire]’, come a cercare di mettere in luce ed evidenziare quelle corrispondenze foniche presenti nel testo mallarméano che nella traduzione del de Nardis per M mancano.
diversa sensibilità fonica o sonora’, così M giustifica, con nota a margine, ogni sua correzione fatta al de Nardis.
«Hai preso il caffè?», chiede ora la moglie di M al medico pediatra entrando leggermente affrettata dalla stanza dello studio.
«Resti a pranzo con noi?», chiede ancora la signora.
«No», risponde subito Fabrizio. «Guardo queste carte e vado via. Continuo a far fuoco domani, se voi ci siete», dice con lieve noncuranza il medico pediatra, facendole però capire che l’incombenza che gli ha appioppato è enorme.
«A proposito, hai letto quel fascicolo.. quel fantasmino pieno di carte di M? Me l’ha riconsegnato Mentòre l’altro giorno. C’è anche una sua nota, lì dentro. Credo sia la ‘giustifica’ alla distruzione dei libri di M. Un vero orrore, un vero abominio.. D’altronde, M ha fatto di tutto per.. Ma lasciamo perdere.. diciamo soltanto che se l’è cercata». Così chiude il discorso la moglie di M, ormai indaffarata in ben altre questioni che non i libri del marito.
«Quando vai via, passa in cucina: devo dirti alcune cose che non sono ancora riuscita a dire a nessuno, né tantomeno meno a quel Mentòre», fa congedandosi [sembra che una donna di una certa età sia venuta a farle visita - ndr].
Ripresa la cartellina bianca in mano, Fabrizio riesuma ora la breve nota a firma del medico psichiatra. Data lo stesso giorno del ricovero di M, come, del resto, è datato il suo racconto sul rubar libri richiesto dal medico e spillato insieme alla nota, su cui ora Fabrizio attentamente legge:

«Non sono un critico d’arte né di letteratura, ma quanto leggo in queste pagine prova della serietà psichiatrica del soggetto in esame. Come già riscontrato alla prima visita dai medici dell’ospedale giudiziario che lo hanno visitato, il paziente è affetto da una forma di distonia multiforme, ovvero il risultato di un evidente caso di bipolarità, ma anche di doppia personalità, che porta il paziente ad uno stato di prostrazione fisica e mentale che quasi lo paralizza, lo annulla. Il caso richiede che la fonte di questo disturbo venga eliminata. Dagli scritti di M si evince, infatti, una psico-deformante visione pseudo-letteraria che lo ha portato a vivere, almeno così sembra che sia, una sua seconda vita, forse parallela ma molto distante da quella che noi tutti viviamo.
Questo per quanto di mia competenza e come risulta dalle analisi cliniche del paziente. Prof. Claudio Mentòre, medico neuropsichiatra, Clinica San Valentino, Roma 16 novembre 2017». 

«Quest’uomo già parla come mio marito», era stato il commento un po’ astioso della moglie di M quando in ospedale aveva letto la nota appena consegnatale alla reception.
D’altra parte, in quell’occasione s’accorse pure che il marito non era più lui: rideva spesso e sembrava contento; ma era sotto l’effetto di psicofarmaci, che lui non aveva mai preso. Le sue posture, in effetti, erano quelle tipiche di quei soggetti che vengono aggrediti da dosi massicce di farmaci di questo tipo: i suoi movimenti erano completamente fuori controllo e un lieve blefarospasmo gli deturpava l’espressione del viso. Sia il fratello, che un amico neuropsichiatra di M, chiesero allora al dt. Mentòre quali farmaci fossero già stati somministrati e quali venivano ora ‘dati a bere’ al paziente. La risposta del medico psichiatra rimase ovviamente molto vaga. «È molto probabile che stiano continuando il lavoro già avviato al P. e che in questa clinica siano interessati a tenere occupato un posto letto», fu il commento finale del fratello gemello di M. D’altronde, pare che inizialmente M dovesse esser ricoverato presso l’OPG di Aversa; ma madame Fortuna volle che non ci fossero posti, come in nessun’altro dei sei oppigi nazionali.
Tra le carte riconsegnate dal dt. Mentòre, in effetti, c’erano anche alcuni scritti riguardanti l’opera di Marcel Duchamp, i cui strani titoli potevano già suggerire un qualche indizio sulla malattia di M, perché il medico psichiatra vi aveva aggiunto la nota: «L’eccessiva vastità d’argomentazione e il modo contorto e confuso con cui alcuni temi vengono trattati, con un uso spropositato di connettivi e con ripetute e affastellate digressioni nel testo, attende e richiede un analisi di tipo neuropsichiatrico».
Per completezza aggiungo che in questi testi, letti ora anche da Fabrizio, si parla soprattutto e distesamente di ‘visione’ e di ‘quarta dimensione’, motivo già di per sé sufficiente per cui il dt. Mentòre, secondo il medico pediatra, aveva deciso per la distruzione di tutti i libri di M.
Tra l’altro, in una stampa del fantasmino, a commento del suo ultimo quadro ancora in esecuzione e praticamente non finito[6], M, in una nota a piè pagina, aveva tenuto a specificare:

«È spesso nell’invisibilità che avvengono cose ancora inconcepibili, stupefacenti, irrazionali, forse inenarrabili».

e lo stupore del medico pediatra che in quel momento leggeva la nota arrivò immediatamente alle stelle.



[1] Da dove scomparirà il primo di dicembre.
[2] Dei Ventinove racconti fatti in seguito da M dopo ogni furto, nel fantasmino ce ne sono alcuni, due dei quali (che sono quelli che qui di seguito saranno trascritti), datati 16 novembre 2017, ma riferito al 27 ottobre 2016, il primo (Una grande impresa: come ho fatto a rubare La regina delle fate), e 10 giugno 2017, ma riferito al primo giugno (Come e perché rubai l’Arturo), il secondo, sono quelli relativi al primo furto e a quello considerato da M il più esaltante; che sono poi tra i documenti letti dal dt. Mentòre, come deduce Fabrizio dalle insistenti sottolineature a penna rossa fatte dal suo collega medico psichiatra.
All’inizio del secondo racconto appare però la strana e ambigua nota: ‘Il cranio umano è composto da Ventinove ossa. Nella Smorfia il numero Ventinove è il padre dei bambini (il pene). È il numero atomico del rame (Cu). La Ventinovesima Proposizione di Euclide è la prima ad usare il postulato delle parallele. È un numero primoriale, divisibile solo per uno e per se stesso. È il terzo primo primoriale, dopo cinque e sette e prima di trentuno e duecentoundici. È il decimo numero primo, dopo due, tre, cinque, sette, undici, tredici, diciassette, diciannove e ventitré e prima di trentuno e trentasette (cfr. Sequence A000040 in On-Line Encyclopedia of Integer Sequences, The OEIS Foundation, may 2017)’.
[3] Probabilmente perché rubato alla Croce, in seguito al quale la notte del due novembre M sarà arrestato.
[4] Rubato il 16 giugno scorso, M ne fece un racconto tutto incentrato sulla frase: Ineluctable modality of the visible: at least that if no more, thought through my eyes, tratta dal terzo capitolo dell’Ulisse e di cui, presto, qui si parlerà ampiamente.
[5] Un piccolo quadro, un cinquanta per ottanta datato ventisette ottobre duemila quindici, un monocromo eseguito esattamente un anno prima del primo furto e, pare, solo in una notte, ritrae, a mezzo busto, una donna calva d’estrema bellezza. I tratti del viso sono molto sfumati, ma presentano dei lineamenti sorprendentemente ‘armonici’ (in realtà, sembra si muovino e che anaglificamente acquistino profondità) e seducenti. Non credo sia solo un caso che porti il titolo di Helene e che, per completezza, riproduco a fine capitolo, se non altro perché, anche se solo in parte, dà ragione di certi comportamenti di M, su cui Mentòre, e forse anche il fratello gemello di M, potranno trarre alcune conclusioni - ndr.
[6] Marcel (invisible) re-monte un escalier, che riporta, nel retro, la data d’inizio del quadro: 2 novembre 2016 [la sera del 2 novembre 2017 M veniva arrestato - ndr].







Helene (M)

(50 x 70 cm; 27 ottobre 2015)








Marcel (invisible) re-monte un escalier (M)

(100 x 120 cm; 2 novembre 2016 - non finito)









Dulcinea del Toboso VII

(The Creative Act: Marcel Duchamp)



To all appearances, the artist acts like

a mediumistic being who,

from the labyrinth beyond time and space,

seeks his way out to a clearing.

(M. Duchamp, The Creative Act)



Trascrivo qui un racconto di M occasionato dal furto ch’egli fece di un libro dedicato all’opera completa di Marcel Duchamp, un libro costosissimo di un certo Arturo Schwarz (Abrams 1970) il cui furto però ben testimonia del grado di incoscienza cui già in giugno M era giunto, perché rubare senza valutare i notevoli rischi e le compromissioni personali che con quell’azione M avrebbe dovuto affrontare per sé e per la sua famiglia, significa non aver più quelle capacità di discernimento che obbligano le persone di buon senso a porsi dei limiti e praticare quelle virtù che ormai M in quel momento sembrava aver completamente perso: la prudenza e la misura (o aurea mediocritas).

Nel trascrivere, ovviamente, ho tagliato e tralasciato le parti meno interessanti, o per lo meno quelle che non hanno alcuna attinenza con la malattia di M.

Tuttavia, non ho trascurato di segnalare quanto nella scrittura e nel comportamento di M ci sia di morboso e di clinicamente patologico che, oltre a dare visibilità alla malattia di M, avvalora ancora una volta la decisione presa dal dt. Mentòre di far fuoco di tutti i suoi libri.



come e perché rubai l’arturo

roma, 10 giugno 2017



Quando rubai l’Arturo (dieci giorni fa, il primo giugno), ero euforico, quasi fuori di me: volevo festeggiare e consacrare con un memorabile gesto (rubando appunto Le Grand Livre), il mio incontro con Erre Emme.

Le avevo da poco regalato un Duchamp, un bel Pierre Cabanne del duemila quattro (Marcel Duchamp. Artista culto del Novecento), ricco di belle immagini e con un testo abbastanza scorrevole, ma con una dedica un po’ banale: «Almeno ogni tanto penserai a me. M». Così avevo scritto stupidamente sul frontespizio. Ma quando contenta e grata venne a ringraziarmi, ero sotto un albero e come un folle scriteriato le dissi improvvisamente che mi sarebbe piaciuto fare l’amore con lei.

Sbalordita, ma non preoccupata, Erre Emme sorrise e, attendendo una mia ‘mossa’ successiva, non disse nulla.

In preda al panico, cominciai allora a farfugliare frasi tipo: «È un’attrazione più mentale che fisica.. Mi sono spinto troppo in là.. Non volevo essere così osé.. Scusami micetta»; e altre scemenze che ora non ricordo più.

Il fatto è che subito dopo cominciai a scriverle lettere d’amore, e più gliene scrivevo più mi sembrava di non riuscire a farle capire quanto da lei fossi attratto, quanto, ormai avvinto dalla sua bellezza, ero preda del desiderio più profondo di lei, nel senso di volerla sentir mia, poterla amare e immergermi completamente in lei, mentalmente e fisicamente, nonostante quanto relativamente poco ho sempre creduto di valere.

Via e-mail, come un bambino, le raccontavo anche di alcune mie fantasie erotiche mattutine, del tipo «Stamattina, facendo la doccia.. » etc.; continuamente le dichiaravo folle amore, per la sua bellezza e, soprattutto, per il suo inconfondibile, inebriante e magico odore; mi preoccupavo di lei quando ultimamente m’accorsi come non stesse bene per niente: l’amor mio era arrivata a pesare quarantesei chili su centosettantacinque centimetri d’altezza.

Ebbene, il primo giugno duemiladiciassette Erre Emme mi diede un bacio. Non racconto tutti i particolari di quel che avvenne dopo, ma certamente quelli furono i giorni più entusiasmanti e più belli della mia vita e ne farò tesoro per sempre, almeno fin quando vivrò.

E come riuscimmo a baciarci? Non ci credo ancora, perché imbranato come sono, non m’aspettavo assolutamente che una donna meravigliosa come lei potesse gradire che le mie labbra si poggiassero sulle sue e, infine, mi facesse godere di lei aspirando a pieni polmoni l’odore del suo alito, succhiando e godendo fin dentro l’anima del sapore della sua lingua e della sua saliva.



ndr - Finché sarò io a trascrivere, taglierò dove giusto a me sembra che sia.



Eravamo andati a fare un giro per Roma. C’eravamo dati appuntamento in modo semplice (così, quasi senza pensarci) e solo per vederci e ridere un po’ facendoci una passeggiata in centro. Amante della bellezza e dell’arte, non ebbe esitazioni; le piaceva, poi, discorrere con me: le ero simpatico, ecco tutto. Mi venne incontro in sandali.. era bella e profumata di sé come non mai..

Arrivati in via Veneto, parcheggiammo la macchina e raggiungemmo subito la cripta dei cappuccini, l’ossario del Seicento che fa ridere chiunque v’entri. Piena di scheletri e di composizioni ossee in varie e strane forme, fatte solo con le ossa dei frati, dei gentili e dei famigli legati a quella chiesa barberiniana, entrando Erre Emme s’era coperta le spalle. Aveva una pelle di seta l’amor mio e, vedendola coprirsi, ebbi un breve tuffo al cuore: quanto avrei voluto baciarle una spalla mentre, contenta, rideva di ciò che in quel momento le dicevo! Inoltre, devo dire, m’accorsi semplicemente ch’era felice di stare con me, e me ne accorsi perché la sua bellezza, per questa sua felicità, aumentava oltre ogni misura, e quel che avevo in mente di fare, cioè di baciarla su una spalla, probabilmente le avrebbe potuto far piacere.

E poi, Erre Emme aveva un sorriso sconvolgente; ogni tanto, mentre rideva, s’emozionava, diventava tutta rossa e mi guardava fissamente e quasi incantata negli occhi. S’aspettava, e ne sono consapevole solo ora, che da un momento all’altro la baciassi. Non capivo; come un bambino stupido e capriccioso, non capivo. Incredibile!

Anche a santa Maria della Vittoria, davanti alla Teresa in estasi, ci divertimmo da matti. Lei guardava la santa; io le indicavo di guardare chi, con marmorea testa, la guardava dai palchetti (la famiglia Cornaro al completo) dicendole: «La donna in preda all’estasi non è certo una santa, ma una donna in carne ed ossa e il marmoreo sguardo degli spettatori che vedi, anche del più ingenuo di loro, te lo fa capire ampiamente. Infatti, è uno sguardo distratto e, dunque, di tipo fisico. D’altronde, se guardi bene, vedi come la santa freme col seno? Vedi come s’offre a chi la fa godere divaricando leggermente le gambe? Vedi come l’angelo sia in procinto di spogliarla? E a cosa credi pensasse il cavalier Bernini quando la scolpì? Guarda dove l’angelo punta la sua freccia; e guarda la posizione del braccio destro della santa: non ti sembra prossima a prendere in mano il sesso del bellissimo angelo?».

Mentre le dicevo tutte queste cose, mi venne d’incanto d’accarezzarla lievemente: dapprima le mani, poi delicatamente le braccia e le spalle, per sfiorarle, infine, inavvertitamente il seno. Rossa come non mai, mi sorrideva un po’ malinconica: c’era qualcosa, d’altronde, che tra noi non andava. Infatti, mi ostinavo a non capire che s’aspettava un bacio da me.

Alle undici e mezzo, infine, davanti alla lanterna borrominiana di sant’Ivo alla Sapienza, due stupidi gelati in mano (mangiati con gusto per giunta) non mi davano modo d’avvicinarmi al suo viso. La divina pietà volle però che alla fine, e forse impietosendosi anche lei giudicando ridicoli tutti quei miei stupidi sforzi, togliendomi dalle mani il gelato letteralmente mi si offrì, parandosi improvvisamente di fronte a me. Guardandomi fissa negli occhi e, con un malinconico mezzo sorriso sulle labbra, sembrava volesse dirmi: «amore mio... voglio vedere adesso che fai».

Cominciai, allora, ad accarezzarle delicatamente i capelli e ad inondarla di baci. Due anziani, intanto, passeggiando sotto i portici michelangioleschi dell’archivio di Stato, ci guardavano stupefatti per l’ardire, ma anche un poco estasiati, mentre io, completamente sotto shock, non credevo si potesse vivere e gioire così tanto. Pensavo che, da un momento all’altro, potesse scoppiarmi il cuore o esplodere il mondo.

Senza più parlare, se non guardandoci negl’occhi, raggiunta casa sua ci siamo amati. È stato il giorno più bello della mia vita e spero solo che per lei sia stato almeno un bel giorno da ricordare. Alla fine, contenti, sazi e grati l’uno dell’altra, a lungo e con reciproca trepidazione ci siamo salutati come due teneri amanti.

Sulla soglia che dà sulle scale, riempiendole il viso di baci e stringendole ancora una volta i piccoli capezzoli tra le labbra, Erre Emme ha un suo ultimo splendido sorriso per me. Mentre lentamente scendo le scale, infreddolita e seminuda, mi guarda ancora dal ballatoio del suo piano sporgendosi un po’ alla ringhiera. Le faccio cenno di non sporgersi troppo; ho paura che l’emozione possa giocarci un brutto scherzo. Ma da sotto, tra gli svolazzi della vestaglia intravedo ancora una volta il suo sesso meraviglioso di cui ho goduto fino ad un attimo prima tra le lenzuola. Le sorrido, le mando di nuovo un bacio e un ti amo con un flebile filo di voce, che lei riesce comunque a percepire perché, portandosi dapprima le mani alle guance per poi sorridermi seriamente e arrossire contenta, sottovoce m’esprime la sua felicità con un suo breve wow!, mandandomi un bacio. Vacillando un po’, ho ancora in mente la mia bocca e il mio viso tra i meandri del suo corpo e del suo sesso, con la sensazione di sprofondare di nuovo scendo un’altra scala, attraverso il buio corridoio e l’androne e, anche se un po’ frastornato e fuori di me, mi ritrovo in strada.

La prima cosa che mi venne in mente in quel momento, esaltandomi non poco, fu di andare alla Croce: vi avevo visto il Duchamp in versione ‘pregiata’. «Quale impresa più grande!», mi dissi sconsideratamente.

«Credo che questa volta mi freghino», pensai anche. Ma non fu così. L’ultima volta che avevo rubato alla Croce (il Mallarmé), in effetti, m’ero accorto - e consapevolmente perché m’ero mostrato alle videocamere - che l’uomo all’uscita volesse farmi capire che aveva subodorato l’idea ch’io avessi fatto asporto di libri. Ma andai lo stesso: «D’altronde - pensai - è l’unica libreria a Roma che ha l’Arturo»; e m’accorsi in un istante che ero pronto a sfidare l’hasard.. giocandoci a dadi.

Dal Portico d’Ottavia alla Croce fu un attimo.

Le cinque del pomeriggio. Entro in libreria. So dov’è il Duchamp e, certo, il pensiero di portarmelo a casa non solo mi esalta perché sarebbe lo stealing books e l’impresa bibliofago-libresca più grande della mia vita, ma perché l’idea di sfidare con arte la sorte mi diede una forza mentale e un coraggio enormi.

Ma devo agire con discrezione e astuzia. «D’altronde è sempre un Duchamp - pensai - in cui l’inframince agisce putting art in the service of the mind, but also putting the mind in the service of Duchamp’s art»[1], battuta felice con cui Jay Russell aveva chiuso il suo simpatico e formidabile articolo su Duchamp e l’inframince che avevo letto alcuni giorni prima.

Faccio il mio giro: letteratura inglese, scuola di Francoforte, linguistica, semiologia. Do un’occhiata se c’è l’ultimo Chomsky: ancora Power and terror. Ripenso all’improvviso a Emme Erre, al magico odore del suo corpo e al sapore inebriante e sconvolgente del suo sesso. L’impressione è ancora forte e non riesco a togliermela dalla mente. Vorrei tornare indietro. Sorrido di me per l’emozione provata e, un po’ più convinto, novello Igitur decido di dar corso agli eventi. Proseguo così verso il Marcel.

«Settecento.. settecento quaranta..», mi dico leggendo tra me i codici sugli scaffali. M’avvicino con fare distratto ai volumi in quel momento lì di fronte a me: un nuovo Borromini, un Ashgate duemiladiciassette, Borromini’s Space a cura di una giovanissima storica d’arte inglese. È pieno zeppo di riproduzioni a carboncino degli emblemi decorativi di palazzo Falconieri a via Giulia (e Lungotevere dei Vallati) ma anche di calcoli cripto-matematici che, riferendosi ampiamente al Magnes sive De Magnetica Arte, Borromini andava elaborando paventando l’idea geometrica (e mentale) di una possibile quarta dimensione. Certo, il suo rivale a suo modo v’era riuscito, ma creandone solo l’illusione. Nel suo Estasi di santa Teresa, infatti, due fenomeni distinti sono uniti e amalgamati insieme: l’estasi spirituale della santa; l’estasi fisica della donna. Ma tra le due dimensioni il legame è solo e banalmente analogico: vedi l’una, ma non vedi né senti l’altra. Il più poetico Borromini, d’altronde, conoscitore dell’arte magica di Athanasius Kircher suo amico, aveva altre idee.

Il Duchamp, intanto, trepidava nell’attesa di vedermi: lo ‘sentivo’. Infatti, e strano a dirsi, come m’avvicinai a lui inspiegabilmente, come trasalisse, con un sobbalzo si spostò. Prima di toccarlo, preferii solo sfiorarlo, mentre con un po’ di sprezzatura agguantavo l’altro libro a lui vicino.

Sfogliando quest’ultimo, pensando all’Arturo, per caso m’accorgo di alcune sottolineature: «Ma come? Un libro nuovo già sottolineato? Che meraviglia!», mi dico stupefatto. Chiudo il libro e rapidamente leggo il titolo: Carla Brilli, Alcune considerazioni sull’arte e il pensiero di Marcel Duchamp, Laterza duemiladiciassette.

Entusiasta, a piè pagina leggo sottolineati, e su più pagine, alcuni rimandi (o cfr.) a miei articoli su Duchamp. «Sto impazzendo.. la Brilli mi cita! Che meraviglia!», penso tra me come un ebete; «e vicino al Marcel!», mi infervoro vedendo quel libro con all’interno il mio nome affiancato allo Schwarz.

Il mio entusiasmo è alle stelle. Depongo il libro che ho in mano e, mentre penso: «Proverò un’altra volta a portarmelo a casa.. magari da un’altra libreria», delicatamente e con ossequio sollevo dallo scaffale il Duchamp, Le Grand Livre.

ORA, tra le mie mani, sembra che il libro si sfogli da sé, leggero, come volesse raccontarmi quel che vedo tra le sue pagine. Le immagini le conosco (quasi tutte), ma sono più belle perché meglio riprodotte. Ecco però che alcuni testi in inglese che accompagnano e guidano al Grand Verre, ovvero à La Mariée mise à nu par ses célibataires, même, m’emozionano. Leggo, infatti, nel testo:



the creative act..



ndr - L’editore che ha voluto stampare questa trascrizione ‘a verbale’, ha qui deciso di tagliare a profusione su tutti quegli argomenti che esulano dall’obiettivo di dare una logica spiegazione della malattia di M.

Segue, infatti, tutta una enorme ‘pippa’ su Marcel Duchamp, l’inframince e la quarta dimensione di cui non si comprende quasi nulla; questo, d’altronde, fu l’ultimo commento di Fabrizio, che in quel momento chiudeva il fascicolo e lo riponeva nel fantasmino. Tra l’altro, c’è anche uno strano modo, quasi mistico, di concepire il concetto di ‘apparizione’, inteso cioè contraddittoriamente come ‘parusìa’, ossia di qualcosa che è al di là di ciò che appare.

Della dinamica invece di come avvenne il furto non se ne sa nulla, perché M stesso ne tralascia la ricostruzione quando comincia a divagare sulla quarta dimensione su cui, sostenendosi al concetto di inframince, M si produce in alcune sue riflessioni sulla natura ‘fisica’ delle diverse e profonde emozioni che certe parti del corpo della signora Erre Emme gli hanno procurato.

Una cosa, tra le altre, che però lascia perplessi, è quando M fa cenno a un certo Max Neodimio, sulle cui ‘tracce’, afferma, egli sta scrivendo il suo grimoire, ma senza darne ulteriori ragguagli.

Ovviamente, non mi dilungo su cosa e come si svolge il seguito di tutta questa vaga esposizione di M sulle sue concezioni artistiche e le sue velleità narrative perché, oltre ad essere intrisa di termini desueti e percorsi mentali tortuosi, M - così come scrive e lascia intendere - sembra intenzionato a  crearsi uno spazio mentale ch’egli considera ‘illimitato’ (annotando nel testo la parola ‘radura’); una sorta d’iperspazio, dunque, da lui stesso inventato solo per sé in cui deporre, ‘feticisticamente’, i suoi pensieri e i suoi ricordi più felici.




[1] «Mettendo l’arte al servizio della mente, ma anche la mente al servizio della Duchamp’s art» (mia traduzione - ndr).






Dulcinea del Toboso VIII

(Ulysses: an incredible Bloomsday)



Shut your eyes and see..

(Ulysses, III)



Riproduco qui, e quasi per intero, un altro racconto del giugno scorso scritto da M qualche giorno dopo lo sbalorditivo stealing books ch’egli fece dell’Ulisse perché, oltre a render bene l’humus mentale e il grado di delirio in cui M versava già a quel tempo, può anche ben giustificare la condotta che il dottor Mentòre ebbe nel decidere di dar fuoco a tutti i suoi libri, considerati a tutt’oggi come la più probabile e chiaramente ineludibile ragione della sua strana affezione e quindi, per logica conseguenza, anche della sua sparizione.

Come l’ebbe tra le mani Fabrizio, che l’aveva testé sfilato dal fantasmino in attesa che i Ventinove in seconda incenerissero in toto nel camino, n’era rimasto incuriosito proprio perché v’erano moltissimi riferimenti all’Ulisse, il libro che, tra i primi[1] ad essere incenerito, era anche tra i più amati da M, che gliene parlava spesso, insistentemente e con dovizia di particolari, nonostante non destasse in lui la benché minima curiosità.

Fatto assai insolito e curioso, tuttavia, è che resta ancora da capire, dopo aver letto queste note, se M scrivesse solo per sé o per far poi leggere a qualcuno i deliri che andava scrivendo, e che, mi si lasci dire, qualsiasi editore di buon senso, anche fosse sotto tortura, non pubblicherebbe mai. D’altronde, M non aveva mai scritto prima d’allora, né tantomeno pubblicato nulla.

Una donna, in effetti, rimasta nell’anonimato ma pare conosciuta dal medico pediatra (sembra che la incontri ancora nel suo condominio quando va a far visita a una sua amica, anziana anche lei), qualche mese prima aveva rivelato al pediatra stesso, e con vivo e grave disappunto, che il suo amico M le aveva scritto delle lettere [e forse inviato anche delle rose bianche - ndr], e dunque gli si raccomandava affinché, parlando appunto col suo amico, ciò non accadesse più.

Non so dire come questa donna conoscesse M; posso però dire che, almeno agli occhi di Fabrizio, per il portamento, lo sguardo e il contegno che dimostrava, essa appariva come una donna altera, ‘candida e d’estrema bellezza’: proprio così s’espresse il medico pediatra davanti al gemello di M che gli chiedeva chi fosse e perché M le aveva scritto. Riguardo questa faccenda, però, Fabrizio si ricordò improvvisamente, e non si capisce come e perché, delle due stampe in antico inglese intitolate ‘for gea’, quelle che, trascritte da Spenser e narrando di una certa Mirabella, riportavano anche una strana nota in inglese che M aveva aggiunto a piè pagina a margine e forse a commento dei due scritti.

Infatti, nelle due note a piè pagina delle due stampe spenseriane intitolate ‘for gea’ e che all’apparenza avrebbero potuto dar adito a chissà quali pensieri nel medico pediatra era scritto:



Attention to the lengthy but generally neglected Mirabella episode of Book VI of The Faerie Queene reveals discomfort with any challenge to accepted hierarchies of class and gender. Surrounded in the Book of Courtesy by numerous erring women who are rescued, forgiven, and reformed, she alone is not only punished for her particular discourtesy, but is punished in such a way as to leave no hope for redemption. Even so, she refuses Prince Arthur's offer of help for fear of some greater ill than the endless penance imposed on her by Cupid.



Una questione assai spinosa, tuttavia, che però il circonciso Fabrizio avrebbe voluto far passare sotto silenzio nel timore di non essere creduto, perché le pazzie di M arrivarono qui al limite e all’estremo segno della follia che di lui s’era impadronita, fu quel che M aveva scritto in quelle lettere, perché pare che quel ch’egli scrisse già a quell’epoca, sono le cose più turpi e indecenti che un uomo sciagurato e meschino come lui avrebbe potuto scrivere a una donna di tal fatta.

Su questo credo non ci sia alcun dubbio, considerato anche che, secondo quanto riferito al fratello gemello di M dal medico pediatra che le aveva lette e sbirciate tra le bellissime mani di quella donna, M in quel momento sembrava avesse già ben compromesse le sue facoltà mentali; ovviamente quelle che nell’ordinario son previste in un uomo della sua età.

In quel periodo, infatti, M aveva anche ricominciato freneticamente a dipingere e, a detta della moglie, fin quasi all’ossessione. Negli ultimi mesi, se non dormiva, spesso si chiudeva nel suo studio, s’accompagnava con vino rosso, cioccolato con nocciole, caffè e sigarette e cominciava a dipingere, in silenzio. La moglie, intanto, si preoccupava per quanto M mangiasse pochissimo e dormisse tantissimo. Dai titoli dei quadri, e dalle sue meticolose descrizioni, poi, si potrebbero evincere o dedurre molte cose con cui efficacemente spiegare lo stato mentale di M e con esso le ragioni da riconoscere al dt. Mentòre: ad esempio, il titolo Den Mutter!, con sottotitolo: La grotta di Montesinos, dato a un quadro recente e accompagnato dalla nota datata..

Ma di questo parleremo più avanti, quando sarà il medico pediatra a parlarne nel serrato colloquio col gemello e la moglie di M, cosa di cui si tratterà meglio e approfonditamente nel capitolo che seguirà.

Del resto, quel che emerge nel racconto che a breve, dopo averlo ben vagliato, trascriverò qui sotto, è il modo con cui, senza attenersi ad un benché minimo principio di coscienziosità o d’onestà morale, M tendesse a piegare e assoggettare alle sue spregevoli voglie la volontà di qualsiasi donna potesse capitargli a tiro: nel caso specifico una ragazza di ventitré anni.

«L’età di suo figlio..», fu infatti il commento stizzito del medico pediatra mentre leggeva.

Del racconto tralascio ovviamente, com’è ormai mia consuetudine, le scene inenarrabili, e non solo quelle fatte di sesso, le cui descrizioni fanno rabbrividire chiunque abbia un po’ di buon gusto e di senso comune, ma anche quelle costellate d’innumerevoli divagazioni e alambicchi mentali sull’arte, divenuta ormai pratica corrente di M quando, nei suoi ultimi scritti, sprofonda o scende ai suoi livelli più infimi e pretende di giustificare a suo modo il perché v’approda.

D’altronde, in altre note riguardanti l’arte di Marcel Duchamp, M aveva scritto più volte:



scendere o salire.. tanto per me fa lo stesso.



Non so ben dire cosa significhi perché non son stato ancora in grado di stabilire quale ne sia la fonte, anche se riconosco che v’è qualcosa di diabolico in questa frase. Leggendo questa nota però mi chiedo: se è lui che scrive, sembra sia ormai allo sbando; ma se sono parole scritte da qualcun altro, ed io questo ancora non lo so, significa che M ha fatto tesoro di quel che ha letto e ora lo segue alla lettera. [Del resto, e sia detto per inciso e senza vestire i panni di un Polonio improvvisato, non posso negare che a volte qualcosa di quel che M scrive tocca, e assai percettibilmente, l’anima – ndr].



Il medico pediatra, nel leggere il breve racconto tutto d’un fiato, rise a crepapelle più d’una volta, fece commenti salaci, indignandosi poi per alcune descrizioni che, per la verità, è bene ch’io censuri, perché quanto v’è scritto non credo possa ripeterlo o trascriverlo qui senza poi dovermene pentire.

Ecco, dunque, quel che M scrisse su quanto gli accadde il sedici giugno scorso.





Sulla spiaggia di Sandymount

(A great wonderful incredible super spectacular Bloomsday)



Roma, domenica 18 giugno 2017



Incredibile! Pazzesco! Illogico! Fantastico! Stupefacente! Irrazionale! Irreale!

Da quando mi sono innamorato (anche se non corrisposto) me ne succedono di tutti i colori.

L’altro ieri, venerdì sedici, finalmente son riuscito a rubare l’Ulisse. Era almeno da un anno che volevo comprarlo ma l’altro ieri, non so perché, m’è venuta improvvisamente voglia di rubarlo.

Forse la ricorrenza, o più probabilmente per quel che m’era successo nel pomeriggio, la sera, per festeggiare o commemorare quel fantastico giorno che si svolse e dispiegò tra l’erotico e il letterario, volli rubare l’Ulisse nella nuova traduzione einaudiana di Gianni Celati, di cui già all’uscita se ne parlava come di una ‘nuova opera’ completamente diversa da quella storica e datata curata dal De Angelis per i Meridiani oltre quarant’anni fa.

Alla Mondadori di via Piave, la cui misteriosissima direttrice-proprietaria espresse una volta il suo apprezzamento per la scrittura vintage,[2] son riuscito a trovare l’Ulisse solo dopo averne chiesto informazioni al nuovo commesso: sullo scaffale non ce n’era neanche uno perché, pare, ne avessero già rubate tre copie in sei mesi.

«Così poche in tutto questo tempo?», mi son chiesto sbadatamente a voce alta, portandomi poi le dita alle labbra per lo stupore per quel che avevo detto.

Il fatto è che in quel momento mi sentivo anche pronto a farmi arrestare. Sicuro di me, sfidavo la sorte, l’hasard. D’altronde, dopo aver assaporato con profondo piacere del sesso giovane, chiunque si sarebbe sentito pronto ad affrontare l’ignoto come io, novello Igitur, in quel momento avevo deciso di fare.

Ma andiamo per ordine, perché di fatti accaduti l’altro ieri, ce ne sono molti.

Venerdì, dunque, verso le quattro del pomeriggio, dopo aver accompagnato mio figlio a Fregene per una festa di compleanno, mi prende una strana e incredibile voglia di fare una passeggiata in riva al mare.

Non so spiegarmi il perché: infatti, nonostante l’abbigliamento e la mia abituale repulsione per il sole, è come se sentissi nell’aria che qualcosa di stupefacente si stesse realizzando; e da sé, senza alcuna mia volontà.

Preso un caffè nel primo stabilimento che incontro, m’incammino dunque, a passo lento, lungo la spiaggia e, dopo poco, giocando col pensiero e dicendomi distrattamente ‘Thalatta! Thalatta! La nostra grande dolce Madre’, mi ritrovo pago e compiaciuto sul bagnasciuga. L’aria è frizzante: ci sono un bel sole e una brezza piacevolissima.

Certo, con tutti i capelli al vento, in giacca e cravatta e scarpe nere coi lacci, m’accorgo subito che la poca gente presente, incuriosita, mi lancia sguardi stupidi e increduli.

Lascio correre; non me ne preoccupo; non me ne importa assolutamente nulla. Il mio pensiero, d’altronde, guardando il mare, la spiaggia, i riflessi del sole sull’acqua, è ora interamente assorbito dall’amor mio.

Tuttavia, con la sinistra in tasca e strofinando senza pensare il mio fazzoletto rosso, scorgendo per caso sulla battigia alcune conchiglie rotte amalgamate ad altro putridume, mi vien subito in mente il moccichino verdemoccio del giovane bardo gesuita che, di giovedì alle undici, passeggia inquieto sulla spiaggia di Sandymount, il sedici giugno del mille novecentoquattro. Da quel momento il pensiero dell’Ulysses m’accompagnerà per l’intera giornata.

Malgrado ciò, pur pensando intensamente e con grandissimo piacere al libro, non era affatto nei miei pensieri l’idea che la sera stessa avrei deciso di rubarlo.

Dopo un po’, però, e con mia enorme sorpresa, un’esuberante e bellissima ragazza bionda - ‘che sublime apparizione!’, pensai d’impulso - da lontano e vistosamente sorridendomi, mi viene incontro correndo.

Lì per lì non capisco chi sia né cosa possa volere da me una donna così giovane. A trenta metri (non vedo più bene) improvvisamente, attonito e sbigottito, riconosco folgorato la Kles.

«Ahojjj!.. Ciaoo!», mi fa entusiasta di vedermi. «Jak se máš?.. Come stai? E che ci fai qui.. così?», mi chiede stupita anche nella sua lingua guardandomi incredula e ridendo per il mio strano abbigliamento.

«Alx! Che sorpresa! Che bella sorpresa..», rispondo d’istinto ma rimanendo profondamente impressionato e turbato dalla sua enorme bellezza.

Noto, infatti, insieme al suo entusiasmo nel vedermi, che Alx quasi nuda ha una forma fisica da urlo e d’inverosimile bellezza; il che mi fa riflettere un po’ e, quasi impercettibilmente, sento che il suo corpo e la sua presenza stanno facendo crescere in me un indefinibile stato confusionale: alta poco più di me, un metro e settantacinque circa, natiche di linea morbida e compatta, seni perfetti e gambe ben tornite e svelte, scaldano subito i miei istinti primoriali. ‘Potrà mai essere la mia piccola Gerty?’, penso tra me come un cretino continuando a giocare con l’Ulysses.





ndr - Altri pensieri o riflessioni di M sul corpo della ragazza, che denotano quell’humus mentale cui avevo accennato all’inizio, e cioè che l’uomo che narra è ora in preda ai suoi più bassi istinti e non controlla né mitiga assolutamente il suo modo di esprimersi, sono stati da me omessi. D’altronde, in queste sue continue divagazioni di natura anche sessuale, sembra che M sia costantemente in cerca degli angoli più nascosti del mondo ed entri nei più intricati labirinti della sua mente per affrontare ad ogni passo l’impossibile. Inoltre, sembra ormai essersi abbandonato alla Fortuna, perché non tien conto più di nulla che possa distoglierlo da ciò che il suo corpo ora comanda.

Tuttavia, e questo devo dirlo perché avrà certo un suo significato (e soprattutto per le analisi fatte dal dt. Mentòre), in questi frangenti ricorre spesso, in particolar modo più avanti quando M si trova vis à vis col sesso della ragazza, la frase: ‘Ineluctable modality of the visible: at least that if no more, thought through my eyes’, ripetuta spesso sottovoce, ma chiarissima allusione al fatto che tale visione sia in qualche modo connessa al suo delirio erotico pseudo-letterario.

E quando, in procinto di immergersi col viso tra le gambe della donna, M ripete fra sé e scrive più volte la frase ’Shut your eyes and see’, è ben evidente che ormai sia fuori di sé, cioè che è in preda al suo delirio joyciano e il suo senno fa fatica a rimanere intero.

Quel che sorprende è che Fabrizio, proprio qui, leggendo queste righe, a un certo punto, contento di ricordare, ridendo fra sé esclama: «L’Origine du Monde!».

Incredibile, anche il non più giovane medico pediatra, ricordando un quadro di Gustave Courbet visto qualche anno prima al Musée d’Orsay, e in base al quale M gli aveva parlato dell’étant donnés di Marcel Duchamp facendogli notare alcune importanti differenze, è ora in preda alle sue faunesche fantasie sessuali. L’Aprés midi d’un faune ora suona anche per lui.

Di quel quadro M gli parlò niente meno che di naftalina.. e glielo ripeteva spesso quando andavano per mostre d’arte. Della Vagliatrice di grano diceva invece, ch’era Aldonza, ossia l’enorme fregatura destinata ad uccidere il Cavaliere dalla Triste Figura. Non so cosa intendesse dire, però son certo che l’uomo che qui di seguito scrive, con quel tono ermetico e quasi ‘solenne’, fosse già da tempo in preda alla pazzia.

Certo, non intendo qui definire i suoi gusti e farmene giudice, ma mettere solo sull’avviso che quanto viene scritto da M sregola completamente dalla normale sintassi mentale.

Ad esempio le frasi: ‘Odore su sudore’ o ‘This is sensus carnis and not carnalis concupiscentiae’, solo pensate e trascritte nei suoi appunti, non denotano alcun senso; anche se qui una nota fa riferimento a uno strano racconto intitolato Breve conversazione con Théophile Gautier, datato 22 giugno 2017, in cui s’apprende che M, in preda a voluptas carnalis, parla e chiede consiglio allo scrittore francese come se lo conoscesse.

Riattacco perciò il racconto leggermente più avanti, tralasciando e passando sotto silenzio quel che a me sembrano non solo inutili minuzie, quanto soprattutto delle inenarrabili volgarità e delle miserabili trivialità; il ché fa lo stesso.



«Ho accompagnato mio figlio per una festa qui vicino e, già che c’ero, ho pensato che, dopo tanto tempo, m’avrebbe fatto bene prendere un po’ di sole in riva al mare. Sai, un po’ di vitamina d rinforza le ossa e tonifica i muscoli, ed io, come vedi, ne ho un gran bisogno», le dico fingendo di claudicare un po’ facendola ridere. «E tu invece?», le chiedo di rimando perché non so più cosa dire.

«Io sto qui.. come te [ride] per prendere il sole.. e sto col mio ragazzo. Anzi, dai vieni che te lo presento!», mi dice con il suo grazioso accento boemo[3] e continuando a ridermi letteralmente addosso per il modo buffo e fuori luogo di come son vestito.

Facendomi strada verso il suo ombrellone, mi presenta così al suo amico.

«Questo è Mattia.. E lui.. è Em, un mio amico d’università.. Diciamo anche.. una delle persone più colte e bizzarre che conosco», dice la Kles ridendo e con un tono, devo dire, eccessivamente entusiasta e di burla insieme.

Un giovanotto, anche lui piuttosto atletico e bello, mi stringe così, con raccapricciante vigore, la mano.

«Piacere, Rodolfo Mattia», mi dice con accento vagamente triestino e un tono un po’ stupidamente cameratesco.

«Molto piacere Em», rispondo garbatamente di rimando schernendomi un po’ per l’eccessivo entusiasmo con cui Alx m’ha presentato.

«Romano?», mi chiede infine il giovane con aria un po’ saccente e arrogante ma con l’evidente goffaggine di chi non sa proprio cosa dire.

«Casualmente.. e solo per nascita», rispondo con un po’ d’acredine e falso pudore, che poi è quello che assumo perché tipico di quel Mr Bloom, a cui in quel momento vagamente sto pensando, che nel tardo pomeriggio del sedici giugno del mille novecento quattro, quando s’aggira per le vie di Dublino e incontra gente a lui quasi sconosciuta e variamente antipatica, per togliersi d’impaccio, e sempre con lo stesso tono, in questo modo s’esprime, lasciando l’interlocutore che ha di fronte più che perplesso e stupefatto.



ndr - Faccio proseguire qui la narrazione fatta da M (tagliando ovviamente dove serve) soltanto per mettere in rilievo il suo ambiguo comportamento. Difatti, ogni qual volta che M cita l’Ulisse è come se intendesse dar forza, credibilità e valore a quel che scrive; e quindi sfacciatamente giustificarlo.

Ciò significa che tutto ciò di cui M ha fatto tesoro delle sue letture, non sempre trova un risvolto di tipo ‘letterario’, quanto piuttosto - e mi si lasci dire - morbosamente ed esclusivamente di tipo erotico, come in seguito l’eventuale e paziente lettore potrà verificare.



Consapevole dell’evidente disagio in cui senza volerlo siamo andati a cacciarci, la Kles mi chiede allora, con fare nervoso, se voglio bere qualcosa.

«Una schweppes all’arancio.. grazie», rispondo rapido per aiutarla ad uscire dall’imbarazzo.

«Può portare una schweppes all’arancia, prosím, s’il vous plaît?», chiede la Kles al waiter in quel momento lì di passaggio.

Vestito in quel modo, però, accanto a due giovani semi-abbronzati e terribilmente aitanti, faccio fatica a sentirmi a mio agio. Finalmente arriva la schweppes. Porgo, di conseguenza, una banconota al ragazzo del bar, ma subito la Kles gli fa cenno di non prendere i miei soldi. Ringrazio garbatamente e, con una banale scusa (il caldo e l’abbigliamento inusuale), dopo aver bevuto rapidamente quell’intruglio arancione, cerco di congedarmi.

«Ma già vai vià, Em?», mi chiede allora Alx con l’aria di una che sembra faccia finta d’essere un po’ dispiaciuta.

«Ma sai.. il caldo, queste scarpe, e così come son vestito..», rispondo come posso pur di tirarmi fuori da questo impaccio che m’infastidisce e togliere immediatamente il disturbo.

All’improvviso, però, la Kles mi chiede se sono in macchina e se, per caso, sto tornando a Roma. Annuisco, anche se un po’ confusamente.

«Posso tornare con te Em?», mi chiede allora vagamente frignando ma con un sorriso dolce dolce e un po’ ambiguo che mi eccita e mi dà da pensare.

«Ti dispiace Em? Sai, ma ho un tal mal di testa che ora tornare in moto proprio non me la sento, con tutto quel rumore.. quel vento..», mi dice frignando ancora un po’ ma guardando seria il suo Mattia.

«Non ti preoccupare.. non vado di fretta. Ti aspetto. Ma avete fatto il bagno?», chiedo per cambiare discorso notando il rabbioso rossore sul viso del ragazzo.

«Mah.. L’acqua era un po’ fredda.. e anche un po’ sporca», risponde la Kles cercando di sostenermi per uscire dall’imbarazzo di una situazione che si sta facendo un po’ critica.

Provo a ripensare un po’ all’Ulisse, ma non ci riesco un granché: faccio fatica a distrarmi ed estraniarmi da quel che succede.

Cerco di sforzarmi. Sono le quattro e un quarto: è il momento in cui l’ebreo errante è a pranzo all’Ormond, dove Dedalus padre, pavoneggiandosi, canta divinamente una struggente romanza. Ma subito mi viene in mente (e non capisco il perché) quando più tardi, verso le sei, Mr Bloom viene aggredito dal Cittadino, il coglion feniano antisemita che gli si scaglia furiosamente contro.

Ma cosa gli aveva detto il ‘magico’ Bloom per far arrabbiare anche Garryowen, quel cesso di cane così ringhioso e insolente? Gli aveva gridato forte e in faccia: «Viva Israele! Viva Israele!! Viva Israele!!!»; e per ben tre volte e ben in faccia!

Grandissimo Mr Bloom! Era la prima volta che l’orgoglio e la dignità d’uomo emergevano nel circonciso, sebbene il Cittadino avesse avuto ancora l’insolenza di tirargli dietro una scatola di biscotti ma, non per caso, rigorosamente vuota.

«E Mattia potrebbe essere un tipo del genere?», mi chiedo provando a convincermi sforzandomi un po’. «Ma no..», mi rispondo subito. «Sembra un buono e non un banal demente pronto a menar le mani», mi dico cercando di rassicurarmi.

«Em? ti va allora di tornare a Roma?», mi chiede infine un po’ impaziente la Kles.

«Ma certo. Preparati.. e quando sei comoda andiamo», le rispondo con gentilezza sorridendole.

Rapida, allora, Alx si veste, raccoglie le sue poche cose nella borsa e mi fa cenno, con aria leggermente interrogativa e allusiva, d’esser pronta.

«Allora ciao Mattia. E scusami, ma sai.. proprio non me la sento di tornare in moto. Ci vediamo domani, okkei? E poi mi dici quanto hai speso. Ciao», fa la Kles al giovanotto sempre più imbronciato cercando, guardandomi, di banalizzarne l’irritazione.

«Io son pronta.. e se ti va possiamo andare», mi dice allora con un mezzo sorriso che mi fa capire che non vede l’ora d’andarsene e liberarsi di quel ragazzo.

«Allora Mattia Rodolfo, arrivederci.. È stato un piacere averti conosciuto», faccio al giovane che ora ha l’aria un po’ più frastornata.

Con la Kles in short bianchi, maglietta verde e di una bellezza infinita, m’incammino così verso la macchina. Rapidamente penso: «Dedalus morirebbe d’invidia all’istante, se mi vedesse».

«Senti un po’ micetta», le dico dopo un po’ mentre andiamo verso la macchina.

«Ti andrebbe di fare un bagno poco lontano da qui? Sai.. me n’è presa voglia.. a me non dispiacerebbe», concludo sorridendole leggermente.



ndr - Ecco, dunque, come il concupiscente e lussurioso M mette in atto le sue abiette strategie: con qualche ridicolo vezzeggiativo, e modi non particolarmente gentili ma decisamente ambigui, riesce a circuire una giovane donna che, forse inconsapevolmente, si lascia incantare e conquidere da lui senza batter ciglio.

Il fatto è, e per questo me ne scuso con il paziente e potenziale lettore che s’inoltra a leggere queste righe, che ora son costretto, e a malincuore, a far proseguire il racconto di M, giacché da qui si può ben dedurre lo stato mentale, psicologicamente folle e un po’ criminale, in cui lo stesso signor M versava già da quel sedici giugno duemiladiciassette.



«Siiiii..», mi risponde immediatamente la Kles ridendo e gongolando come una bambina contenta di far qualcosa che in quel momento, così almeno a me è sembrato, la rende felice e la ecciti un po’.

«A proposito Alx.. hai un asciugamano anche per me?», le chiedo un po’ fanciullescamente. «Purtroppo io non ne ho», aggiungo.

«Mm.. ho un belissimo asciugamano grande grande che può bastare per tutti due. Non te preocupare», mi risponde con voce amorevole, guardandomi dolcemente negli occhi e prendendomi ancora un po’ in giro per il mio buffo modo di essere lì con lei. M’accorgo, tuttavia, anche dai troppi errori fonetico-ortografici, che anche la Kles si sta emozionando.

Saliamo in macchina. Madame Fortuna vuole che abbia messo dei boxer azzurro scuro che, molto vagamente e alla lontana, possono anche somigliare a un costume.

Al Villaggio dei Pescatori, dunque, fermo la macchina. La Kles, intanto, mi sorride deliziosamente, forse per averla fatta in barba al ragazzo, o forse, e più probabilmente, perché ora è contenta di stare con me.

Arrivati in spiaggia, però, con non poca fatica comincio a spogliarmi: giacca, scarpe, calzini (un buchino sul destro!), cravatta, camicia, maglia intima, pantaloni. Uff.

La Kles, intanto, continua a ridermi letteralmente addosso, accentuando in me la tragicomica difficoltà che ho nello svestirmi. Ma quando finalmente mi ritrovo seminudo, la Kles assume uno sguardo un po’ diverso, o, se così posso dire, leggermente più attento verso di me, guardandomi sempre più spesso, e fuggevolmente, negli occhi.

«Però.. non ti facevo così ben proporzionato», si lascia sfuggire quasi stupidamente.

«Ma dai!.. che sciocchezza. Davanti a te, poi.. e alla gran fica che sei, scusami se parlo così, io sono un bel nulla.. Non credi splendore?», azzardo.

Ad un certo punto, però, m’accorgo che lo sguardo di Alx s’è fatto d’incanto leggermente più cupo e pensieroso. Penso in un lampo che non c’è traccia di scene simili nell’Ulisse.

«Dolcezza dai, buttiamoci in acqua!», provo allora a dirle con fare scherzoso invitandola ad andare verso la riva.

Alx, però, inspiegabilmente è rimasta immobile e, come se non ascoltasse più quel che le dico, ora mi guarda seria ma in un modo e con un fare, almeno così a me appariva in quel momento, sempre più curioso e attraente o, se così posso dire, stranamente incantato.

Capisco improvvisamente che vuole un bacio da me. Imbranato come sono, madame Fortuna vuole che mi senta in grado di accarezzarle i capelli e, accompagnandola delicatamente per la nuca, baciarle teneramente le labbra. Ci incamminiamo così verso il bagnasciuga, sfiorandoci spesso le mani e guardandoci più volte negli occhi.

«Brrr, che freddo!», fa Alx tutta intirizzita nel mettere un piede in acqua che però la elettrizza. E in quel momento m’accorgo che la sua bellezza ha ormai preso il sopravvento su di me.

Piano, allora, mi avvicino a lei. C’è vento; non c’è nessuno; ci guardiamo rapidi negli occhi; i nostri ventri si sfiorano e teneramente, ma con un po’ più di passione, la bacio di nuovo. Le nostre lingue, però, ora si cercano, si rincorrono e cominciano a giocare tra loro.

Un gran sorriso, esaltato dal rossore che le è divampato sulle guance, si stampa ora sul suo bel viso. Come due veri amanti ci prendiamo allora per mano ed entriamo in acqua.

Lasciandola, faccio per buttarmi, ma non ho il coraggio perché il freddo che sento in quel momento m’inchioda. Lei intanto però s’è tuffata, e subito, senza pensarci e non riuscendo a trattenermi, le vado dietro.

Come in un dolce liquido amniotico ci incontriamo felici sott’acqua; ora ci sfioriamo le labbra e, accarezzandoci un po’ dovunque per tutto il corpo, ci baciamo. Sento ora i suoi seni sul mio petto; sono ben turgidi e gonfi. Mi sto eccitando; cerco di controllarmi. Alx però se ne accorge; riemergiamo.

Alx ride, ma ride e tossisce ora in un modo quasi isterico; sembra dovuto al freddo, anche se il fatto di essermi eccitato davanti a lei sembra la gratifichi.

«Ma cos’hai per ridere così tanto», le chiedo ridendo e tremando anch’io.

«Mi sono accorta, sai.. Ma non ti preoccupare, dai! Perché la cosa.. se posso dirtelo Em.. non mi dispiace per niente», mi dice prendendomi piacevolmente ancora un po’ in giro ma guardandomi sottecchi ridendo.

«Anima mia.. è un fatto naturale, non credi? E poi, non ci trovo nulla di male.. perché davanti a tanta bellezza è difficile non perdere il controllo e dunque, se puoi.. scusami», rispondo un po’ imbarazzato ma divertito.

«Ma dai, figurati.. e poi non ti preoccupare», mi dice con fare leggero e continuando a ridere. «Non sono mica una bigotta», aggiunge, ma con quel suo incantevole sorriso che per me sta diventando il suo inconfondibile marchio.

«What, Me Worry?», penso intanto fra me come un idiota.

Improvvisamente, però, divento un po’ più serio. Guardandola intensamente negli occhi, con l’acqua che ci ricopre fin quasi all’altezza delle spalle, la prendo deciso per la vita e l’avvicino a me, mentre il mio sesso si spinge sempre più verso di lei.

Anche Alx ora non ride più. M’accorgo che si sta emozionando, e allora più deciso la bacio di nuovo e quasi smodatamente in bocca.

Mentre le nostre lingue si toccano e si rincorrono, sento ora la sua mano scivolare deliziosamente sul mio sesso, ormai inesorabilmente eretto. La guardo negli occhi stupito ed estasiato e, baciandola sugli occhi, le infilo una mano nello slip, accarezzandole dapprima l’orifizio anale e, con più passione e piacere, il clitoride. Alx ha le palpebre socchiuse e, con la mia lingua leggermente insinuata tra le sue labbra, stiamo piacevolmente godendo l’ebbrezza di questi piccoli preliminari.



ndr - Interferisco qui per precisare che l’uomo che narra è ora completamente in preda alla sua follia. L’ho lasciato andare per far sì che si veda in ciò che scrive il livello di abiezione cui M era giunto già in giugno. Da quel che s’intende, da ciò che scrive e pensa, il suo pensiero, o il suo modo di ragionare, tende solo a raggiungere e soddisfare il suo senso carnale (o sensus carnis, come lo chiama nel testo) costi quel che costi.  D’altronde, pur citando spesso e con dovizia Joyce, M non riesce a dare significato umano né credibilità artistica a quel che scrive. Frasi tratte dall’Ulisse, certo, ce ne sono molte, e alcune anche simpatiche perché fantasmagoriche, ma cadono sempre nei momenti in cui l’argomento sesso domina e la fa da padrone.

Ad esempio, quando più avanti M si troverà immerso nei meandri del corpo di questa giovane donna e esclamerà o sussurrerà al suo orecchio, come riporta nel racconto, frasi del tipo: Sweet eyes.. Soft soft soft hand.. I am lonely here.. O, touch me soon, now.. I am quiet here alone.. Touch, touch me.. [4], si intuisce e si deduce chiaramente il grado d’imprudenza e impudicizia cui M è giunto; ed anche solo pensando all’idea che gli è venuta poi di scriverlo.. e in quei termini così dettagliati!

Lo lascio dunque proseguire per capire ancor meglio.



Lentamente sprofondiamo in acqua, ma il freddo pungente ci fa subito riemergere.

«Je mi zima Em.. Ho freddo», mi dice Alx tremando.

«Usciamo dai, che qui ci prende un accidente», le dico sfiorandole veloce il braccio sinistro.

L’Ulisse, intanto, sembra scomparso dal mio orizzonte.

«Ineluctable modality of the visible: at least that if no more, thought through my eyes», riesco però rapidamente a dire all’improvviso e, inavvertitamente, ad alta voce.

«Almeno questo, se non altro, il pensiero attraverso i miei occhi»; così mi recito di nuovo il Telemaco pensando al bardo gesuita che, in riva al mare, toccando con mano e con dispregio del posticcio materiale organico marcio e in decomposizione, impazzirebbe se vedesse e toccasse con mano il corpo splendido e vivo di Alx.

Di corsa verso le nostre cose, in fretta cerchiamo di asciugarci.

«Asciugati mia piccola Gerty», le dico balbettando vedendo le sue labbra diventate ormai viola e farfugliando un po’ pensando ora a quel Mr Bloom che, alle otto di sera, passeggiando ai margini della spiaggia di Sandymount, si trova improvvisamente di fronte alla divina ed eroticissima bellezza di Gerty MacDowell e, pare, secondo le parole di Joyce, provandone infine un piacere celestiale.

Tremando ancora rapida Alx comincia ad asciugarsi, avvolgendosi con grazia nel suo grande asciugamano.

«Vien qui scemètto che t’asciugo.. Stai tremando tutto», mi dice sorridendomi e tremando anche lei.

Con un po’ d’imbarazzo, dovuto sia all’emozione che al comprensibile stupore che provo davanti a tanta bellezza, m’avvicino a lei che, con una dolcezza sorprendente, comincia ora ad asciugarmi carezzevolmente il viso, le spalle e il petto. Non riesco a trattenermi e la bacio di nuovo. Mi sorride ancora, ma Alx ha ora un sorriso di una bellezza disarmante.

D’un tratto, Alx apre il suo asciugamano e abbracciandomi cerca di avvolgermi vicino a sé.

Emozionati, ci sediamo allora sulla sabbia e, avvolti nell’asciugamano, cominciamo a baciarci e a leccarci le labbra, così come capita. Lentamente ci adagiamo sull’arenile, continuando a baciarci. Le nostre lingue ora deliziosamente si rincorrono e si cercano sempre più freneticamente. Per fortuna ci sono pochissime persone, e piuttosto distanti; nessun bambino, grazie a Dio.

«Un matto.. io un matto come te non l’ho mai conosciuto», mi dice dopo un po’ la Kles, ridendo e restando dolcemente con le sue labbra sulle mie.

«Amore..», provo a risponderle cercando però di non farneticare; «io.. io una meraviglia come te non l’ho mai conosciuta», riesco a dire senza perder troppo il mio controllo emotivo.

«Ma dai.. vuoi prendermi in giro. Lo dici solo perché mi vuoi bene. E poi me lo dici.. perché sei matto», mi dice la Kles quasi senza senso e un po’ malinconica. Ma all’improvviso un bacio di una dolcezza senza eguali si stampa tosto sul mio viso, scuotendomi l’anima e facendomi vibrare forte il cuore.

«Viene a casa mia?», mi chiede improvvidamente Alx con quel suo accento meraviglioso che ora mi sconvolge. «I miei sono a Praga». E tutta rossa sussurrandomi aggiunge: «I want to make love to you; Chci se milovat! Chci mít sex! souložit! Voglio scoppare con te..», pronunciando ancor più sottovoce, forse tradita dall’emozione, quelle due pi che, anche se in genere se ne pronuncia una sola, solo per il loro particolare suono, ora mi scuotono e sovvertono i sensi.

«Ho capito.. vuoi farmi innamorare. Vuoi divertirti a farmi impazzire per te. È questo che vuoi.. mio dolcissimo fiore di montagna?», le dico cominciando con evidenza a farneticare.

«Ma dai.. Non ti mangio mica..», mi dice sorridendomi molto e banalizzandomi un po’.

Estasiato da tanta bellezza, riprendo così ad accarezzarle i capelli, baciandole delicatamente il naso, le labbra, gli occhi e ancora le labbra.

Sicura ormai della mia arrendevolezza di fronte alla sua sconcertante bellezza, Alx mi dice convinta e con aria decisa: «Dai Em.. Prepariamoci, andiamo».

In fretta, e ancora un po’ bagnati, ci vestiamo e, anche se piuttosto scoordinati, ci sfioriamo e ci baciamo continuamente.

Durante il tragitto verso la macchina, poi, ci fermiamo spesso per riprendere a baciarci e assaporarci ancora. Le nostre lingue, infatti, riprendono freneticamente a cercarsi, col grave rischio di lasciarci andare all’istinto e forse cominciare follemente ad amarci. Ci tratteniamo, dunque.

Ma come entriamo in macchina, un altro forte e incontrollabile accesso di passione ci travolge. Difatti, riprendiamo a toccarci e a baciarci dappertutto. Ci ritroviamo così di nuovo seminudi, perché Alx, già abbastanza discinta (ha i suoi splendidi seni completamente nudi e carezzevolmente sul mio viso), è ora a cavalcioni su di me e cerca, come può, di spogliarmi fremendo.

Presto ci accorgiamo dell’impossibilità di un amplesso vero e pieno: ci sciogliamo.

Alx, dunque, rimessasi sul suo sedile, rapida si ricompone, assumendo anche lei un’espressione semiseria.

Ad un certo punto, però, scoppiamo a ridere a crepapelle come due matti. Ridiamo e insieme ci baciamo; e qui assaporo meglio il profumo del suo alito, il sapore della sua saliva e l’odore sublime del suo sudore, che ora mi esalta e mi eccita come nessun’altra cosa al mondo.

«Sai Em?», mi dice Alx con voce più seria e l’aria un po’ stupita. «Forse non ci crederai.. ma poco fa ho avuto un orgasmo. Non ci credi, vero? E allora toccami.. E dai toccami, ti prego.. », mi dice sbalordendomi un po’.

Così, allora, m’avvicino a lei e accarezzo il suo sesso, notando effettivamente come sia splendidamente piena d’umore. Il fatto è che ora non riesco più a ritrarmi da lei, tanto è il piacere di sentirla godere sotto i miei polpastrelli. Infatti, mentre comincio a giocare con lei con le dita, Alx riprende di nuovo a godere, cercando di assumere, sollevando il bacino, una posizione più comoda per questo piccolo amplesso.

In balìa del desiderio, però, m’inchino ora verso di lei e, dirigendomi col viso sul suo sesso mentre penso Shut your eyes and see.. Shut your eyes and see.., finalmente riesco a baciarla, leccarla e succhiarla con tutto l’amore di cui son capace e riuscire a sentirla sensibilmente mia.

Calvo egli era e milionario. Maestro di color che sanno’, ‘son qui per leggere le segnature di tutte le cose’, continuo come uno sciocco a pensare; e m’accorgo con fastidio che Dedalus, o chissà quale altro diavolo, è ora qui con me.

E mentre la Kles grida piano: «Můj bože.. můj bože.. what a day.. i love you.. je t‘aime..» e mugola di piacere accarezzandomi i capelli, penso e mi chiedo: «‘E se ora cadessi da una roccia che strapiomba sulla sua base..’ non m’importerebbe nulla.. mi lascerei cadere. Ma perché Stephen sulla spiaggia di Sandymount pensa e cita Amleto? Che c’entra.. che c’entra qui la messa in guardia di Orazio sull’improvvida decisione del principe di seguire fin nello sprofondo lo spettro?».



ndr - L’ho lasciato narrare fin qui per far notare al lettore il serrato intrecciarsi tra argomento erotico e argomento letterario, che, a quanto pare, M mischia e combina tra loro solo per giustificare e quindi difendere la sua ormai fin troppo immaginifica concupiscenza, ora giunta, con evidenza, al suo massimo grado.

 Non posso dunque non intervenire, perché da qui in poi son stato costretto a operare dei tagli, e alcuni dei quali anche molto significativi per capire lo stato psichico dell’uomo e quanto di patologico v’è scritto qui in questo racconto. Ciò non toglie, che abbia deciso lo stesso di tagliare: è la mia dignità morale che me lo impone.

Tra l’altro, tra queste righe, anche se ricorrono spesso rimandi ai personaggi maschili dell’Ulisse, ci si accorge subito che di loro ad M non importa nulla e nulla ha a che vedere con lui la loro storia. Ad esempio, quando M fa commenti su Mr Bloom, mediocre impiegato trentottenne blandamente ebreo, si percepisce, è vero, che ne prova simpatia, ma niente di più. Dell’altro, poi, del Dedalus, non dice un granché, considerandolo solo un po’ infantile, e forse anche un po’ stupido. Della donna, invece, forse per il suo nome ‘fatuo’ - così M s’esprime nel testo - o per la sottile eroticità che trabocca dal suo monologo finale (‘una grandiosa architettura mentale’, fu il suo commento critico), M ne parla ampiamente e con una dovizia di particolari quasi maniacale. D’altronde, alla libreria Mondadori, nel momento in cui si prepara ed è in procinto di rubare il libro subito dopo aver letto il mellifluo finale dell’Ulisse, scontrandosi fisicamente con la direttrice-proprietaria che, dopo aver intravisto sui monitor delle videocamere la rapidità dei suoi movimenti gli si stava avvicinando per veder meglio cosa stesse facendo, M le palpa clamorosamente e voluttuosamente il seno ripetendole svenevolmente in faccia l’ultima frase che aveva letto: «yes I said yes I will Yes».

La donna, peraltro, s’era avvicinata a lui solo perché incuriosita dal modo con cui M sfogliava nervosamente e con fare convulso le pagine del libro. Difatti, aveva un non so ché d’elettrico nel modo di muovere le dita e quando ‘sentì’ che la donna gli si sarebbe avvicinava per dirgli qualcosa, improvvisamente le fu subito fisicamente addosso. D’altronde, dicendole quelle frasi sconnesse, aggiungendovi quella ancor più incomprensibile «and drew him down to me so he could feel my breasts all perfume», sembrava che M volesse nientemeno che annusarle il seno: così disse la donna, che si ritrovò il naso di M fluttuare tra i suoi capelli e a quattro o cinque centimetri al massimo dal suo collo. 

Ma la cosa ancor più sorprendente fu che il libro che M aveva avuto fino a quel momento tra le mani improvvisamente scomparve. Proprio così: quel libro letteralmente scomparve.

«Ventotto euro.. Pazzo!», fu il commento un po’ banale ma molto irritato e preoccupato del medico pediatra.

Scacciato in malo modo dai commessi della libreria e sotto la minaccia di denuncia per molestie sessuali, M si ritrova così a girovagare tra i viali del parco dei Daini, raggiunto dopo aver percorso tutta via Piave, via Isonzo e un tratto di via Po.

Il fatto è che, al momento del furto, mentre fingeva di voler annusare il seno della donna creando in essa un certa apprensione e un po’ di scompiglio nella libreria, rapido M s’infilava il libro tra la cinta dei pantaloni e la zona lombo-sacrale.

«Elle cinque esse uno! Mai sigla osteo-articolare ha avuto un senso e un significato così magicamente poetico e magnificamente letterario!», fu il suo stupido commento quando, seduto allegramente su una panchina, riprendeva a sfogliare l’Ulisse.

Dopo esser stato costretto a tagliare, e spero con attento e sincero discernimento, perché un conto è cercare di capire una malattia, un conto è voler morbosamente attaccarsi alla vita degli altri, qualsiasi essa sia, provo dunque a riagganciare qui la narrazione di M, dove alcuni dettagli, dopo averne letti tanti, credo, non vengono più a turbar l’animo umano di chi legge. Lo faccio così riprendere da dove l’avevo lasciato.



Ma lo splendore di assaporare il suo sesso, e il piacere che provo nel sentirla godere, ora è tale che non riesco più a controllare e frenare il mio desiderio di immergermi in lei.

«Shut your eyes and see», mi dico ancora sottovoce quasi senza pensare.

Riprendo a scandagliare il suo sesso. Lecco e succhio quanto più possibile del suo clitoride e della sua fica meravigliosa e, finalmente sazio e pieno di lei, un po’ sudato e tutto rosso in viso, provo a rimettermi al mio posto, anche se ora completamente sconnesso e fuori di me.

Con il meraviglioso sapore del suo sesso in bocca, il suo sorriso davanti ai miei occhi, i suoi baci e i suoi capelli carezzevoli sul mio viso.. provo così a ricompormi.

Lentamente riprendo a pensare.



Taglio le parti un po’ più spigolose, che sono poi quelle in cui il medico pediatra o soleva ridere a crepapelle o arricciava il naso, a seconda di quel che in quel momento gli veniva in testa leggendo.

Ma quel che pensa M in quel momento, quando descrive ‘naturalisticamente’ le sensazioni provate, esula dal tema del nostro discorso principale, che non è quello d’indagare l’animo umano per dargli poi una nostra spiegazione magari sbagliata, ma di capire quale motivo possa essere all’origine della sua strana malattia. D’altronde, l’intento che ci guida è sempre stato quello di capire e riportare M alla serenità: niente di più; niente di meno. E se pure ciò che M scrive può sembrar pura follia, è sempre possibile dire che M ha scritto sempre e soltanto per sé.

Riavvio, dunque, la narrazione di M, tralasciando ovviamente le scemerìe che seguono dopo il primo amplesso.



Colmi di piacere per aver riso tanto e baciandoci sempre, ci sciogliamo di nuovo.

«Em.. Andiamo a casa mia..  I want to make love to you». Così mi chiede Alx all’improvviso con aria più seria e quasi impaziente.

«Sì.. Yes!», le rispondo avviando il motore della macchina. «Il mio primo Yes!», penso.

Arrivati a Roma, in un grazioso palazzetto di via Po saliamo veloci all’ultimo piano.

«La sera estiva stava cominciando ad avvolgere la città nel suo misterioso amplesso; così apre il Nausicaa», mi dico stralunato vedendo e ammirando dall’alto il parco dei Daini ora avvolto da un luce un po’ più crepuscolare.

«Non far caso al disordine.. Non ho fatto in tempo stamattina a sistemare», mi dice Alx sorridendomi e baciandomi in punta di piedi aprendo la porta di una mansardina contigua all’appartamento dei suoi, impiegati d’ambasciata, credo, ancora inondata di sole.

Al centro della stanza, un letto alla francese, con delle lenzuola candide e profumate del suo odore, mi accende e mi fa vibrare forte nel corpo.

«Ma che profumo che c’è qui!», esclamo per sciogliere un po’ la situazione.

«Dai.. vien qui scemètto.. facciamo una doccia, Mr Em», mi dice sottovoce Alx baciandomi, carezzandomi dove le capita e tirandomi verso di sé prendendomi per mano.

Mentre ci spogliamo, seri cominciamo a guardarci un po’ più intensamente nei corpi. Finalmente nudi, ci guardiamo di nuovo; e in un attimo siamo vicini, l’uno accanto all’altro.

Mentre le accarezzo i fianchi e i seni, Alx accende la doccia. Ma un violento getto d’acqua fredda improvvisamente c’investe in pieno, togliendoci il respiro. Un po’ scossi, tremiamo e ridiamo convulsamente, mentre il mio sesso ha già raggiunto una certa consistenza.

«Scusami Em.. Ho premuto acqua fredda!», mi dice Alx ridendo nervosamente come una matta ma tornando subito seria accorgendosi emozionata della mia subitanea erezione. Immediatamente allora m’abbraccia, mi stringe forte a sé e al suo corpo e prende a baciarmi con ardente trasporto in bocca.

E così, umanamente e sensibilmente cominciamo ad amarci.



ndr - Tralascio, da qui, quanto scritto dopo da M, anche se più avanti c’è una dettagliata e bellissima e divertente descrizione toponomastica del percorso che da salita Trevi a via Venti Settembre, passando e commentando su sant’Andrea, san Carlino, il Quadrivio Sistino e s. Maria della Vittoria, porterà M in via Piave.



«Alle diciannove in punto, a piedi, sono alla Mondadori».



Così finisce la prima parte del racconto di M.

Della seconda parte, quella riguardante il furto del libro, di cui in parte è stato già narrato, che esula però dal tema del nostro discorso principale, che non è quello d’indagare su come certi vizi vengano alimentati ma piuttosto capire perché quest’uomo sia giunto a sì grave malattia, non trascriverò nulla, anche se se ne può dedurre facilmente la conclusione. Al parco dei Daini, infatti, dopo esser fuggito, o esser stato scacciato a malo modo (il ché fa lo stesso) dalla libreria Piave, attratto dai riflessi del sole al tramonto, «coi suoi raggi orizzontali che tagliano le ombre e ti si ficcano negli occhi e nel cuore..».

Ma mi sembra inutile proseguire qui con il racconto di M, quando ormai s’è giunti alla conclusione dell’enorme indifferenza e irresponsabilità che M ebbe riguardo i suoi comportamenti e le terribili conseguenze che ne seguiranno.




[1] Il ventottesimo, ossia il penultimo della prima infornata e poco prima del Finnegans.
[2] Alla presentazione di un libro alla Sala del Carroccio, in Campidoglio, con discreto entusiasmo così s’espresse: «Amo questa scrittura, questa letteratura così vintage!». Ma la cosa che più mi sorprese, e a lungo mi rimase in mente, fu il modo con cui quella bellissima donna aveva usato quel verbo, ormai caduto quasi in disuso e che, almeno a me così sembra che sia, quasi nessuno è più in grado di usare con intelligenza.
[3] Le vocali sono graziosamente sempre aperte; un accento che, se accompagnato dal suo splendido sorriso, metterebbe in moto a chiunque il desiderio di voler fare l’amore o del sesso con lei.
[4] Ma a legger bene, non son forse le stesse divagazioni erotiche di quel Mr. Bloom che, in un bordello dublinese, in preda alla sua lascivia così s’esprime?




Dulcinea del Toboso IX

(Dissolution)



the dissolution of M



ndr - Ed ora non mi resta che raccontare della stranissima e rocambolesca sparizione di M che, se paragonata anche solo alla più irragionevole delle mille stravaganti e surreali traversie del cavalier manchego, renderà ancor più evidente l’assurdità di questa storia.

T’avevo lasciato, paziente e attento lettore, al punto in cui avevo deciso di far parlare M con i suoi scritti (quasi tutto il capitolo precedente) affinché si sapesse del contesto psicologico e della condizione mentale in cui già versava poco prima d’essere rinchiuso in manicomio e, già dalle prime prescrizioni e previsioni, per un lungo periodo.

Riconosco fin d’ora di non essere stato un’abile guida capace di risparmiarti l’esperienza di seguire tratti aridi e tortuosi giri traversi che caratterizzano la scrittura di M[1]; ma non so se si poteva far meglio, perché effettivamente seguire l’animo umano è sempre prova difficile e controversa. Adesso, però, tenterò, almeno in parte, di riparare alla fatica che t’ho procurata per farmi seguire fin qui e far sì che queste ultime pagine siano meno disordinate e vaghe quanto piuttosto chiarificatrici di tutta questa allucinante vicenda.

D’altronde, nessuno sa, se non io, come M riuscì ad eludere i controlli della clinica in cui era ricoverato e dunque eclissarsi e letteralmente a scomparire. Il dottor Mentòre diceva che qualcuno, forse, lo aveva aiutato, senza però pensare che nessuna comprensibile traccia - almeno secondo quanto scritto a verbale dagli agenti di polizia penitenziaria che avevano effettuato i rilievi - era stata lasciata da M o da chicchessia.

Le righe che seguono possono però far luce sul perché M è scomparso e quali preoccupazioni potevano essere nella sua testa quando apprese dal fratello che, per almeno sei mesi, sarebbe dovuto star rinchiuso in quella clinica in cui era stato ricoverato senza poter leggere, scrivere o ascoltare musica.



«S’alimentava a vino rosso e cioccolato.. continuamente.. E non mangiava altro?», chiese dunque Fabrizio al fratello e alla moglie di M che gli raccontavano di come si svolsero i suoi ultimi giorni agli arresti domiciliari poco prima d’essere ricoverato.

«Un mix perfetto per chi vuol morire lentamente.. e, forse.. per meglio assaporare la sua fine..», fu il sarcastico e poco assennato commento finale del medico pediatra davanti alla moglie e al fratello gemello di M che lo guardavano, seduti in poltrona, mentre lui, ancora in piedi e molto rosso in viso, parlava e si muoveva con fare convulso e agitato.

In realtà, Fabrizio cercava solo di spiegare ai due che quel che lui aveva letto di M non era solo frutto d’una mente malsana. Logica perfetta, e una certa ‘geometria’ v’era, per lui, in quasi tutti i suoi scritti; checché ne potesse pensare Mentòre. «Quel mentecatto di merdra»[2], aggiunse un po’ sottovoce e con tono di dispregio il medico pediatra amico di M.

«Cosa ancora inspiegabile, infatti, è che, eccettuate le scemerìe che tuo fratello può dire e scrivere di sé e della sua singolare malattia, se si tratta d’altre cose, ragiona con ottimi e distesi argomenti e dimostra in modo assoluto d’avere un’intelligenza chiara e equilibrata. Dunque, purché non lo si guardi nella sua mania, o quando scrive sotto l’effetto e l’urto della sua fissazione, non ci sarà nessuno che non possa giudicarlo uomo di gran buon senso». Questo aggiunse infine, esausto, il medico pediatra in faccia al fratello gemello di M che, attento, lo guardava sconcertato.

«Vado in bagno», aveva concluso il medico.

«Sembra che reciti.. Davvero! Pff.. Questo coglione.. recita!», fu il commento sprezzante e sarcastico del fratello gemello di M che, alzandosi nervosamente dalla poltrona, aveva cominciato a sbirciare anche lui tra gli ultimi appunti del fratello raccolti nel fantasmino.

«E poi.. parla come M.. Fabrizio parla come tuo marito; non te ne sei accorta?», aveva aggiunto con tono tagliente e subdolamente velenoso.

«Gli ha sempre voluto bene.. e questo conta molto», rispondeva la donna leggermente impassibile.

«Ma cosa ha combinato? Che cosa ha scritto di tanto indegno o di così folle per essere ricoverato in manicomio? Sempre attento alle virgole.. sempre pieno di sé e presente a se stesso.. M sarebbe dunque impazzito.. così, d’emblée. Incredibile, mio fratello è impazzito.. E per cosa? E poi sarebbe diventato matto solo a giudicare da quel che scrive? Pff.. merdre», fu l’ultimo commento molto esacerbato del gemello di M, i cui gesti ed espressioni verbali ricordano ora alla donna i gesti e le espressioni del marito ma, e sia detto molto en passant, senza l’eleganza dei modi di lui.

Ma poco prima della sua scomparsa M aveva scritto al medico psichiatra una missiva (e qui il plagio sembra essere il suo forte, perché sembra che a tratti M riporti intere frasi del Chisciotte)[3], che la mattina seguente il dottor Mentòre aveva trasmesso al fratello e alla moglie di M insieme alla notizia della sua sparizione. La lettera, in quel momento in mano al fratello di M che l’aveva sfilata dal fantasmino, suonava dunque così:



roma, el dìa martes, el primero de diciembre ad mmxv

gentile prof. Claudio Mentòre,

posso già immaginare il suo stupore dopo aver letto le mie mirabili note che, dietro sua incomprensibile richiesta, e senza dirmi nulla, mia moglie o mio fratello le hanno consegnato.

Potrei qui discutere del metodo o della deontologia che appare dietro il vostro procedere, ma quel che però ora più mi preme farle sapere è che son più di quattro anni che scrivo regolarmente su tutto quel che mi accade e vivo a livello emozionale e che riguarda quel che m’è successo, ma che, mio malgrado, non riesco ancora, pur sforzandomi, razionalmente a spiegarmi.

Ovviamente, potrà sembrarle stravagante e forse anche un po’ banale quel che scrivo; ciò nondimeno le anticipo che tutto quel che riguarda la mia stramba fissazione trova conferma nella mia scrittura, sia nel modo in cui scrivo che di quel che scrivo. Certo, non credo sia facile, leggendomi, capire l’evoluzione psichica di un soggetto ormai da un bel po’ fuori di sé; però, con piccoli passi, e magari seguendo il dsm-iv, il vostro grimoire, la vostra bibbia, lei saprà trovarne certamente una spiegazione[4].

Le faccio dunque una piccola cronistoria di come è andata evolvendosi la mia pratica scribale, o meglio, di come, con le mie circonlocuzioni verbali da immaginifico e smarrito autobiografo alla ricerca di sé, ho tentato di esprimere me stesso e la mia malattia scrivendo. 

Dapprima, cominciai a farneticare sulla mia sofferenza cercando inutilmente di spiegarmene l’origine, ma senza riuscire a capirla e trovare il modo di come superarla. Pensai allora al suicidio; cosa che per lei sarà indubitabilmente conseguenza, spiegazione e ragione prima della strana follia a cui son giunto e di cui quasi tutti, e mio fratello in primis, ormai si son convinti.

Ora però, se mi permette, primariamente e seriamente le chiedo: ma lei, dottore, è in grado di capire quel che dico? È in grado di percepire che già da qualche anno io non esisto più? Che sono già scomparso? Che anche se lei in questo momento mi vede e parla, e presto darà la sua scientifica interpretazione sulla mia prossima sparizione, io sono già morto? Nevvero che lei comprende tutto questo?

D’altronde, per trovare una soluzione, dopo tre anni di angosciosa e maniacale trascrizione della mia follia cominciai a rubar libri per farmi arrestare, con l’incomprensibile speranza che, forse, con l’isolamento e scrivendo, sarei riuscito a superare questo stato di prostrazione e di sofferenza che ancora mi opprime.

D’altro canto, di quel periodo funesto, ebbi anche la tentazione di scriverci un racconto o, peggio, un romanzo, osservandovi tutti quei principi che son previsti per scriver bene libri e così provare a dar forma e ‘visione’ alle mie terribili e sempre più insostenibili angosce.

Confesso che, per la verità, di questo racconto ne avevo già scritte quasi cento pagine. E per provare poi se quei principi corrispondessero a quelli che pensavo io, le feci leggere a persone che potessero essere attratte da questo tipo di letture, sia a dotti che a semplici, che magari badano solo al piacere di sentir cose stravaganti, e da tutti indistintamente riportai lodi lusinghiere.

Ciò nondimeno non son voluto andare avanti, sia perché mi pareva cosa aliena da me, che matto non lo son mai stato, sia perché vedevo che erano solo gli sciocchi che v’esprimevano un parere ed io non volevo sottostare al giudizio incerto di questi.

Ma ciò che soprattutto mi tolse il pensiero e il piacere di finirlo, fu infine il ragionamento: da ciò che scrivo, traspare l’animo mio; il che può far ridere o piangere, e quindi espormi o alla burla o alla commiserazione, secondo il gusto di chi legge le mie apparentemente ben congegnate assurdità.

Decisi, dunque, di distruggere tutto quel che avevo scritto, cercando poi di consolarmi con altri scritti di più ameno e piacevole contenuto. Il fatto è che dopo questo cambio di registro, più scrivevo di cose amene e banali, più sentivo che lentamente stavo cessando di esistere. Certo, in quel periodo cominciai anche a ridere di me e della mia malattia, cercando di rendere, nella scrittura, la banalità della vita che ormai conducevo.

Alla fine interruppi quell’inutile e insensato intermezzo e ripresi a scrivere del mio dolore che, e solo in quel momento cominciai a rendermene conto, aveva origini molto più profonde di quanto fino a quel momento avevo pensato. Scrivendo, cominciai allora a prendermela con mia madre, su cui scaricavo ferocemente tutte le colpe e le responsabilità della mia infelicità.

Devo dire, però, che la cosa, con mia enorme sorpresa, cominciava a attenuare la mia sofferenza. Così continuai, fino ad arrivare a scrivere cose di una crudezza inimmaginabile. Amavo mia madre, ma in quel momento, in quel che scrivevo, cercavo di renderla vittima e insieme partecipe consenziente dei miei più turpi e crudeli piaceri. E poi, cosa a cui lei saprà dar certo una scientifica spiegazione, godevo profondamente nel farla godere di me e soffrire per me.

Finalmente smisi di scrivere di mia madre, anche se a volte mi masturbavo ancora pensando intensamente a lei. Riuscivo, in tal modo, e inspiegabilmente, a curare in parte qualcosa della mia incomprensibile malattia.

Queste, dunque, sono le ragioni per cui ho voluto scriverle, perché le torneranno certamente utili quando vorrà dare una spiegazione alla mia sparizione. Vale.



ndr - Allegato alla missiva, come accennato, e anch’esso scritto a mano su carta intestata dell’ospedale, seguiva, forse a giustificazione o a difesa della sua non molto comoda posizione, un breve appunto di Mentòre per il gemello e la moglie di M sulla sparizione di Em:



gentile dt. M,

gentile signora,

nonostante abbia appreso in leggero anticipo, con la lettera che vi allego, delle intenzioni del vostro congiunto, e dopo averne informato il tribunale di sorveglianza e allertato gli infermieri di reparto, stanotte il signor M, almeno così sembra che sia, è scomparso.

Quel che appare ancora inspiegabile è come possa essere successo, perché s’era pronti ad intervenire e fare in modo che il paziente non mettesse in atto i suoi propositi.

D’altra parte, ieri sera, fino a circa mezzanotte, l’avevano visto sereno e quasi sorridente che guardava fuori dalla finestra.

Confidando nella vostra collaborazione nel ritrovare e curare il signor M, invio cordiali saluti.

Prof. Claudio Mentòre neuropsichiatra. Addì, 2 dicembre 2017, dall’Ospedale Divino Amore in Roma.



«Quindi Mentòre sapeva già da ieri che M sarebbe scomparso. Che misero! Che inetto.. dicck head.. shit.. fface», fu il commento acre e freddo del gemello di M.

«Ma Fabrizio ha letto questa lettera? Ieri sera, guardando M e vedendolo che si muoveva tutto storto, non volevo riportarlo in clinica. Mi faceva pena.. e paura. Cosa strana, è che avrei voluto abbracciarlo per rassicurarlo.. ma non ci riuscivo, tanto ero disgustato e profondamente impressionato da lui», concluse infine, teso e preoccupato, il gemello di M.

La mattina stessa, tra l’altro, un paziente cronico completamente fuori di senno e forse amico di M, incontrandolo alla reception così gli si era rivolto, con gli occhi sbarrati e completamente fuori dalle orbite: «Dove te ne sei involato ieri sera?!». Inoltre, a detta di un’infermiera, pare che qualche ora prima della sua sparizione M avesse rimproverato ferocemente al dt. Mentòre la distruzione di tutti i suoi libri: d’altronde, glielo aveva comunicato tra le lacrime la moglie quella mattina stessa, per cui M aveva scritto allo psichiatra [la lettera testé menzionata e trascritta - ndr]. «Stupido idiota», sembra poi gli avesse detto incontrandolo in corridoio; e pare anche dicesse di volerlo uccidere con le sue mani e che fosse in grado di poterlo fare se l’infermiera non si fosse messa a piangere terrorizzata. D’altronde, la forza e la determinazione che in quel momento M sprigionava ben giustificava il comportamento della donna, che pare fosse l’amante dell’anzidetto medico psichiatra; e, per pena degli amanti, M soprassedette, sorrise alla donna e, per tranquillizzarla, le chiese banalmente una Gauloise, la marca delle sigarette ch’egli stesso fumava.

Il fatto è che la sera poco prima della scomparsa di M[5], ci fu un rapido e sintetico colloquio tra i due gemelli, e fu M, piuttosto infastidito dall’inaspettata presenza del fratello a Roma, ad aprire con eccentrico frasario le danze. 

«E quella blonde girl londinese, quell’incredibile bellezza che t’accompagnava l’anno scorso qui a Roma e che cercavi di non farmi vedere, come sta.. che fine ha fatto?». Così M s’era rivolto al fratello mentre, intento a preparare con cura le sue cose, provava a farlo ridere un po’ sperando di non uscir troppo male dalla strana e imbarazzante situazione in cui egli stesso si era cacciato.

«Da quando sa che sei mio fratello gemello - rispose il fratello di M leggermente ridendo - Helen legge tutto di te, perfino le puttanate che pubblichi su quella stupida rivista online; quella di letteratura erotica, per intenderci. Poi, la bimba, vuol raccontarmi; ma io non la sto a sentire. Difatti, le dico solo: ‘Fai il tuo lavoro[6] e non mi scocciare con queste baggianate, che è già troppo che quell’idiota l’abbiano messo in manicomio per star anche a sentire te che parli di lui e della sua shine, della sua brightness’. Proprio così: ancora parla di te e di quel che scrivi usando spesso termini come ‘lucentezza’, se non addirittura di ‘splendore’. È impazzita.. è impazzita anche lei, leggendoti; come te, d’altronde, che sai scrivere solo scemenze. Da allora, infatti, non scopiamo più. Per colpa tua.. eh, eh, eh.. per colpa tua. Sei contento, eh! vecchio lurido bastardo? E dice anche che sei più bello di me; bah.. che stupida! E poi, dice che le piacciono molto i tuoi quadri, quelle immani cagate con cui ultimamente hai riempito lo studio; con quei titoli così insensati, poi, che sfiderei chiunque a tirarne fuori uno straccio di interpretazione». M ascolta in silenzio, mentre guarda il fratello negli occhi senza ormai ridere più.

«Ma a tua moglie piacciono i tuoi quadri? Ieri, guardandoli, sforzandomi di capire qualcosa di te e di quel che t’è successo, il mio primo impulso è stato quello di andare al cesso. Che consolazione, vero? E volevi anche che t’aiutassi a piazzarli a Londra! Ma veramente sei diventato matto? E cosa significa poi ‘Den Mutter!’?.. quel titolo in tedesco di quello sgorbio incomprensibile che ultimamente hai fatto? E perché ‘Madri’ in tedesco, lingua di cui non conosci un’acca? E quel titolo in francese di quel quadro tutto nero? ‘Ighitur, o la follia d’Egmont’.. Ma cosa vuoi dire? Che cosa vuoi significare?! Ma tu sei tutto matto.. ma matto matto matto! Dai preparati, che ti riaccompagno in clinica. E poi tirati su! Riassestati, shit!.. rimettiti in ordine, perché più va avanti questa storia e più m’incazzo, perché tu così scemo non ti ci avrei mai immaginato».



ndr - Sospendo qui il resto della conversazione - che si svolge in bagno - perché le lacrime non mi consentono di continuare. Dico solo che il gemello di M, imprecando e coloritamente bestemmiando in inglese, rimprovera ora al fratello, ancora in quasi sacrale silenzio, quel che da perfetto fedifrago sta facendo vivere alla moglie e ai figli.

Il fatto è che due gemelli, in molte cose affatto simili e affini, sono ora due uomini completamente agli antipodi; così almeno in quel momento apparivano M e suo fratello in bagno: determinato, sicuro di sé e cinico, almeno all’apparenza, il londinese; smunto, depresso e quasi fuori di sé e morente, l’altro.

Provo, però, a riprendere e trascrivere la conversazione, perché da qui in poi si capiscono molte cose della controversa sindrome che può aver colpito M.



«E poi.. sei sempre a caccia di donne? Tua moglie non se ne accorge che non vedi che peli di fica? O si fida ancora solo del fatto che sei un imbranato? Però, più invecchi e più diventi concupiscente: confessa.. Pare che d’Albert t’abbia insegnato qualcosa. E leggi ancora Gautier? Ti piace ancora Théophile Gautier?», prosegue con arrogante superiorità il gemello di M.

«E Balzac? Flaubert? Racine? Una piccola regressione: alla scoperta del mistero intra-uterino del fanciullino che è in te. Tre anni fa leggevi solo Bachelard, Adorno, Gadamer, Chomsky.. ed ora.. Gustave Flaubert!», grida piano fingendo, alzando un indice, di fare una piroetta facendo sorridere leggermente il fratello.

 «Pare che il tuo amico sia rimasto molto impressionato dalle sottolineature e dalle note che hai fatto su tutti quei libri. Forse non lo sai, ma gli è stato anche chiesto, da Mentòre e da tua moglie, di dar fuoco a tutto e, a quanto sembra, pare l’abbia fatto egregiamente. Però, prima d’incenerirli ne ha preso nota in un suo book of memoires: così l’ha chiamato ieri sera ridendoci su. T’hanno così bruciato i Joyce, i tuoi Duchamp, i Pessoa e chissà quant’altra tua roba hanno dato alle fiamme. Fra un po’ la stessa sorte toccherà ai tuoi quadri e forse anche a te. Ma ancora non hai capito che devi scomparire? Tu, così come sei, devi scomparire! mettitelo bene in testa!

«E poi li rubi. Dal verbale dei carabinieri sembra che ne hai rubati almeno una trentina.. e sempre credendo di farla franca, anche quando, con tanto di riprese video, e pare che tu ne fossi consapevole e te ne divertissi anche tanto[7], avrebbero potuto sin da subito inchiodarti e ridicolizzarti. Ma perché li rubi? Perché rubi libri? Non hai più soldi? E perché volevi farti arrestare? Così almeno m’ha detto quel demente di Mentòre. Ma che t’è preso? Scemo!», aggiunge infine rabbioso il dottor M stringendo forte il fratello per il braccio e scuotendolo un po’.

«Ho visto, poi, che leggi Spenser e che addirittura lo rubi», prosegue con tono sarcastico il gemello di M. «In Inghilterra è ormai da secoli considerato una reliquia e tu, qui a Roma, lo esalti e lo osanni a tal punto da considerare il The Faerie Queene il più gran poema mai scritto; così almeno ha capito Fabrizio, che ha letto quasi tutte le tue stramberie. Bah! Ma lasciamo perdere.. tanto hai perso la bussola e non ti ritrovi più.. where are you? shit! Che pena!».

Da ciò che riferisce il fratello, pare che in quel momento, imprecando dapprima contro quel ‘farabutto’ di Mentòre e in parte anche verso l’ingenuità di Fabrizio, M ebbe un breve attacco d’ira; ma, ricomponendosi subito dopo, quietamente e seraficamente ebbe a dire:

«Non so se tu e mia moglie vi rendiate conto di quel che state facendo. A me sembra che dal momento in cui avete deciso di quel che sarà la mia prossima esistenza, ciò significa che per voi io non sono e non conto più nulla. Da questo momento, dunque, so che tu non moverai più alcun passo verso di me; ne sono consapevole, e ciò mi crea un disagio non indifferente. Sappi allora che sono anni che percorro strade che non son strade, sentieri senza traccia che non so affatto dove conducono e che, percorrendo anche vie traverse, ancora non riesco a chiarire una verità, anche se il tempo, che dicono riveli tutte le cose, ancora non me ne ha reso la benché minima ombra. Ciò nondimeno, io non dispero di liberarmene, perché sento che prima o poi troverò il modo».

D’altronde, in una lettera inviata al fratello qualche anno prima e risalente al periodo iniziale della sua malattia, M aveva anche cercato di darsi e dare una spiegazione al suo stato di prostrazione. Difatti, in quella lettera, poco dopo i suoi tradizionali convenevoli di rito, che come ormai suo solito si divertiva a riempire di inutili florilegi cervantini, M rese e scrisse questa sua importante confessione che provo qui a riportare quasi per intero, tanto è il senso di inadeguatezza e di galoppante follia che traspare dall’uso di certe parole ivi impiegate.



«Dunque, quel ventisette ottobre[8], con questa agitazione m’incamminai per tutto il resto della notte per le vie deserte del centro, finché all’alba, esausto e senza più orientamento, giunsi in un posto, certi prati che non so proprio da che parte di questa magica città stiano, e ne rimasi completamente incantato.

‘Forse - pensai - sono arrivato in quella radura che dentro di me andavo cercando, quella clairiére di cui parlava Marcel?’.

In quel momento, però, capii d’aver perduto il senno; e sento dentro di me che, da allora, non sempre ce l’ho intero e a volte così menomato e debole che posso far mille pazzie, come ripetere invano il nome dell’amor mio nel cuore della notte, immaginare d’averla accanto a me distesa sul mio corpo, immaginare di sentire l’odore del suo alito e il fresco sapore del suo sesso. Ma quando poi mi ritrovo in senno, sono così stanco e pesto che a stento riesco a muovermi e a respirare. Il fatto è, che da allora cominciai a non voler più guarire e neanche a morire.

D’altronde, avevo già letto qualcosa (nel don Chisciotte, mi pare) di quel che significa essere incantati, cioè esser presi dal desiderio più feroce seguito però dalla melanconia più nera per non averlo potuto soddisfare. Ma ora leggi ciò che sto provando a scrivere per calmare un po’ questa ancor troppo incomprensibile mia malattia».



Così M annunciava al fratello di aver cominciato a scrivere il suo grimoire facendogli leggere la breve e strana nota con cui lo avrebbe introdotto, e che la dice lunga sul grado di prostrazione in cui M era sprofondato:



«Quel che qui scrivo riguarda me, solo me..






[1] Tra l’altro, M, scrivendo, fa molti errori ortografici e sintattici, contravvenendo e distruggendo spesso anche la consecutio temporum. Ma gli ‘errori’, a volte, riescono ad esprimer meglio lo stato d’animo (per eccesso d’emotività, euforia o eccitazione) con cui M scrive. Tra le note alla sua traduzione dell’Igitur di Mallarmé Fabrizio, d’altronde, aveva letto l’appunto: ‘è più l’espressione fonica, o sonora, che  rende il significato emotivo di chi scrive’.
[2] Pare che, quando M gliene parlò, Fabrizio rimase molto entusiasta delle alterazioni fonico-verbali di tal Alfred Jarry, il cui Ubu Roi, insieme agli Exercices de style tradotti da Eco, erano tra le cose più esilaranti che M gli aveva recentemente consigliato di leggere, e meglio se in lingua originale.
[3] Pare che ultimamente, anche al fratello gemello, M parlasse e scrivesse (con mucho gusto, gli diceva poi) con frasi imparate a memoria tratte, appunto, dal Chisciotte.
[4] ndr - A quanto pare, i primi tempi della sua strana malattia M si dedicò all’analisi del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (dsm-iv), da cui trasse alcune indicazioni che, riportate in una sua vecchia nota, probabilmente M aveva recentemente ripreso e consultato, ma che però non riteneva sufficienti a spiegare la sua mania. In questa nota, d’altro canto, v’era scritto: «Non soffro certo di disturbo ossessivo-compulsivo di personalità, checché ne possano pensare autorevoli strizzacervelli per cui tutti, chi più chi meno, soffriremmo di questo disturbo. D’altronde, non son mai stato un bipolare, perché non alterno mai una condizione depressiva ad un’altra d’euforia e tutto si può dire di me, ma certo non che i miei comportamenti possano essere classificati come distonici, se non peggio, ‘aberranti’. Sì, è vero, piango spesso e, forse, posso essere affetto da quella stranissima sindrome chiamata ‘la malattia del fantasma’ che il dsm indica tra le sindromi culturalmente caratterizzate, perché ora le mie preoccupazioni si concentrano tutte sul pensiero di morte, che mi procura svenimenti, vertigini e allucinazioni, anche se però non perdo mai coscienza perché, al contrario, sono di una lucidità che a volte impressiona e sconcerta anche me. Ma ciò significa, e non riesco a rassegnarmene, che non sono ancora in grado di dare un nome alla mia incomprensibile malattia e che, forse, non guarirò più. E questo non mi rasserena per niente».
[5] Pare intorno a Mezzanotte, come riferiscono gli infermieri e alcuni pazienti.
[6] Il fratello di M è direttore, da circa dieci anni, di un importante hotel di Londra.
[7] Ripreso in una video-sorveglianza alla libreria Rinascita, pare che M salutasse verso la videocamera mentre s’imbragava i pantaloni con dentro il The Faerie Queene.
[8] La data dell’anno non appare, ma è probabile che la lettera risalga al 2011; presto chiederò conferma al fratello.
 

Dulcinea del Toboso X

(Epilogue)



a ddt



 Of all tales ‘tis the saddest - and more sad,

Because he makes us smile

(Lord Byron, Don Juan, Cant. XIII, St. IX)



Quel che segue sono le ultime cose scritte da M subito dopo la sua scomparsa.

Ovviamente, ti prometto lettore, che su queste proverò a non intromettermi se non il meno possibile, perché qui molte cose ‘spiegano’ M e in quale stato mentale scrive. Tra l’altro, ciò che v’è scritto, grazie a Dio, ora esula completamente da quel narrare situazioni che, come s’è visto, possono anche raccapricciare il gusto di chi legge e da cui si potrebbe infine esprimere un giudizio d’acrimonia se non di dispregio verso di lui.

Pertanto, trascriverò dapprima una lettera di M al suo gemello scritta la notte stessa della sua sparizione, che all’apparenza può anche sembrar poesia, mentre in realtà so che non posso farmi illusioni perché ormai so bene quanto la scrittura di M sia indenne da qualsiasi scrupolo di tipo artistico o, e non varrebbe neanche la pena di dirlo, di tipo affettivo o sentimentale.

Più oltre, trascriverò invece la lettera (che in questo momento ho tra le mani), indirizzata da M a se stesso, in cui però, benché in compenso anche in essa non vi sia nulla dello scandaloso ossequio che M in genere fa nei confronti del corpo e del sesso delle donne, vi si trova quanto nessuno ragionevolmente s’aspetterebbe[1].



PS. Ti confesso, però, caro e improbabile lettore, e non so razionalmente spiegarmi il perché, che ora, leggendo le sue ultime cose, Em m’è venuto quasi a simpatia, anche se, almeno così sembra che sia, un bel po’ fuori di testa lo è e che, forse, lo sia sempre stato, e indipendentemente da quello di cui qui si duole: un don Chisciotte o un Mr Bloom del 2017, se così posso dire, che s’esprime così come gli viene senza poi stare a pensar più di tanto o dar troppo peso a quel che dice; e nonostante quel che dice e che qui scrive! Vale quello che ho detto.

Roma, 16 gennaio 2018.



Lettera di M al fratello gemello, dt M, subito dopo la sua scomparsa



deste lugar[2], el dìa miércoles,

dos de diciembre, a las cuatro de la mañana



Caro M, io tuo e tu mio doppio, specchio deforme della mia ben più deforme realtà.

Se sapessi da dove ti parlo.. Certi luoghi mentali ancora sconosciuti anche a me ma che ora frequento e mi sforzo di conoscere meglio, anche se spesso, e ancora non so perché, perdo l’equilibrio e insieme l’orientamento; ma a breve capirai come e perché mi ci trovo. 

Sappi, intanto, che il solo motivo per cui son qui e che ora riesco perfettamente a capire, e vi son giunto per vie traverse e a me sconosciute e che m’han fatto diventare quel che ormai sono, è che sento ancor viva una ferita così sanguinante che fa dolere il mio cuore ad ogni istante, incessantemente.

Ogni mio pensiero, come anche ogni silenzio, non riesce, infatti, a trattenere e a placare questo mio fuoco, e dalle ceneri del mio cuore, anche se solo leggermente scosse, avvampano spesso immani fiammate che mai si placheranno, perché quelle fiamme ardono sempre, anche se da me gelosamente e scrupolosamente tenute nascoste[3].

Eppure, sin da giovane, quel che credevo fosse mio padre, o chissà quale altro strano diavolo al suo posto, m’aveva avvertito e indotto a dominare con la ragione quelle fiamme striscianti che, conoscendomi, prima o poi, con la loro furia, sarebbero potute divampare oltre ogni misura dentro di me.

E così ora invecchio soffrendo, e permanentemente si rinnova la mia sofferenza.

Il fatto è che tanto sprezzai come vano il sacro nome di Amore e derisi così tanto gli amanti quando li sentivo piangere, che il loro Dio, infastidito da me, mi scagliò contro così tanti dardi che alla fine m’accese e ne rimasi completamente incendiato. Vinto così da lunghi assalti, alla fine come un demente m’innamorai, e ora languo pene infernali.

Soffrendo, però, a un certo punto, non potendo più resistere, cominciai a scrivere.

Dapprima cercando di lenire il mio dolore narrandolo: così, come mi veniva; anche se poi, continuando a scrivere e a piangere, pensai di smettere, con l’idea che scrivere m’avrebbe invischiato ancor più in questa storia.

Il fatto è che m’accorsi subito che non ci riuscivo. Provai allora a scrivere pensando ad altro, ossia a qualcosa che mi distraesse e che, facendomi ‘divertire’, m’allontanasse dal mio dolore. Ma durò poco, perché così facendo sentivo che stavo cominciando a distruggermi l’anima e lentamente a scomparire.

Ed ora, dunque, se scrivo, m’inoltro sempre più per strade contorte e perverse, tutte rotte e abbandonate, alla ricerca di una seppur lieve e blanda ma plausibile spiegazione.

Ma troverò, prima o poi, la mia radura, la mia grotta di Montesinos, il luogo della mia pace; ci puoi scommettere caro mio M/M.

PS. Non ti doler di me. Vale.



lettera a M



Gentile e stranamente (per me) mio incauto e benevolo amico.

So già, per esperienza, che far nota delle mie gravi disavventure psichiche e mentali non sia compito da poco, considerati gli sviluppi che la mia strana malattia ha avuto e le disgrazie che, malaccorto me, mi son procurato. Tuttavia, anche se non le sarò mai grato per quel che ha scritto, lei è riuscito a dar forma alla mia pur sempre insignificante e ancora ridicola esistenza.

Quel che ora le chiedo, però, è chi o cosa glielo ha fatto fare e se ne ha tratto qualche beneficio; spero di sì, anche se onestamente ne dubito, perché questa storia non credo valga la pena d’esser raccontata a chiunque se non forse solo a se stessi o, peggio, solo per dare una spiegazione medico-psichiatrica a questa mia singolare affezione.

Certo, se la trascrizione o il racconto delle mie disavventure che lei sta facendo fossero qualcosa di istruttivo per chissà quale improbabile lettore, io non avrei nulla da rimproverarle.

Il fatto è che lei narra di cose e fatti mentali che, anche se quasi certamente hanno del patologico, non sono ancora definibili all’interno di una casistica chiara e analizzabile e, dunque, nulla di particolarmente ‘edificante’, se non solo per confermare e ratificare conclusioni di un’astratta e incerta analisi di tipo neuro-psichiatrico.

Quel che non tollererei, tuttavia, è che possa apparire come un buon resoconto delle mie angosce solo per alimentare la curiosità di quelle persone che, nel vedere come la sofferenza altrui si manifesta, trovino in essa quell’abietta forma di conforto che solo i più miseri e sventurati riescono ad apprezzare, che, detto fra noi, sono molti ed enormemente di più della semplice maggioranza.

Le chiedo, infine, di inserire nella sua trascrizione quel che a breve le scriverò, perché forse potrà ben spiegare, a lei stesso e a me, quel che m’è successo, anche se, come già detto, non potrò mai esserle grato per aver reso tangibile la mia terribile angoscia e reso nota la mia conseguente sparizione.

Sappia, allora, che qualche anno fa io quasi non esistevo e stavo così bene e sereno senza amore, che quasi non m’accorgevo che la mia vita scorresse nella più sana e inutile sobrietà. Il fatto è che quando improvvisamente m’accorsi che l’amore per una donna stava cominciando a ribaltarmi l’anima e il cervello, cominciai da allora a sragionare e, così, arrivare a imprecare contro il mio Dio per ciò che dapprima m’aveva fatto disumanamente desiderare ma che infine volle con violenza negarmi, costringendomi poi lentamente e sensibilmente a morire e gradualmente a scomparire.

D’altronde, per lei sola io nacqui e per lei sola ho voluto prender vita; e voglio che lei, caro M, sappia da dove sono nato e quali sono le mie nobili origini.

Ecco dunque il busillis che arrovella e occupa il mio cervello da mane a sera, costantemente, ferocemente, perché l’esser nato senza scopo non significa affatto ch’io oggi voglia completamente scomparire. Semplicemente mi faccio da parte, per poi forse ri-nascere ma con più vigore di prima.

D’altra parte, quando m’accorsi allarmato che stavo scomparendo, ripensai a quel triste e sconsiderato cavalier manchego che nel suo delirio finale, poco prima di lasciarsi morire, era giunto incoscientemente a dire:



«Benedetto l’Onnipotente.. che tanto bene mi ha fatto. Davvero le sue misericordie non hanno limite, né peccati di qualsivoglia natura riescono a impedirle».



Il fatto è che forse lo sprovveduto ex gran hidalgo non s’era ancora reso conto d’esser già morto; infatti, il non più gran manchego e non più ingegnoso hidalgo così continuava improvvidamente a recitare senza capir più nulla di quel che diceva:



«Ormai, ho il giudizio libero e chiaro.. senza le ombre caliginose dell’ignoranza in cui m’aveva avvolto l’incresciosa lettura di tutti quei detestabili libri che avevano reso il mio cuore un’ingannevole landa sanguinante».



Ed era contento! L’idiota cavalier manchego, instupidito dal dolore, ora era contento di morire, perché subito dopo riprese a dire:



«Finalmente questo mio cuore non sanguina più, anche se a volte il desolante deserto che sento in esso mi turba l’anima. Ma col ragionamento, e lo sguardo limpido della coscienza, son riuscito, al di là di tutto, a guarirmi. Non son più pazzo, e voglio e desidero che, dopo morto, mi si ricordi come uomo dabbene».



«Che mi si ricordi, dopo morto, come uomo dabbene..»: così s’espresse l’ex mirabile e triste cavalier manchego! Ma quale uomo! Stupido idiota! Egli dimenticava! Voleva dimenticare! L’ex geniale Cavaliere dalla Triste Figura era giunto a voler dimenticare! Che stupida follia!

Infatti, subito dopo l’ex amabile hidalgo aggiungeva:



«Alimentavo tutto il giorno i miei sogni d’amore con la lettura, cercando nei libri ciò che ne potesse dar forza e verità; e solo ora capisco quanto questo sentimento sia menzogna, quanto sia un sottile sortilegio con cui demonici incantatori avvolgono quegli ingenui cavalieri che in esso credono così di dare un senso alla vita. Ed ora ormai, son nemico di tutto ciò che ho letto e scritto; e questo mi rasserena anche perché qui dove sono tutto quel che vedo è chiaro; non c’è la benché minima ambivalenza o ambiguità: o bianco o nero. Certo è, che io aspiro al bianco; anche se poi infine è e rimane sempre tutto nero. Ma, d’altronde, questa è la mia vita ed io posso far ben poco per rendermela piacevole e secondo i miei gusti».



Proprio così giunse infine a dire stupidamente l’ex amabile cavalier manchego. Ma io ora aggiungo: «Il puzzo di trementina non obnubila più il mio cervello: credo che non dipingerò più». Vale.






[1] Né, tantomeno, i componenti della sua famiglia, che s’aspettavano, se non la richiesta di un perdono, perlomeno una giustificazione plausibile della sua ‘folle’ scomparsa e del suo scrivere da chissà dove.
[2] Ovviamente, non è possibile stabilire il luogo cui M si riferisce.
[3] Sembra che, come se fosse preso da un irrefrenabile slancio poetico (anche se ammetto, può esser solo una mia impressione), in ciò che M scrive ci sia come un’intenzione a stabilire un parallelo, o una concordanza, tra il bruciare dei suoi libri e il bruciare del suo cuore - ndr.