sabato 16 novembre 2013

Marcel Duchamp. Il Grande Vetro ovvero Viaggio nel Paese della Quarta Dimensione



Marcel Duchamp. Il Grande Vetro ovvero Viaggio nel Paese della Quarta Dimensione

La ‘quarta’, come comunemente era chiamata la quarta dimensione tra gli artisti d’avanguardia del primo Novecento, non è un’invenzione della nostra epoca, del nostro tempo. Già nel Seicento, sebbene in una prospettiva trascendente e spirituale, si era avuta una prima formulazione riguardo l’esistenza di una dimensione ‘altra’ e non sensoriale, vicina e comunicante col nostro mondo tridimensionale ma da questo separata e ben distinta. Questa prima ‘stravagante’ concezione si trova in alcuni scritti del filosofo neoplatonico inglese Henry More (1614-1687), che definì spessitudine una qualità e quantità ch’egli riteneva presente in ogni sostanza vivente, ma non percepibile ai sensi perché di un’altra dimensione, una dimensione spaziale (in senso fisico e geometrico) contigua al nostro mondo sensibile ma da esso nettamente distinta e considerata sede, oltre che dell’anima dei morti, di entità spirituali ed eteree e di altre entità incorporee, incluse le idee platoniche.
Il primo tra i filosofi che coltivò seriamente l’idea degli spazi pluridimensionali fu però Immanuel Kant. Nel 1766, interessandosi dapprima all’opera Arcana Coelestia del visionario svedese Emanuel Swedenborg - che in quegli anni andava riscuotendo enorme successo asserendo di essere in contatto nientemeno che con gli spiriti - Kant giunse comunque alla conclusione che al di là del mondo fisico ve n’è uno metafisico, spirituale, un mondo ‘separato’ ma, nello stesso tempo, insito all’altro[1]. Affrontare l’ignoto, infatti, significava per Kant trascendere il mondo quotidiano, quando l’intuito va contro e oltre la realtà e scopre ‘altro’ in una dimensione ‘altra’.
Ma sarà soltanto nella prima metà dell’Ottocento che si avranno le prime manifestazioni del pensiero matematico volte a dare credibilità scientifica a questa ‘nuova dimensione’. Con la messa in discussione del dogmatico quinto assioma euclideo[2] da parte di illustri matematici europei quali l’ungherese Jànos Bolyai, il russo Nikolai Lobachevsky e il tedesco Carl F. Gauss, prende così avvio la costruzione scientifica e la rappresentazione di nuovi mondi-universo immaginari - e come tali non meno reali di quello euclideo[3] - il cui apice sarà raggiunto qualche anno dopo con la cosiddetta ‘geometria delle superfici pluriestese’ del matematico tedesco Georg Friedrich B. Riemann (1826-1866). Cinquant’anni più tardi, infine, con quello che Albert Einstein avrebbe chiamato Denkexperiment, ossia ‘esperimento mentale’, o esperimento progettato ed eseguito soltanto a livello immaginativo[4], si arriva, a tutti gli effetti, alla teorizzazione scientifica della ‘quarta’.
Ecco dunque che il ‘rompicapo’ della quarta dimensione, che troverà interessi più specifici solo all’inizio del secolo scorso, può essere assunto a paradigma di una nuova concezione spaziale, conseguente sia al crollo dei postulati euclidei sia ai rapporti che il pensiero filosofico e l’arte d’avanguardia di quegli anni cominciano a intrattenere con gli ultimi ritrovati della scienza, e il passaggio concettuale dall’atemporale mondo tridimensionale delle superfici piane allo spazio-temporale (curvo) einsteiniano sconvolgerà profondamente le fondamenta di tutti i campi del sapere, arte compresa.
Infatti, l’ampia letteratura scientifica e divulgativa di fine Ottocento e primo Novecento sulla quarta dimensione da parte di insigni matematici quali gli inglesi Edwin A. Abbott e Howard E. Hinton, i francesi Henri Poincaré, Esprit Jouffret e Gaston de Pawlowski e il russo Piotr D. Ouspensky, non tarderà a penetrare, con una serie di inevitabili mediazioni, anche negli ambienti artistici più avanzati. Cubismo e Futurismo, dunque, ma anche singole personalità come il russo Kazimir Malevich, saranno influenzati, in varia misura, dalla ‘poetica della quarta dimensione’. Ma chi fra tutti avrà un orientamento quasi esclusivo e unico verso i problemi della ‘quarta’ sarà Marcel Duchamp.
Tra i primi a chiarire il debito contratto dalla ricerca artistica d’avanguardia con le nuove acquisizioni scientifiche, fu il poeta e raffinato critico d’arte Guillaume Apollinaire, già compagno e guida del giovane Marcel Duchamp. In Les peintres cubistes del 1913, infatti, Apollinaire scriveva: «Oggi gli scienziati non si limitano più a considerare le tre dimensioni della geometria euclidea. I pittori si sono trovati indotti con la maggiore naturalezza e, per così dire, intuitivamente, a preoccuparsi di nuove possibili misurazioni della dimensione, che nel linguaggio dei moderni studi di pittura vengono complessivamente e concisamente definite col termine di quarta dimensione»[5]. Subito dopo, però, Apollinaire si avventura in una personale definizione di quella che viene considerata una ‘dimensione superiore’, senz’altro coerente se vista in un’ottica creativa ed estetica, ma, ovviamente, alquanto ‘allargata’ e ‘fantastica’ sotto l’aspetto scientifico: «La quarta dimensione si presenta allo spirito, dal punto di vista plastico, come generata dalle tre misure conosciute: essa rappresenta l’immensità dello spazio che, in un momento determinato, si slancia verso l’infinito in tutte le direzioni. È lo spazio stesso, la dimensione dell’infinito; è, infatti, essa stessa che carica di plasticità gli oggetti»[6].
Ma ben oltre le implicazioni scientifiche, la rivoluzionaria ‘dimensione immaginaria’[7] aveva avuto il merito, soprattutto per Duchamp ed i movimenti intenzionati a sbarazzarsi dell’ingombrante concezione spaziale della tradizione, d’indicare le vie più brevi (‘geodetiche’ si direbbe oggi)[8] da percorrere per superare la limitante e asfittica finzione tridimensionale della prospettiva rinascimentale.
Il movimento dada, d’altronde, aveva anche queste finalità: «Dada fu utilissimo come purgante - dichiarerà Duchamp a James Johnson Sweeney in un’intervista del 1946 - e credo di aver provato il desiderio di purgarmi a mia volta (…). Nessuno pensava che ci potesse essere qualcosa al di là dell’atto fisico della pittura. Non si insegnava nessuna nozione di libertà, nessuna prospettiva filosofica. Naturalmente i cubisti erano fertili di invenzioni (…), e il cubismo mi ha dato molte idee relative alla scomposizione delle forme. Ma io pensavo all’arte su un’altra scala. Si discuteva molto a quel tempo della quarta dimensione e della geometria non-euclidea, ma la maggior parte considerava questi problemi da semplici curiosi. Metzinger vi si interessava in modo particolare e, a dispetto di tutti i nostri malintesi, queste idee nuove ci aiutarono a prendere le distanze dalle banali abitudini di pensiero»[9].
In un articolo di Jean Metzinger[10] del 1911 viene precisato molto bene questo rivolgimento: «I cubisti hanno già sradicato il pregiudizio che obbligava il pittore a rimanere immobile di fronte all’oggetto, ad una distanza costante da esso, e a fissare sulle tele niente di più di un’immagine fotografica (...). Si sono permessi di muoversi intorno all’oggetto per darne, sotto il controllo dell’intelligenza, una concreta rappresentazione formata da diversi successivi aspetti»[11]. Nello stesso articolo viene poi sottolineata l’importanza assunta dalla componente temporale nell’opera d’arte cubista: «Prima di oggi un dipinto padroneggiava solo lo spazio, oggi vive anche nel tempo (...). Questi pittori sono consapevoli del miracolo che si ottiene quando la superficie di un dipinto produce spazio, e non appena una linea minaccia di assumere un’importanza descrittiva o decorativa, la spezzano. Elementi di luce e ombra, distribuiti in modo tale che l’uno generi gli altri, giustificano queste rotture in termini plastici; l’armonizzazione delle rotture crea il ritmo»[12].
I numerosi equivoci sorti attorno a queste e ad altre affermazioni dei cubisti erroneamente collegate alla teoria della relatività di Einstein, sono stati ben puntualizzati nel ragguardevole volume The Fourth Dimension and Non-Euclidean Geometry in Modern Art (1983) del critico d’arte statunitense Linda Dalrymple Henderson: «L’errore degli storici dell’arte che si sono occupati di cubismo e teoria della relatività è stato quello di ritrovare nella letteratura cubista del 1911 e del 1912 l’equivalente dello sviluppo in fisica di un continuum spazio-temporale non-euclideo che non venne mai completato sino al 1915 o 1916. L’assenza del termine quarta dimensione dalla teoria della relatività fino al 1908 e l’assenza di una geometria non-euclidea fino a circa il 1916, fanno supporre che sia fortemente discutibile una possibile influenza della teoria della relatività sul cubismo»[13].
In effetti, la confusione nacque a causa della compresenza di due concetti (l’uno geometrico e l’altro fisico) del tutto diversi in materia di quarta dimensione. Ed è il primo, e non poteva essere altrimenti, a far da ponte al secondo, constatando la possibilità di visualizzare geometricamente la dimensione superiore già nei tentativi fantascientifici presenti in Flatland: A Romance of Many Dimensions, novella satirica pubblicata anonima nel 1882 dal pedagogo inglese Edwin A. Abbott, che all’epoca fece scalpore anche nel mondo accademico-scientifico. Restando dunque in ambito fantascientifico, Abbott, nel serrato e visionario dialogo tra il Quadrato e la Sfera, arriverà a scrivere: «Non ha forse insegnato il mio Signore che, come una Linea è delimitata da due punti, e un Quadrato da quattro linee, così un Cubo dovrà essere limitato da sei Quadrati? Osservate ancora una volta la conferma della serie 2, 4, 6: non è questa una Progressione Aritmetica? E perciò non ne segue necessariamente che il rampollo più divino del divino Cubo nella Terra delle Quattro Dimensioni dovrà essere delimitato da otto Cubi?»[14].
Ma poiché dalla configurazione delle tre dimensioni spaziali della Spaceland è possibile per il Quadrato vedere in modo inusuale gli oggetti, dalla quarta dimensione in su, grazie all’analogia ed allo spazio-pensiero della Toughtlandia, sarà possibile vedere anche l’interno di ogni cosa solida: «In quella beata regione a Quattro Dimensioni, indugeremo forse sulla soglia della Quinta, e non vi entreremo? Ah, no! Decidiamo piuttosto che la nostra ambizione si elevi di pari passo con la nostra ascesa corporea. Allora, cedendo all’assalto del nostro intelletto, le porte della Sesta dimensione si spalancheranno; e dopo quella di una Settima, e quindi un’Ottava»[15].
È evidente come nel testo di Abbott ci sia, insieme ad una critica pungente della classista società vittoriana, un intento squisitamente pedagogico, cioè è un invito a superare la limitante concezione cartesiana dello spazio (la bidimensionalità del Quadrato) e del pensiero (positivistico) per giungere a concezioni spaziali che portino a considerare dimensioni e articolazioni spaziali ben più complesse e organiche (come, ad esempio, quella della Sfera) e quindi stimolare il pensiero a forme di elaborazione più ricche e meno limitanti. Il protagonista (il Quadrato) del racconto, infatti, dopo aver conosciuto la terza dimensione incontrando la Sfera, teorizza la possibilità di conoscere altre dimensioni (e l’allusione alle superfici pluriestese di Riemann non è casuale) con l’intento di elevare in tal modo la propria mente oltre i propri sensi. Con i primi risultati della teoria della relatività einsteiniana (1905), infine, il testo di Abbott avrà in seguito ripercussioni inaspettate.
Notizie più precise sulla quarta dimensione cominciano intanto a circolare in ambito francese già dopo il 1910. Tra il 1911 e il 1912 Gaston de Pawlowski, direttore di “Comœdia”, il più importante quotidiano letterario e artistico parigino del periodo, pubblica a puntate i capitoli di quello che sarebbe diventato un classico della fantascienza francese d’inizio secolo: il Voyage au pays de la quatrième dimension[16]. L’argomento della ‘quarta’ diviene così di dominio pubblico non solo in ambito scientifico. Anche Duchamp, tra gli altri, si interessa a questa nuova dimensione dove tempo e spazio sono ormai unificati. Ma queste nuove teorie scientifiche costituiscono una vera e propria rivoluzione mentale per la società del Novecento, perché la teoria della relatività, insieme a quella dei quanti e alla geometria non euclidea, allargano ora gli orizzonti della scienza e del pensiero, mettendo in forte crisi le vecchie e desuete certezze positivistiche. Infatti, le nuove coordinate spazio-temporali non solo ampliano le conoscenze della fisica, ma, soprattutto, producono profonde trasformazioni mentali, culturali e psicologiche in tutta la società.
D’altra parte Albert Einstein nella sua ricerca si rende perfettamente conto che alla base della nuova nozione di spazio-tempo è necessariamente unita quella di simultaneità. La clamorosa svolta einsteiniana fondata sul principio di relatività, accoglie perciò in sé tutti i fenomeni fisici, ma soprattutto indica un nuovo modo di osservare la realtà, quello che dalla spazialità tridimensionale invita a guardare a quella quadridimensionale, più organica e completa (uno sguardo olistico, si direbbe oggi, cioè che guarda al ‘sistema’ che sottende al fenomeno osservato).
Nell’intervista rilasciata a Pierre Cabanne nel 1967, Duchamp affronta l’argomento dicendo: «Ciò che ci interessava a quel tempo era la quarta dimensione. Nella Scatola Verde ci sono un mucchio di note sulla quarta dimensione (…). Siccome credevo che si potesse dipingere l’ombra di una cosa a tre dimensioni, un oggetto qualsiasi - come la proiezione del sole sulla terra che crea due dimensioni - per semplice analogia intellettuale considerai che la quarta dimensione poteva proiettare un oggetto a tre dimensioni; in altre parole ogni oggetto a tre dimensioni che osserviamo freddamente è una proiezione di una cosa a quattro dimensioni che non conosciamo. Era quasi un sofisma ma, in fin dei conti, era anche una cosa possibile»[17].
Le opere di Duchamp che meglio esprimono questo concetto sono più di una. Osserviamo intanto la più evidente, cioè la Porte all’11 di rue de Larrey del 1927, una porta che, alternativamente, apre o chiude contemporaneamente due ambienti distinti e separati. Questa è dunque una porta che non delimita una zona di confine (si apre mentre si chiude e si chiude mentre si apre) e Duchamp è interessato al varco di comunicazione tra l’ambiente in cui abitualmente ci muoviamo e quello che invece riusciamo soltanto vagamente a percepire[18]. È questo, dunque, il mondo relativistico einsteniano, dove spazialità e temporalità sono legate-unificate e risentono di tutto ciò che accade? Quel che qui interessa Duchamp è evidentemente ciò che sottende al fenomeno visivo. Per questo l’attenzione di Duchamp si rivolge soprattutto alle idee e non più soltanto agli aspetti visivi. Il suo scopo, infatti, è quello di condurre l’attenzione del soggetto indagatore verso una conoscenza ‘allargata’, in una condizione di silenzio in cui si sfiora la ‘magia’[19], uno spazio, quello quadridimensionale, che l’artista intravede come ‘luogo di nuove possibilità’: «La rappresentazione materiale non sarà che un esempio di ciascuna di queste forme principali libere»[20]. Una problematica profonda della poetica duchampiana è dunque il tentativo di mostrare i passaggi dimensionali tra i vari e diversi livelli di realtà ed estrarne nuove significazioni.
Quando nel 1915 Marcel Duchamp inizia a lavorare a La Mariée mise à nu par ses célibataires, même (o Grande Vetro) l’opera considerata il punto centrale di tutta la sua poetica - dove convergono idee e lavori significativi sia precedenti, come Dulcinea, Jeune et jeune-filles en printemp, Mariée, Trois Stoppages-étalon, sia successivi come Étant donnés - propone anche una nuova realtà dell’opera, vissuta ora come ‘organismo’, ossia un corpo che occupa uno spazio all’interno della realtà circostante che lo accoglie e ne è condizionata.
Già nel progetto iniziale si prevedono due spazi ben distinti: uno superiore dedicato alla sposa; uno inferiore dedicato ai nove scapoli. Tra questi due mondi separati, però, Duchamp lascia un terzo ‘spazio di possibilità’, quello cioè che potrebbe diventare «il campo d’incontro dei due mondi separati», come recita la Nota Peut-être faire un tableau de charnière[21]. Ma è nell’invisibilità che possono manifestarsi questi incontri, queste possibilità che danno origine a nuovi significati. Il mondo rappresentato dal Grande Vetro è dunque quello dell’apparizione, cioè quello di una realtà invisibile che rimane al di là di ciò che appare.
Duchamp, nelle sue note, definisce il Grande Vetro anche come «Un mondo in giallo»[22]. Alludendo e sottintendendo a una propagazione della luce anche negli strati profondi della materia[23], il Grande Vetro diviene in tal modo anche una rappresentazione simbolica della luce. Ma ciò non sta forse a significare che per Duchamp anche la materia ‘vive’ in un suo spazio quadridimensionale (cioè quello della luce) che intuitivamente riusciamo a scorgere soltanto grazie a quello che cade sotto i nostri sensi in forme tridimensionali ma che, come la luce, non può che stare nel mondo delle idee?
Leggendo le note della Scatola Verde, ma anche e soprattutto quelle della Scatola Bianca[24], è facile vedere quanto simili enunciati potessero essere all’origine del pensiero di Duchamp sulla quarta dimensione. Ad esempio, leggendo la Nota 1912. Machine à 5 cœurs[25], è evidente che la strada che «graficamente (…) tenderà verso la linea pura geometrica senza spessore» è quell’orizzonte-cerniera in cui da uno spazio a due o tre dimensioni si passa ad uno spazio quadridimensionale, cioè uno spazio più di natura mentale che fisica, una sorta di iperspazio (o spazio virtuale) in cui si respira quella libertà di ‘pensare l’impossibile’.
Anche il filosofo francese Jean-Francois Lyotard riconosce che questa virtualità ha una sua proprietà particolare, giungendo però alla inevitabile conclusione della irrapresentabilità nello spazio percettivo di ciò che viene pensato. Tuttavia, riconoscendo che La Mariée mise à nu… sia la messa in opera delle ricerche duchampiane sullo spazio, e stimolato anche dalla lettura delle note delle diverse Boîtes, Lyotard individua nel Grande Vetro un esempio di innesto della quarta dimensione su oggetti tridimensionali.
Il Grande Vetro mostra, infatti, forme situate in uno spazio tridimensionale. In alto a sinistra, ad esempio, il Pendu femelle (‘impiccato femmina’, come Duchamp denomina ulteriormente la sposa per suggerire il movimento), secondo Lyotard presenta forme derivate da un’organizzazione di stile cubista, tridimensionale ma con un punto di vista ‘esploso’[26]; diversamente, in alto a destra accanto all’impiccato femmina, Duchamp suggerisce e indica un effetto di profondità attraverso i Pistons de courant d’air, ottenuti attraverso lo sbattimento di pezze di garza esposte all’azione del vento. Ma partendo dalle riflessioni di Duchamp sullo spazio, Lyotard giunge anche a ipotizzare una profonda unità tra questi oggetti, unità che sarebbe da ricercarsi appunto in una figura della quarta dimensione. Ecco, allora, che lo ‘spazio della sposa’ sembrerebbe essere un ‘racconto’ unificato ma con spazi multipli: esso non sarà perciò concepibile, o pensabile, secondo i canoni della costruzione ‘legittima’ della geometria euclidea, perché qui il caso (l’hazard mallarméano)[27] gioca un importante ruolo nella fabbricazione di queste «forme principali libere»[28].
L’orizzonte-cerniera è dunque quell’operatore ‘mentale’ che secondo Lyotard consente di trasformare, sul piano del vetro, una proiezione prospettica ‘classica’ in una proiezione in cui lo spazio esita sulla propria identità e diviene fluttuante. È necessario immaginare pertanto l’esistenza di una quarta dimensione, in cui il problema della rappresentazione necessariamente si dissolve. Ecco perché Lyotard afferma che la caratteristica principale del Grand Verre è di sfuggire a qualsiasi effetto di controllo e di sintesi interpretativa. La dissoluzione degli insiemi visivi innescata dal lavoro duchampiano non hanno quindi come fine quello di ritrovare un corpo o una forma ancora più ‘originaria’ di quello dell’origine, aprendo però, in tal modo, a un mondo privo di qualsiasi referente prestabilito. L’unica ambizione che Lyotard riconosce a Duchamp è dunque quella di voler ‘accecare’ l’occhio dello spettatore che crede di vedere qualcosa; fare quindi una ‘pittura della cecità’ tramite pure invenzioni, o trasformatori, come Lyotard stesso definisce l’operatore mentale che Duchamp pone su quel limen duchampianamente chiamato orizzonte-cerniera, che però è il punto di incontro e di raccordo tra la parte inferiore e quella superiore del Vetro, e dunque luogo di nuove possibilità e di sempre nuove significazioni.
Ecco dunque che l’invito-progetto presente in una Nota della Scatola Verde: «Perdre la possibilité de reconnaître (d’identifier) 2 choses semblabes - 2 couleurs, 2 dentelles, 2 chapeaux, 2 formes qc. Arriver à l’impossibilité de mémoire visuelle suffisante pour transporter d’un semblable à l’autre l’empreinte en mémoire»[29] è un evidente sollecitazione a mettere in causa lo statuto dell’opera d’arte tradizionale o ‘classica’, ancora aggrappata o ancorata al concetto di mimesi di matrice aristotelica. L’oscurità, o meglio l’ambiguità della frase, permette così all’artista francese di non cadere in un semplice discorso teorico che ridurrebbe la portata eversiva del suo progetto, che è quello di avviare una critica alla società che non è soltanto di tipo estetico, ma anche, e soprattutto, culturale e politico. Con Duchamp, dunque, l’opera d’arte non mira più alla comprensione del pubblico, ma soltanto a suscitare degli effetti che non sono più immediatamente decifrabili. Lyotard riconosce che al pubblico spetta il compito del commento; tuttavia, quando parla di un pubblico destinato a commentare un’opera di Duchamp è evidente che il suo non è un invito a ‘tentare di comprendere’ o ‘pensare di aver capito’; per questo il filosofo francese esorta anche a non prendere come definitiva la sua (e l’altrui) lettura dell’opera duchampiana.
D’altronde, c’è sempre qualcosa nell’opera di Duchamp, e più in generale nell’opera d’arte moderna, che rimane incommentabile. Per questo motivo Lyotard si sforza sin dall’inizio della sua analisi a mostrare non tanto la comprensione della frase duchampiana, quanto appunto la sua incomprensibilità - dalla quale però prende vita tutta una serie di significati che spesso rimangono sconosciuti all’autore stesso[30] - e a procedere nell’esaltazione del non-senso e delle sue variabili e infinite possibilità.
Non dimentichiamo, infatti, che la realtà ‘vera’ è sfuggente, indefinibile; e non perché sia cangiante bensì perché ‘vive’ in un’altra sfera, in una dimensione che ancora facciamo fatica a comprendere ed è in continuo divenire. Camminiamo, infatti, tra ombre e illusioni e niente di ciò che vediamo, tocchiamo e pensiamo possiede una consistenza reale. Ecco, dunque, che tra noi e la realtà si frappone un limite, che poi è il limite della nostra vista, l’orizzonte-limite - come a volte lo chiama Duchamp - che poi è il limite della nostra memoria e di tutto ciò che fa parte delle nostre conoscenze.
L’oggetto che vediamo da un lato non è lo stesso che vediamo dall’altro lato: eppure l’oggetto è lo stesso. Quello che dunque vediamo non è che l’ombra di una realtà che si trova in un’altra dimensione e rappresentare la realtà in termini geometrici non è altro che rappresentare un’ombra di un’ombra.
E questi sono i pensieri che stimolano Duchamp ad andare oltre quest’ombra e uscire dalla ormai troppo angusta caverna platonica in cui l’‘uomo nuovo’ della società industriale è recluso. Quando nel 1918 Marcel Duchamp esegue Tu ‘m - l’ultimo suo quadro anti-quadro che oltre a proiettare un’ombra di parte di sé al di là del piano bidimensionale (attraverso uno scovolino sporgente) include in sé tutto ciò che, in qualità di ‘ombre mnemoniche’, ha fatto parte dei suoi lavori precedenti (diversi readymades, Trois Stoppages-étalon, ecc.)[31] - indica espressamente, con una mano dipinta come un’insegna segnaletica, che ciò che deve indurre al commento (o alla contemplazione) è al di là delle ombre, semplici proiezioni bidimensionali di realtà tridimensionali. È alle idee, infatti, cui il filosofo Duchamp mira.
Per Plotino, come per Duchamp, le idee sono forme libere che sfuggono alla misurazione dei sensi. Quanto i sensi percepiscono, infatti, è mera apparenza e solo nell’invisibile c’è la vera realtà. La geometria, di conseguenza, è solo uno strumento di rappresentazione dell’ombra delle idee, cioè è solo uno strumento attraverso il quale vediamo le forme: le vediamo, certo, ma senza mai poterle vedere del tutto. Ma se Duchamp è ‘infatuato’ dell’idea, il problema, se c’è, è come rappresentarla. Ed ecco che la rappresentazione dell’idea (l’apparizione, cioè qualcosa che sta al di là di ciò che appare) nell’opera duchampiana avviene in un’altra dimensione (‘la quarta’) che è e rimane una dimensione esclusivamente mentale.
L’arte e il pensiero di Duchamp annunciano, prefigurano e promettono dunque l’esistenza d’un nuovo genere di tempo, di spazio, di sensibilità e di ragione, introducendo nella realtà ‘viva’ un nuovo sistema di valori capace di mutarne il significato fin nei suoi fondamenti.
Lo spazio dell’osservatore ‘classico’ era regolato dalle leggi della geometria euclidea e della prospettiva centrale albertiana. Oggi sappiamo che la percezione prospettiva e rigorosamente geometrica della realtà non è il ‘modo naturale’ della visione, ma un ‘sistema concettuale’, una ‘forma simbolica’ - per usare un termine sufficientemente congruo dello storico dell’arte Erwin Panofsky[32] - e parziale di rappresentazione della realtà.
I modi di rappresentazione dello spazio, infatti, non sono che dei metodi di costruzione dell’immagine con la quale ci rappresentiamo solo ciò che della realtà conosciamo e non ciò che vediamo; dei metodi quindi condizionati dalle abitudini e dalla cultura. La prospettiva matematica rinascimentale non è pertanto il modo naturale di dipingere la realtà, ma è un apparato concettuale complesso che privilegia la rappresentazione di certe informazioni strutturali (relazioni metriche) rispetto ad informazioni di altro tipo, e quindi ben diverse da quelle trasmesse, ad esempio, dall’arte arcaica o primitiva. Le leggi della prospettiva non coincidono dunque con quelle della visione, tanto è vero che una riproduzione ‘realistica’ può addirittura risultare fuorviante per chi non è educato a questo modo di rappresentazione: «Riconoscere un oggetto significa individuare alcuni dei suoi tratti strutturali salienti. Una replica meccanicamente prodotta può solo celare, o distorcere, tali tratti», conclude mirabilmente (per noi) lo storico dell’arte e psicologo tedesco Rudolf Arnheim[33].
In conclusione la ‘quarta’ teorizzata da Duchamp è soltanto un modo diverso di pensare la realtà, e la poesia, come linguaggio semanticamente aperto, è lo strumento più idoneo per conoscere e inserirsi nella ‘quarta’, perché pone in una condizione di ‘elevazione’ che fa vedere le cose sotto un altro aspetto, più fluttuante e armonico e, proprio per questo, più reale. E in questo senso come risultano opportune e appropriate le parole di Duchamp quando perentoriamente affermava:  «D’altronde, la poesia è il solo modo per dire qualche cosa»[34].


[1] I. Kant, I sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica, a cura di G. Morburgo-Tagliabue, Rizzoli, Milano 1982, scritto nel 1766.
[2] Quinto assioma di Euclide: dato un punto qualunque che non stia su una retta data, esiste una e una sola retta che passa per quel punto.
[3] Anch’esso mera manifestazione delle capacità ‘costruttive’ del pensiero.
[4] Cfr. R. Ossermann, Poesia dell’Universo, Longanesi, Milano 1996, p. 83.
[5] G. Apollinaire, Les peintres cubistes, Figuières, Paris 1913; tr. it. I pittori cubisti. Meditazioni estetiche, Abscondita, Milano 2003, citato in F. Russoli, La struttura del reale nella visione cubista, Fabbri, Milano 1967, pp. 3-4.
[6] Ibidem, p. 4. Ma come non notare una certa ‘concordanza’ tra quanto descritto qui da Apollinaire e quanto scriverà più tardi Duchamp nella probabilmente primissima Nota che apre la Scatola Verde, la 1912. La machine à 5 cœurs, (foglio 1 e foglio 2) in cui l’autore descrive il viaggio in automobile verso Etivàl, nel Giura, fatto insieme allo stesso Apollinaire, Picabia e la moglie di quest’ultimo Gabrielle Buffet; cfr. M. Duchamp, Duchamp du signe, écrits réunis et présentés par M. Sanouillet, Flammarion, Paris 1975, p. 35.
[7] Cfr. R. Penrose, La mente nuova dell’imperatore, Rizzoli , Milano 1992, p. 125
[8] In generale, si fanno corrispondere alle rette del piano le linee geodetiche di una superficie curva. Queste ultime, infatti, conservano la principale caratteristica delle rette e precisamente sono le linee più brevi che sulla superficie congiungono due punti dati. Sulla superficie della sfera le geodetiche sono proprio le circonferenze massime, cioè quelle circonferenze che si ottengono intersecando la superficie della sfera con piani passanti per il centro della sfera. Esempi familiari sono i meridiani e l’equatore; non lo sono i paralleli. Ma sulla superficie della sfera non esistono ‘rette’, o meglio geodetiche che non si incontrano. Quindi, non esistono parallele!
[9] M. Duchamp, Declarations to James Johnson Sweeney, in “The Bulletin of the Museum of Modern Art”, vol. XIII, nn. 4-5, New York 1946; tr. it. Dichiarazioni raccolte da James Johnson Sweeney, in Marcel Duchamp, a cura di Elio Grazioli, in “Riga”, n. 5, Marcos y Marcos, Milano 1993, p. 21.
[10] Di Jean Metzinger e la sua cerchia (Fernand Léger, Albert Gleizes e Juan Gris, i pittori cubisti che frequentavano insieme ad Alexander Archipenko il circolo di Puteaux creato dai fratelli Jacques Villon e Raymond Duchamp-Villon), Marcel Duchamp, riferendosi al rifiuto che questi opposero all’esposizione del suo Nu descendant un escalier al Salon des Indipendents del 1912, ebbe a dire: «Questa faccenda mi ha aiutato a liberarmi completamente del passato, del mio proprio passato. Mi sono detto: ‘Bene, se è proprio questo che vogliono, non è proprio il caso che io mi unisca a un gruppo; bisogna contare solo su se stessi, bisogna essere soli’», cfr. M. Duchamp, Ingénieur du temps perdu, Pierre Belfond, Paris 1977; trad. it. Ingegnere del tempo perduto. Conversazione con Pierre Cabanne, a cura di W. Marchetti, Multhipla Ed., Milano 1979, pp. 43-44.
[11] J. Metzinger, Cubism et Tradition, “Paris-Journal”, 16 aug. 1911 [citato in E. F. Fry, Cubismo, Mazzotta, Milano 1967, p. 91].
[12] Ibidem, pp. 91-92.
[13] L. Dalryple Henderson, The Fourth Dimension and Non-Euclidean Geometry in Modern Art, Priceton University Press, Princeton 1983 [New ed., MIT Press, Cambridge 2013; citato in M. Emmer, La perfezione visibile, Theoria, Roma-Napoli 1991, p. 131].
[14] E.A. Abbott, Flatland: A Romance of Many Dimensions, Seeley and Co., London 1882; tr. it. Flatlandia. Racconto fantastico a più dimensioni, Adelphi, Milano 1966, p. 136. Pubblicato anonimo nel 1882, ebbe anche una seconda edizione, riveduta, due anni dopo. Come precisa opportunamente in una nota il curatore della traduzione Masolino D’Amico, Flatlandia, Spacelandia, Linelandia, Pointlandia e Toughtlandia sono sinonimi, rispettivamente, del Paese del Piano, dello Spazio, della Linea, del Punto e del Pensiero. Da leggere con piacere, e in connessione con le preoccupazioni di Duchamp, è la mirabolante dedica con cui Abbott dà inizio al suo racconto fantastico: «Agli Abitanti dello SPAZIO IN GENERALE E a H. C. IN PARTICOLARE è Dedicata Quest’Opera Da un Umile Nativo della Flatlandia Nella Speranza che, Come egli fu Iniziato ai Misteri Delle TRE Dimensioni Avendone sino allora conosciute SOLTANTO DUE Così anche i Cittadini di quella Regione Celeste Possano aspirare sempre più in alto Ai Segreti delle QUATTRO CINQUE O ADDIRITTURA SEI Dimensioni In tal modo contribuendo All’Arricchimento dell’IMMAGINAZIONE E al possibile Sviluppo Della MODESTIA, qualità rarissima ed eccellente fra le Razze Superiori Dell’UMANITA SOLIDA». Sono qui citati ampi stralci del testo abbottiano perché trattano dei temi che in quegli anni maggiormente interessano Duchamp che, subito dopo l’abbandono della pittura nel 1912, avrà modo di approfondire in qualità di bibliotecario presso la Bibliothèque de Sainte Geneviève a Parigi [N.d.R.].
[15] Ibidem, pp. 137-138.
[16] G. de Pawlowski, Voyage au pays de la quatrième dimension, Introduction de Jean Clair, Images modernes, Paris 2004. A tal proposito citiamo anche J. Clair, Marcel Duchamp ou le grand fictif, Galilée, Paris 1975 [tr. it. Id.; Marcel Duchamp il grande illusionista. Saggio di mito-analisi del ‘Grande Vetro’, Cappelli, Bologna 1979] in cui la lettura del Grande Vetro è tutta improntata a ricercare corrispondenze tra l’opera duchampiana e il Voyage di Pawlowski.
[17] M. Duchamp, Ingegnere del tempo perduto, cit., pp. 54-55.
[18] A tal proposito, alquanto interessante può essere quanto Duchamp scrisse nelle note pubblicate postume riferendosi al concetto di inframince; cfr. M. Riparini, Il Grande Vetro ovvero la visione ‘poetica’ di Marcel Duchamp [consultabile presso il sito Academia.edu all’indirizzo internet
[19] Cfr. M. Duchamp, The Creative Act, in “Art News”, vol. 56, n. 4, New York summer 1957; tr. it. in Marcel Duchamp, a cura di Elio Grazioli, cit., p. 25.
[20] Cfr. Nota Les formes principales de la machine célibataire, in M. Duchamp, Duchamp du signe, cit., p. 60. Il corsivo è nostro [N.d.R.].
[21] Cfr. Nota Peut-être faire un tableau de charnière, in M. Duchamp, Duchamp du signe, cit., p. 36.
[22] Cfr. Nota La Mariée mise à nu par ses célibataires, même, in M. Duchamp, Duchamp du signe, cit., p. 59.
[23] Cfr. Nota Eclairage intérieur, in cui l’artista francese precisa: «Chaque matière dans sa composition chimique est douée d’une phosphorescence (...), l’apparence de matière ayant moléculairement un foyer lumineux», in M. Duchamp, Duchamp du signe, cit., p. 94.
[24] Cfr. M. Duchamp, Mercante del segno, cit., 119-122.
[25] Cfr. Nota 1912. Machine à 5 cœurs (foglio 1; foglio 2), in M. Duchamp, Duchamp du signe, cit., p. 35.
[26] Cfr. J.-F. Lyotard, Les transformateurs Duchamp, Galilèe, Paris 1977; tr.it. I TRANSformatori DUchamp. Studi su Marcel Duchamp, Hestia, Como 1992, p. 97.
[27] Cfr. M. Riparini, Il Grande Vetro ovvero la visione ‘poetica’ di Marcel Duchamp [consultabile presso il sito Academia.edu all’indirizzo internet
 http://www.academia.edu/4037175/Il_Grande_Vetro_ovvero_la_visione_poetica_di_Marcel_Duchamp].
[28] Cfr. Nota Les formes principales de la machine célibataire, in M. Duchamp, Duchamp du signe, cit., p. 60, citata anche in J.-F. Lyotard, I TRANSformatori DUchamp, cit., p. 98.
[29] Nota Perdre la possibilité de reconnaître, in  M. Duchamp, Duchamp du signe, cit., p. 42.
[30] Cfr. M. Duchamp, The Creative Act, in “Art News”, vol. 56, n. 4, New York summer 1957; tr. it. in Marcel Duchamp, a cura di Elio Grazioli, cit., p. 25.
[31] A tal fine si rimanda alla Nota Ombres portées de Readymades, in M. Duchamp, Duchamp du signe, cit., pp. 45-46.
[32] Cfr. E. Panofsky, Die Perspektive als ‘symbolische Form’, “Vorträge der Bibliothek Warburg”, Lipzig-Berlin 1924; tr. it. La prospettiva come forma simbolica, Feltrinelli, Milano 2001.
[33] R. Arnheim, Il pensiero visivo, Einaudi, Torino 1974, p. 168.
[34] Cfr. A. Gervais, Un Chapeau à le livre de J. Suquet, Le Grand Verre: Visite Guidée, L’Echoppe, Paris 1992 [in http://www.toutfait.com/issues/issue_1/Articles/largeglassFrench.html]; cfr. anche M. Riparini, Il Grande Vetro ovvero la visione ‘poetica’ di Marcel Duchamp [consultabile presso il sito Academia.edu all’indirizzo internet 
http://www.academia.edu/4037175/Il_Grande_Vetro_ovvero_la_visione_poetica_di_Marcel_Duchamp].