venerdì 26 luglio 2013

Il Grande Vetro ovvero la visione 'poetica' di Marcel Duchamp



Il Grande Vetro ovvero la visione ‘poetica’ di Marcel Duchamp
by Massimo Riparini

Fra tutte le opere del XX° secolo, probabilmente non ve ne sono altre che abbiano tanto stimolato l’immaginazione di cultori e critici d’arte e messo alla prova la loro erudizione e ingegnosità interpretativa quanto La Mariée mise à nu par ses célibataires, même (o Grand Verre), un’opera realizzata su vetro, tra il 1915 e il 1923, dall’artista francese Marcel Duchamp. Quando in seguito (1934) Duchamp decise di pubblicare La Boîte Verte (una scatola contenente novantatré note di appunti riguardanti la realizzazione de La Mariée mise à nu…)[1] e ci fu anche il primo importante commento critico al Grand Verre a firma di André Breton[2], si ebbe subito l’impressione che l’opera, fra tutte, dovesse assumere il ruolo di principale punto di riferimento di tutta l’arte a venire.
Con grande lucidità e intuito, Breton fece un’importante rivelazione, perché definire ‘phare’ la Mariée mise à nu… significava imporre un profondo ripensamento dello statuto e del ruolo che l’artista e l’opera d’arte dovevano assumere. Tuttavia, ciò che Breton maggiormente evidenziava nel suo tentativo di decifrazione dell’opera, era l’enorme sconquasso interpretativo che la pubblicazione de La Boîte Verte andava provocando, un avvenimento di rilevanza capitale per la storia dell’arte che ci fa intravedere quanto di più complesso e ricco vi è in quell’enorme ‘meccanismo’ che Duchamp volle congegnare con il Grande Vetro. Per Breton gli appunti de La Boîte Verte permettono, infatti, di penetrare meglio «l’impresa senza equivalenti nella storia contemporanea», un’opera nella quale «è impossibile non scorgere almeno il bottino di una favolosa partita di caccia in terre vergini, ai confini dell’erotismo, della speculazione filosofica, dello spirito sportivo, degli ultimi portati della scienza»[3].
Gli appunti, secondo Breton, gettano così sull’opera preziosissime indicazioni, che rimandano semanticamente ad altre opere e ad altri ‘luoghi’ duchampiani. Dunque, sono un supplemento d’informazione ma dato, in questo caso, miroiriquement[4] con l’opera stessa. Si tratta pertanto di un’avventura tendenzialmente di tipo mentale, la cui interpretazione non può per questo restringersi ad un’analisi esclusivamente visiva, spaziale. Per Breton, infatti, a quest’analisi di base occorre aggiungerne altre, quelle che attengono al campo del filosofico, del poetico, del romanzesco, dell’umoristico, dell’erotico. In tal modo, illimitati gli approcci, illimitate divengono le interpretazioni possibili: eccoci così di fronte ad un nuovo ‘lancio di dadi’, assai simile, per molti aspetti, a quello che sul finire del XIX° secolo Stéphane Mallarmé[5] aveva scagliato nel desolato campo della poesia.
Ma ecco emergere qui un argomento considerato ‘intricato’ e ‘spinoso’ dagli storici dell’arte e che soltanto pochi esperti cultori dell’arte duchampiana hanno affrontato e usato come parametro interpretativo dell’opera di Marcel Duchamp, il quale, rispondendo ad una lettera di Jean Suquet, che gli comunicava di voler scrivere sulla sua opera non in forma di critica ma ‘in forma di poesia’, perentoriamente affermava:  «la poesia è il solo modo per dire qualche cosa»[6]. Tale propensione dell’artista alla poesia trovava poi conferma in una seconda lettera in cui, ringraziando ancora Suquet, Duchamp dichiarava: «D’altronde, dovrei farvi un monumento per aver messo a nudo [grazie alla forma poetica] la mia ‘messa a nudo’»[7].
Con Duchamp, però, una nuova destrutturazione del linguaggio artistico (sia visivo che ‘poetico’) ha avuto luogo. Per Duchamp, come già per Mallarmé, nell’opera d’arte espressione e comunicazione si separano. L’opera, infatti, non ‘rappresenta’ più, ma semplicemente si autorappresenta, per cui l’atto di produzione di un testo o di un opera diventa un atto di autoriflessione o di autorispecchiamento infinito. Nessuna concessione è fatta alla comunicazione. Si capisce allora come la poesia ‘visuale’ mallarméana e la visione ‘poetica’ duchampiana diventino lo strumento privilegiato per questo nuovo tipo di esperienza artistica e si capisce anche come quest’opera risulti ‘difficile’ per chi cerchi in essa la comunicazione o la rappresentazione di tipo convenzionale. Nelle Note della Scatola Verde questo particolare tipo di poesia traspare tra i mille echi e giochi di rimando del vocabolario adottato; ogni Nota, infatti, entrando alternativamente in relazione-collisione con le altre[8], produce nuove risonanze, nuove interpretazioni e, infine, ‘nuova poesia’.
La letteratura, dunque, e la poesia soprattutto, sono sempre sullo sfondo dell’opera di Marcel Duchamp. «Apollinaire fu il primo a mostrarmi le opere di Roussel (…). Fondamentalmente fu Roussel il responsabile del mio Vetro (...). Furono le sue Impressions dAfrique a indicarmi in grandi linee la prassi da adottare (…). Vidi immediatamente che potevo subire l’influenza di Roussel. Pensavo che come pittore era meglio essere influenzato da uno scrittore che da un altro pittore. E Roussel mi mostrò la strada»[9]. A queste dichiarazioni rilasciate a J.J. Sweeney nel 1946, Duchamp aggiunse infine: «Ecco la direzione che deve prendere l’arte: l’espressione intellettuale piuttosto che l’espressione animale. Ne ho abbastanza dell’espressione ‘stupido come un pittore’»[10].
In queste affermazioni quindi è evidente come Duchamp abbia cercato nella letteratura piuttosto che nella pittura la sua fonte di ispirazione. Ma già prima del Grande Vetro, per il quale dichiarerà apertamente l’influenza rousseliana, gli interessi letterari di Duchamp erano in gran parte orientati verso Jules Laforgue[11], poeta che visse con ossessione la noia che divora l’esistenza (basti pensare alla serie interminabile delle Dimanches, funeree ‘processioni’ di domeniche che ingrigiscono l’esistenza umana e ne sottolineano il malessere)[12], preda di uno spleen che tuttavia oscilla sempre tra il popolare ed il sublime, l’humor sarcastico delle Moralites Legendaires e la dolorosa partecipazione de Le sanglot de la terre[13], che rappresentano, comunque, una via d’uscita dal simbolismo.
Ad esso Duchamp si ispirò sia per Jeune homme triste dans un train (1911), nel cui titolo traspare il gusto per l’allitterazione laforghiana, sia per l’opera che lo avrebbe portato a rompere con la pittura, il Nu descendant un escalier (1912), le cui origini risalgono ad un disegno ispirato ai versi laforghiani di Encore à cet astre (1912)[14]. Ma, a ben vedere, il gusto per l’allitterazione velata di humor di origine laforghiana emerge anche a livello visivo: basti pensare a quanto Duchamp aveva dichiarato a proposito della rappresentazione del movimento, ch’egli fa scaturire grazie alla singolare idea del ‘parallelismo elementare’: sorta di ‘allitterazione’ di forme e linee «che si inseguono parallelamente mutando dolcemente per creare il movimento e la forma in questione»[15].
Dopo Laforgue, fu dunque la scoperta di Raymond Roussel a determinare l’opera futura di Marcel Duchamp. Già durante il soggiorno monacense del luglio-agosto 1912, l’artista francese rifletteva sulle possibilità di uscire dalla pittura retinica applicando alle proprie opere[16] una tecnica ‘secca’, intellettuale, ossia un procedimento tecnico di rappresentazione completamente affrancato da un approccio esclusivamente visivo, fisico e mimetico della realtà.
Ma per capire questa disposizione occorre tornare alla primavera del 1912, allo stupore e alle impressioni ricevute a Parigi al teatro Antoine, dove l’artista, in compagnia di Apollinaire, Picabia e Gabrielle Buffet, ebbe la fortuna di assistere alla rappresentazione di Impressions dAfrique curata nei minimi dettagli dallo stesso Roussel. Duchamp vide i personaggi, gli oggetti e le installazioni rousseliane realizzarsi sulla scena e intuì, attraverso la rousseliana esaltazione dell’insolito strettamente intrecciata al gioco delle dislocazioni linguistiche, la risoluzione al proprio problema: trovare quell’arte ‘secca’, intellettuale e non retinica che l’avrebbe portato verso una dimensione altra, ‘magica’ ed ‘extra-umana’. Assistiamo, in tal modo, alla liquidazione di una tradizione plurisecolare dell’arte: macchine celibi e readymades sono lì sulla scena e già presenti in potenza davanti ai suoi occhi.
Ma Roussel era forse l’uomo in fuga dalla realtà verso un mondo di pura immaginazione? In effetti, ciò che di Roussel affascinava Duchamp era l’immaginazione delirante che poteva scaturire all’infinito partendo da una semplice frase, come successivamente Roussel illustrerà in Comment jai écrit certains de mes livres[17], testo apparso nel 1935 come ‘libretto di istruzioni’ sulla scrittura adottata per la composizione di Impressions dAfrique e di Locus solus.
Tuttavia Roussel non sarà il solo a figurare nell’ipotetica biblioteca ideale di Marcel Duchamp[18]. Accanto a Roussel troviamo infatti Jean-Pierre Brisset, la cui aberrante Grammatica logica[19] dimostra una grande capacità di condurre un’analisi filologica del linguaggio attraverso un’incredibile rete di giochi di parole che, in definitiva, connoterà sia la produzione delle Note delle Bôites[20] duchampiane che la produzione ‘letteraria’ di Marcel-Rrose Sélavy[21]. Ciò che interessa Marcel Duchamp è dunque il lato ‘poetico’ delle parole[22], quello che, per la sua natura eminentemente indicale, rimanda al di là del tempo e dello spazio «verso una radura»[23]. Ma che cos’è questa ‘radura’, questo luogo in cui l’artista francese cerca di individuare una dimensione ‘altra’ che, oltre a rendere la vita più sopportabile e più ricca, conduce lo spettatore a intravedere uno spazio in cui è solo l’idea a regnare? Si pensi, in questo senso, a come Duchamp perviene alla realizzazione dei suoi primi readymades e ci si chieda anche perché e come, al di là delle connotazioni oggettive, un readymades si carica di quel ‘coefficiente artistico’[24] che ne fa un’opera d’arte.
L’intervento dell’artista sembra, al primo sguardo, del tutto irrilevante se analizzato sotto l’aspetto operativo, consistendo semplicemente in una ‘scelta’ nell’individuazione concettuale di una realtà già materializzata che basta semplicemente indicare affinché prenda a vivere in una dimensione ‘altra’. E l’oggetto scelto, fino a quel momento identico a mille altri, comincia in tal modo, grazie ad un semplice gesto (la scelta dell’artista), ad inserirsi in una sfera ideale sganciata radicalmente dal mondo inerte e sprovvisto di significato delle cose.
Analizzando brevemente il processo che fa di un oggetto estratto dal mondo quotidiano un’opera d’arte, è evidente che il passaggio dalla dimensione ordinaria a quella ‘artistica’ è un processo che avviene piuttosto rapidamente ma che denota quella differenza minima che Duchamp chiama ‘inframince[25]. Tuttavia questo passaggio di natura più mentale che fisica non può avvenire senza l’intervento interpretativo dello spettatore. E’ dunque lo spettatore a fare l’opera[26], aggiungendo il proprio contributo al processo creativo; ecco perché è grazie all’osservatore che un orinatoio qualsiasi si trasforma, per inframince, nell’ Orinoir/Fountain di Marcel Duchamp. Infatti, i readymades in se stessi non sono arte, senza lo spettatore non esisterebbero come oggetti d’arte ma resterebbero ancorati alla funzione per cui sono stati fabbricati quali oggetti industriali. Ma, come affermerà in seguito Duchamp, nella mente dello spettatore agisce potente l’inframince, che «…putting art in the service of the mind, but also putting the mind in the service of Duchamp’s art [!]»[27].
Il concetto di inframince era stato esemplificato in alcune Note di Marcel Duchamp, quelle raccolte postume da Paul Matisse e pubblicate nel 1980 con il patrocinio del Centre Pompidou[28]. Secondo queste Note l’inframince denota uno spessore, una separazione, una differenza, un intervallo tra due cose ma generalmente poco percepibile. Nel 1945, infatti, alla domanda di Denis de Rougemont sull’inframince, Marcel Duchamp rispose: «Quando il fumo del tabacco ha anche l’odore della bocca che lo esala, i due odori si sposano per inframince (…). Non è una misura precisa da laboratorio. Il rumore o la musica prodotti da un pantalone di velluto a coste (…), quando si respira, è dell’ordine dell’inframince (…). Mi ha tenuto molto occupato negli ultimi dieci anni. Credo che attraverso l’inframince si possa passare dalla seconda alla terza dimensione»[29].
Hector Obalk, citando nella conclusione una Nota postuma di Duchamp, ha tentato recentemente una classificazione schematica del concetto di inframince: «En premier l’inframince signifie ‘très, très, très légèrement’, ce pourrait être un dixième de millimètre, le même de la minceur des papiers. Mais à ce niveau, le concept signifie ‘infinitésimal’, ce n’est pas nouveau ni intéressant. En deuxième, l’inframince caractérise n’importe quelle différence que vous imaginez facilement mais n’existe pas, comme l’épaisseur d’une ombre: l’ombre n’a aucune épaisseur, pas même à la précision d’un Angstroem. En troisième, l’inframince qualifie une distance ou une différence que vous ne pouvez pas percevoir, mais cela que vous pouvez seulement imaginer. Le meilleur exemple est la  séparation infra mince entre mont le bruit de détonation dun fusil (très proche) et la marque de lapparition de la marque de la balle sur la cible»[30].
Quindi l’inframince è qualcosa che sta nella mente, cioè è un operatore concettuale che di fronte ad un readymade di Marcel Duchamp porta a pensare l’oggetto che vediamo come ad un’opera d’arte.
Ma allora è possibile considerare di natura inframince anche lo sguardo della ragazza svizzera che nella mente dello scultore Alberto Giacometti ha potuto ispirare il suo The Invisible Object (1935), come ha acutamente rilevato il critico d’arte Rosalind Krauss[31]. Scarnificando la forma è dunque proprio lo sguardo dell’adolescente rimasto impresso nella mente dell’artista che alla fine emerge come operatore inframince e che fa sì che la pietra o il metallo scolpiti diventino creazione artistica. Infatti, mentre Giacometti crea ‘involontariamente’ i suoi modelli scarnificati protesi verso l’alto, fantasmi di un’esistenza o interpreti di una teorica forma di sopravvivenza, gli uomini e le donne che Giacometti scolpisce sono, come le opere di Marcel Duchamp, più una costruzione logico-mentale che visiva. Quella dell’artista è, dunque, una percezione ‘poetica’ della vita, perché tutto ciò che capita e accade sotto i nostri occhi ‘sta passando’, è in transito, e lo spazio che si interpone tra noi e il mondo che scrutiamo è in continuo mutamento. Siamo dunque di fronte all’opera d’arte che si manifesta come ‘arresto momentaneo’ del fluire del tempo, cioè un ‘ritardo’ in cui soltanto, seguendo ora quanto suggerito da Duchamp in una nota della Scatola Verde[32], è possibile intravedere, inframince, la fuggevole realtà.
In antitesi a quanto promuovevano i futuristi[33], ecco già in nuce la critica alla società delle macchine, intrisa di velocità e di iniziativa industriale in cui l’umanità e l’esistenza degli uomini va riducendosi sempre più ad una larva. Ciò che viene realizzato da Giacometti dunque è proprio questo: fare arte come ‘residuo’, cancellazione di ogni orpello, tentativo di arrivare all’esistente e rappresentarlo in forme irriducibili che dall’informe, per citare un termine caro a Georges Bataille[34], resistono ed emergono alla luce della coscienza.
L’inframince, o infrasottile, principio specificamente duchampiano di una ‘poetica del misurare’, diviene pertanto, in Duchamp e non solo, una pratica che conduce all’apparente azzeramento della forma, una specie di anestesia estetica oltre la quale ora si esperisce l’arte sotto forma di pensiero, minima gestualità e minima operatività: si pensi, in questo senso, ai readymades, ma anche ad opere come In the Manner of Delvaux (1942) o With my Tongue in my Cheek (1959), in cui il passaggio tra rappresentazione grafica (il disegno tracciato sulla carta) e realizzazione materica (il calco di parte del viso di Duchamp stesso) dello stesso soggetto è determinato da una semplice linea di demarcazione, un limen oltrepassato il quale si passa inframince da una dimensione ad un’altra.
Ma, riferendosi al concetto di inframince, si provi ora a formulare un’ulteriore interpretazione del Grande Vetro. Se ‘Retard en Verre’ significa infatti ‘Repos instantané’[35], ciò che appare alla vista dello spettatore non può che essere l’immagine inframince che si interpone tra due momenti in successione, ossia il passaggio (il limen) tra ciò che è stato e ciò che sarà. Ciò che la sposa del Grande Vetro è stata è probabilmente Dulcinea (1911), la donna che Duchamp aveva intravisto per caso in strada e riprodotto in una mise à nu in cinque sequenze successive e, in ogni caso, in uno spazio rigorosamente bidimensionale. Ciò che la sposa sarà è invece la donna-idea che appare, distesa, in Étant donnés: 1° la chute d'eau / 2° le gaz d'éclairage (1946-1966), cioè una ‘specie di donna’[36] immersa in uno spazio quadridimensionale, dove anche il trascorrere del tempo è ben visibile e udibile grazie allo scorrere dell’acqua della sorgente e al bec Auer che illumina, con un’ondulante e flebile fiamma, la scena: dati (donnés) che, ben presenti anche nel Grande Vetro, all’epoca rimanevano ancora invisibili (dans l’obsurité)[37]. Appare dunque evidente che quanto Duchamp ‘rappresenta’ nella sposa del Grande Vetro non è altro che la sposa tridimensionale, cioè l’‘apparence allégorique’[38] (o l’idea in potenza) che, in una ‘exposition extra rapide’[39], rinvia inframince ad un altro spazio, quello quadridimensionale, che non può essere che lo spazio delle idee, quello che poi emerge in tutta evidenza in Étant donné.







[1] Pubblicata in 300 esemplari, suo fine specifico, secondo le parole dello stesso Duchamp, era quello di «riunire in un album, come il catalogo di Saint-Etienne, i calcoli matematici e le riflessioni, senza alcun rapporto fra loro (…). Volevo che quest’album andasse insieme al Vetro e che si potesse consultare per vedere il Vetro perché, secondo me, quest’ultimo non andava visto nel senso estetico della parola. Era necessario consultare il libro e vederli insieme. La congiunzione delle due cose faceva sparire completamente l’aspetto retinico, che io non amo affatto»; cfr. M. Duchamp, Ingénieur du temps perdu, Pierre Belfond, Paris 1977; trad. it. Ingegnere del tempo perduto. Conversazione con Pierre Cabanne, a cura di W. Marchetti, Multhipla Ed., Milano 1979, p. 59.
Avvertenza: i riferimenti alle Note della Scatola Verde sono generalmente indicati con l’incipit di ognuna di esse e in lingua originale. La fonte bibliografica delle Note è sempre M. Duchamp, Duchamp du signe, écrits réunis et présentés par M. Sanouillet, Flammarion, Paris 1975, mentre le riproduzioni a stampa sono quelle de La Bôite Verte in dotazione alla Tate Gallery di Londra nella riproduzione Typo/Topography realizzata nel 1960 da Richard Hamilton sotto la direzione di Marcel  Duchamp [consultabile all’indirizzo internet
[2] A. Breton, Le Phare de la Mariée, in “Le Minotaure”, n. 6, Paris déc. 1934; ripubblicato con il titolo Marcel Duchamp. Le phare de la Mariée, in Le Surréalisme et la peinture, Gallimard, Paris 1979; tr. it. Il Surrealismo e la pittura, Marchi, Firenze 1966, pp. 85-99.
[3] Ibidem, p. 90.
[4] Termine specificamente duchampiano, denota l’intercambiabilità e la complementarietà, nell’opera duchampiana, tra ciò che comunica l’immagine e ciò che esprime la parola; cfr., in tal senso, le Note Poids à trous e Parties à regarder en louchant
[5] Cfr. S. Mallarmé, Un colpo di dadi non abolirà mai il caso (1897), in Poesie e prose, a cura di V. Ramacciotti, Garzanti, Milano 1977, pp. 399-423. Poeta molto apprezzato da Duchamp per la capacità di svuotare di senso le parole e farle ‘risuonare’ con echi e significati sempre diversi, ne subì più direttamente l’influenza nella concezione che in seguito Duchamp svilupperà riguardo l’hazard, il caso. Per Octavio Paz, infatti, «La obra gemela del ‘Gran Vidrio’ es ‘Un coup de dés’», cfr. O. Paz, Marcel Duchamp o el castillo de la pureza, Era, Mexico 1968; tr. it. Il Castello della purezza, Studio Tesi, Roma 1990, p. 50. A proposito di Mallarmé, Duchamp stesso affermò: «L’arte moderna dovrebbe volgere nella direzione tracciata da Mallarmé: per un’espressione intellettuale e non meramente animale», cfr. M. Duchamp, Ingénieur du temps perdu, cit. 37.
[6] Cfr. A. Gervais, Un Chapeau à le livre de J. Suquet, Le Grand Verre: Visite Guidée, L’Echoppe, Paris 1992 [in http://www.toutfait.com/issues/issue_1/Articles/largeglassFrench.html].
[7] Ibidem.
[8] E’ possibile pensare, in tal senso, che nel riunire le Note della Scatola Verde Duchamp abbia voluto che queste restassero sciolte e libere di dar luogo, nei diversi accostamenti possibili, a sempre nuove reazioni ‘chimiche’, in cui l’hazard diviene l’unico ‘principio regolatore’? In effetti, quando si consultano i testi che riproducono in ordine tematico le Note (ad esempio, il citato Duchamp du signe curato da Michel Sanouillet), si perde molto delle possibilità immaginative e semiotiche che potrebbero scaturire se si consultassero le Note stesse accostandole tra loro con combinazioni sempre diverse. Magia del linguaggio duchampiano, esemplificato già nelle prime due Note congiunte Préface. Étant donnés… e Avvertissement. Étant donnés (dans l’obsurité), in cui si legge come l’hazard sia la regola e il signe de la concordance la relazione tra «cet Repos (capable de touse les excentricités innombrables)» e «un choix de Possibilités»; cfr. M. Duchamp, Duchamp du signe, cit., pp. 36-37.
[9] M. Duchamp, Declarations to James Johnson Sweeney, in “The Bulletin of the Museum of Modern Art”, vol. XIII, nn. 4-5, New York 1946; tr. it. Dichiarazioni raccolte da James Johnson Sweeney, in Marcel Duchamp, a cura di E. Grazioli, in “Riga”, n. 5, Marcos y Marcos, Milano 1993, pp. 21-22.
[10] Ibidem, p. 22.
[11] Cfr. M. Duchamp, Ingegnere del tempo perduto, cit., p. 41.
[12] Alle Dimanches e ad altre opere di Laforgue rimandano alcuni disegni di Duchamp eseguiti intorno agli anni 1908-09.
[13] Per tutte le opere qui citate cfr. J. Laforgue, Poesie e Prose, a cura di I. Margoni, Mondatori, Milano 1998.
[14] Certamente, però, pensando al Nu descendant un escalier, non si può non ricordare l’Igitur mallarméano che, appena pochi anni prima, aveva sceso le scale per raggiungere la cripta dei suoi antenati, una discesa in una zona di silenzio in cui lo spirito solitario affronterà l’assoluto e la sua maschera, il caso; cfr. O. Paz, Apparenza nuda, cit., p. 18.
[15] M. Duchamp, Ingegnere del tempo perduto, cit., p. 40.
[16] Cfr. le tavole ad olio dipinte a Monaco nel 1912, la Mariée e Le passage de la vierge à la mariée, che furono prodromiche al Grande Vetro.
[17] Cfr. R. Roussel, Comment j’ai écrit certains de mes livres, J.-J. Pauvert, Paris 1935 [tr. it. in Locus solus, a cura di P. Dècina Lombardi, Einaudi, Torino 1975, pp. 264-285].
[18] Cfr. M. Duchamp, Dichiarazioni raccolte da James Johnson Sweeney, in Marcel Duchamp, a cura di E. Grazioli, cit., p. 22; M. Décimo, La bibliothèque de Marcel Duchamp, peut-être, Les Presses du Réel, Dijon 2002.
[19] Cfr. J.-P. Brisset, La Grammaire logique, ou théorie d’une nouvelle analyse mathématique…, Editions Ernest Leroux, Paris 1883, in Œuvres complètes, édité par Marc Decimo, Les Presses du Réel, Dijon 2001.
[20] Ad esempio, in una nota pubblicata postuma nel 1980, risulta chiaro il riferimento alla “grande legge o chiave della parola”, il postulato elementare formulato da Brisset ed esemplificato in una serie sonora (cfr. Nota Fossettes d’aisances in M. Duchamp, Notes, notes inédites réunies et présentées par Paul Matisse et Pontus Hulten, Centre Georges Pompidou, Paris 1980, con l’aforisma Les dents, la bouche di Brisset, riportato da Michel Sanouillet in M. Duchamp, Mercante del segno, cit., p. 125).
[21] Cfr. Rrose Sélavy, oculisme de précision, poils et coups de pied en tous genres, Guy Lévis-Mano, Paris 1939.
[22] Cfr. M. Duchamp, Ingegnere del tempo perduto, cit., p. 56.
[23] Cfr. M. Duchamp, Il processo creativo, in Marcel Duchamp, a cura di Elio Grazioli, cit., p. 25.
[24] Ibidem.
[25] Cfr. le diverse Note raccolte postume in M. Duchamp, Notes, notes inédites réunies et présentées par Paul Matisse, cit.
[26] Da cui il detto duchampiano divenuto ormai famoso «Sont le regardeurs que font les tableaux», cfr. Marcel Duchamp, vite, entrevue avec Jean Schuster, in “Le Surréalisme même”, n. 2, Paris printemps 1957.
[27] J.D. Russell, Marcel Duchamp’s Readymades: Walking on Infrathin Ice, 2003 [http://www.dada-companion.com/duchamp/archive/duchamp_walking_on_infrathin_ice.pdf ].
[28] Cfr. le Note Semblablité. Similarité, Quand le fumée, Séparation infra mince, Séparation infra-mince, La différence (dimensionnelle) entre e  Acheter ou prendre des tableaux raccolte postume in M. Duchamp, Notes, notes inédites réunies et présentées par Paul Matisse, cit.
[29] D. de Rougemont, Marcel Duchamp come se niente fosse, in Marcel Duchamp, a cura di E. Grazioli, cit., p. 73, cfr. Nota Quand le fumée in M. Duchamp, Notes, cit. [il corsivo è nostro].
[30] H. Obalk, The Unfindable Readymade (1996), in “Tout-fait. The Marcel Duchamp Studies Online Journal”,  vol. 1, issue 2, Articles, may 2000 [http://www.toutfait.com/issues/issue_2/Articles/obalk.html]. Nella conclusione viene citata la Nota Séparation infra mince in M. Duchamp, Notes, cit.
[31] Rosalind Krauss vede, infatti, in Giacometti il fondatore di quel nuovo paradigma che altera profondamente i parametri della scultura, operando un ripiegamento dell’opera nello spazio fino allora occupato dal semplice piedistallo. Per le conseguenze di questo importante passaggio cfr. R. Krauss, No More Play, in The Originality of the Avant-Garde and Other Modernist Myths, MIT Press, Cambridge (MA) 1986, dove già si avverte la conclusione kraussiana sull’arte ‘celibe’, ossia quel tipo d’arte che dall’alterità, dall’informe, dal declassamento emerge grazie ad un processo di ‘sfocatura categoriale’, che non è affatto imprecisione o vaghezza di definizioni, ma più precisamente una sfocatura che implica l’infrangersi di molte barriere (o ‘categorie’) dando vita così quell’arte ‘celibe’ che, con molto anticipo, Marcel Duchamp aveva avviato all’inizio del secolo (cfr. in tal senso R. Krauss, Bachelors, MIT Press, Cambridge (MA) 2000 [tr. it. Celibi, Ed. Codice, 2004] e Y.-A. Bois, R. Krauss, L'Informe. Mode d'Emploi, Centre Georges Pompidou, Paris 1996 [tr. it. L'informe. Istruzioni per l’uso, Bruno Mondatori, Milano 2003].
[32] Cfr. Nota Sorte de sous-titre. Retard en Verre, in M. Duchamp, Duchamp du signe, cit., p. 34.
[33] “Un automobile ruggente (…), è più bello della Vittoria di Samotracia” cfr. F.T. Marinetti, Fondation et Manifeste du futurism, “Figaro”, Paris 20 feb 1909, in M. De Micheli, Le avanguardie artistiche del Novecento, Feltrinelli, Milano 1981, p. 368.
[34] Cfr. G. Bataille, voce Informe, in “Documents”, vol. 1, Paris 1929, p. 382; cfr. anche L’art primitif, in “Documents”, vol. 2, n. 7, Paris 1930, pp. 389-397 [ora in Œuvres Complètes, Gallimard, Paris 1970, pp. 247-254].
[35] Cfr. Nota Sorte de sous-titre. Retard en Verre, in M. Duchamp, Duchamp du signe, cit., p. 34.
[36] Concettualmente ben diversa da quella ritratta in L’origine du Monde (1866) da Gustav Courbet, iniziatore, a detta di Duchamp, della pittura ‘retinica’.
[37] Cfr. Nota Avvertissement. Étant donnés (dans l’obsurité), in M. Duchamp, Duchamp du signe, cit., p. 37.
[38] Ibidem.
[39] Ibidem.