Il Grande
Vetro ovvero la visione ‘poetica’ di Marcel Duchamp
by Massimo
Riparini
Fra tutte le
opere del XX° secolo, probabilmente non ve ne sono altre che abbiano tanto
stimolato l’immaginazione di cultori e critici d’arte e messo alla prova la
loro erudizione e ingegnosità interpretativa quanto La Mariée mise à nu par ses
célibataires, même (o Grand
Verre), un’opera realizzata su vetro, tra il 1915 e il 1923, dall’artista
francese Marcel Duchamp. Quando in seguito (1934) Duchamp decise di pubblicare La Boîte Verte (una
scatola contenente novantatré note di appunti riguardanti la realizzazione de La Mariée mise à nu…)[1] e ci
fu anche il primo importante commento critico al Grand Verre a firma di André Breton[2], si
ebbe subito l’impressione che l’opera, fra tutte, dovesse assumere il ruolo di principale
punto di riferimento di tutta l’arte a venire.
Con grande
lucidità e intuito, Breton fece un’importante rivelazione, perché definire ‘phare’
la Mariée
mise à nu… significava imporre un profondo ripensamento dello statuto e del
ruolo che l’artista e l’opera d’arte dovevano assumere. Tuttavia, ciò che
Breton maggiormente evidenziava nel suo tentativo di decifrazione dell’opera, era
l’enorme sconquasso interpretativo che la pubblicazione de La
Boîte Verte andava
provocando, un avvenimento di rilevanza capitale per la storia dell’arte che ci
fa intravedere quanto di più complesso e ricco vi è in quell’enorme ‘meccanismo’
che Duchamp volle congegnare con il Grande Vetro. Per Breton gli appunti
de La Boîte Verte
permettono, infatti, di penetrare meglio «l’impresa senza equivalenti nella
storia contemporanea», un’opera nella quale «è impossibile non scorgere almeno
il bottino di una favolosa partita di caccia in terre vergini, ai confini
dell’erotismo, della speculazione filosofica, dello spirito sportivo, degli
ultimi portati della scienza»[3].
Gli appunti, secondo Breton, gettano così sull’opera
preziosissime indicazioni, che rimandano semanticamente ad altre opere e ad altri
‘luoghi’ duchampiani. Dunque, sono un supplemento d’informazione ma dato, in
questo caso, miroiriquement[4] con l’opera
stessa. Si tratta pertanto di un’avventura tendenzialmente di tipo mentale, la
cui interpretazione non può per questo restringersi ad un’analisi
esclusivamente visiva, spaziale. Per Breton, infatti, a quest’analisi di base
occorre aggiungerne altre, quelle che attengono al campo del filosofico, del
poetico, del romanzesco, dell’umoristico, dell’erotico. In tal modo, illimitati
gli approcci, illimitate divengono le interpretazioni possibili: eccoci così di
fronte ad un nuovo ‘lancio di dadi’, assai simile, per molti aspetti, a quello
che sul finire del XIX° secolo Stéphane Mallarmé[5] aveva
scagliato nel desolato campo della poesia.
Ma ecco emergere qui un argomento considerato ‘intricato’
e ‘spinoso’ dagli storici dell’arte e che soltanto pochi esperti cultori dell’arte
duchampiana hanno affrontato e usato come parametro interpretativo dell’opera
di Marcel Duchamp, il quale, rispondendo ad una lettera di Jean Suquet, che gli
comunicava di voler scrivere sulla sua opera non in forma di critica ma ‘in forma di poesia’, perentoriamente affermava: «la poesia è il solo modo per dire qualche
cosa»[6]. Tale
propensione dell’artista alla poesia trovava poi conferma in una seconda
lettera in cui, ringraziando ancora Suquet, Duchamp dichiarava: «D’altronde,
dovrei farvi un monumento per aver messo a nudo [grazie alla forma poetica] la
mia ‘messa a nudo’»[7].
Con Duchamp, però, una nuova destrutturazione del
linguaggio artistico (sia visivo che ‘poetico’) ha avuto luogo. Per Duchamp,
come già per Mallarmé, nell’opera d’arte espressione e comunicazione si
separano. L’opera, infatti, non ‘rappresenta’ più, ma semplicemente si autorappresenta,
per cui l’atto di produzione di un testo o di un opera diventa un atto di
autoriflessione o di autorispecchiamento infinito. Nessuna concessione è fatta
alla comunicazione. Si capisce allora come la poesia ‘visuale’ mallarméana e la
visione ‘poetica’ duchampiana diventino lo strumento privilegiato per questo
nuovo tipo di esperienza artistica e si capisce anche come quest’opera risulti
‘difficile’ per chi cerchi in essa la comunicazione o la rappresentazione di
tipo convenzionale. Nelle Note della Scatola Verde questo particolare tipo
di poesia traspare tra i mille echi e giochi di rimando del vocabolario
adottato; ogni Nota, infatti, entrando alternativamente in relazione-collisione
con le altre[8], produce nuove risonanze,
nuove interpretazioni e, infine, ‘nuova poesia’.
La
letteratura, dunque, e la poesia soprattutto, sono sempre sullo sfondo
dell’opera di Marcel Duchamp. «Apollinaire fu il primo a mostrarmi le opere di
Roussel (…). Fondamentalmente fu Roussel il responsabile del mio Vetro
(...). Furono le sue Impressions d’Afrique
a indicarmi in grandi linee la prassi da adottare (…). Vidi immediatamente che
potevo subire l’influenza di Roussel. Pensavo che come pittore era meglio
essere influenzato da uno scrittore che da un altro pittore. E Roussel mi
mostrò la strada»[9]. A queste dichiarazioni
rilasciate a J.J. Sweeney nel 1946, Duchamp aggiunse infine: «Ecco la direzione
che deve prendere l’arte: l’espressione intellettuale piuttosto che
l’espressione animale. Ne ho abbastanza dell’espressione ‘stupido come un pittore’»[10].
In queste affermazioni
quindi è evidente come Duchamp abbia cercato nella letteratura piuttosto che
nella pittura la sua fonte di ispirazione. Ma già prima del Grande Vetro, per il quale dichiarerà
apertamente l’influenza rousseliana, gli interessi letterari di Duchamp erano
in gran parte orientati verso Jules Laforgue[11],
poeta che visse con ossessione la noia che divora l’esistenza (basti pensare
alla serie interminabile delle Dimanches, funeree ‘processioni’ di
domeniche che ingrigiscono l’esistenza umana e ne sottolineano il malessere)[12],
preda di uno spleen che tuttavia oscilla
sempre tra il popolare ed il sublime, l’humor sarcastico delle Moralites Legendaires e la dolorosa
partecipazione de Le sanglot de la terre[13],
che rappresentano, comunque, una via d’uscita dal simbolismo.
Ad esso Duchamp si ispirò sia per Jeune homme triste dans un train (1911), nel cui titolo traspare il gusto per
l’allitterazione laforghiana, sia per l’opera che lo avrebbe portato a rompere
con la pittura, il Nu descendant un escalier
(1912), le cui origini risalgono ad un disegno ispirato ai versi
laforghiani di Encore à cet astre
(1912)[14].
Ma, a ben vedere, il gusto per l’allitterazione velata di humor di origine
laforghiana emerge anche a livello visivo: basti pensare a quanto Duchamp aveva
dichiarato a proposito della rappresentazione del movimento, ch’egli fa
scaturire grazie alla singolare idea del ‘parallelismo elementare’: sorta di ‘allitterazione’
di forme e linee «che si inseguono parallelamente mutando dolcemente per creare
il movimento e la forma in questione»[15].
Dopo Laforgue, fu dunque la scoperta di
Raymond Roussel a determinare l’opera futura di Marcel Duchamp. Già durante il
soggiorno monacense del luglio-agosto 1912, l’artista francese rifletteva sulle
possibilità di uscire dalla pittura retinica applicando alle proprie opere[16]
una tecnica ‘secca’, intellettuale, ossia un procedimento tecnico di
rappresentazione completamente affrancato da un approccio esclusivamente
visivo, fisico e mimetico della realtà.
Ma per capire questa disposizione occorre
tornare alla primavera del 1912, allo stupore e alle impressioni ricevute a
Parigi al teatro Antoine, dove l’artista, in compagnia di Apollinaire, Picabia
e Gabrielle Buffet, ebbe la fortuna di assistere alla rappresentazione di Impressions d’Afrique curata nei minimi dettagli dallo stesso Roussel. Duchamp
vide i personaggi, gli oggetti e le installazioni rousseliane realizzarsi sulla
scena e intuì, attraverso la rousseliana esaltazione dell’insolito strettamente
intrecciata al gioco delle dislocazioni linguistiche, la risoluzione al proprio
problema: trovare quell’arte ‘secca’, intellettuale e non retinica che
l’avrebbe portato verso una dimensione altra, ‘magica’ ed ‘extra-umana’.
Assistiamo, in tal modo, alla liquidazione di una tradizione plurisecolare
dell’arte: macchine celibi e readymades
sono lì sulla scena e già presenti in potenza davanti ai suoi occhi.
Ma Roussel era
forse l’uomo in fuga dalla realtà verso un mondo di pura immaginazione? In effetti, ciò che di Roussel affascinava
Duchamp era l’immaginazione delirante che poteva scaturire all’infinito
partendo da una semplice frase, come successivamente Roussel illustrerà in Comment j’ai écrit certains de mes livres[17],
testo apparso nel 1935 come ‘libretto di istruzioni’ sulla scrittura adottata
per la composizione di Impressions d’Afrique e di Locus solus.
Tuttavia Roussel non sarà il solo a figurare
nell’ipotetica biblioteca ideale di Marcel Duchamp[18].
Accanto a Roussel troviamo infatti Jean-Pierre Brisset, la cui aberrante Grammatica logica[19] dimostra una grande capacità di
condurre un’analisi filologica del linguaggio attraverso un’incredibile rete di
giochi di parole che, in definitiva, connoterà sia la produzione delle Note
delle Bôites[20]
duchampiane che la produzione ‘letteraria’ di Marcel-Rrose Sélavy[21].
Ciò che interessa Marcel Duchamp è dunque il lato ‘poetico’ delle parole[22],
quello che, per la sua natura eminentemente indicale, rimanda al di là del
tempo e dello spazio «verso una radura»[23].
Ma che cos’è questa ‘radura’, questo luogo in cui l’artista francese cerca di
individuare una dimensione ‘altra’ che, oltre a rendere la vita più
sopportabile e più ricca, conduce lo spettatore a intravedere uno spazio in cui
è solo l’idea a regnare? Si pensi, in questo senso, a come Duchamp perviene alla
realizzazione dei suoi primi readymades
e ci si chieda anche perché e come, al di là delle connotazioni oggettive, un readymades si carica di quel ‘coefficiente
artistico’[24]
che ne fa un’opera d’arte.
L’intervento
dell’artista sembra, al primo sguardo, del tutto irrilevante se analizzato sotto
l’aspetto operativo, consistendo semplicemente in una ‘scelta’
nell’individuazione concettuale di una realtà già materializzata che basta semplicemente
indicare affinché prenda a vivere in una dimensione ‘altra’. E l’oggetto
scelto, fino a quel momento identico a mille altri, comincia in tal modo, grazie
ad un semplice gesto (la scelta dell’artista), ad inserirsi in una sfera ideale
sganciata radicalmente dal mondo inerte e sprovvisto di significato delle cose.
Analizzando brevemente il processo che fa di
un oggetto estratto dal mondo quotidiano un’opera d’arte, è evidente che il
passaggio dalla dimensione ordinaria a quella ‘artistica’ è un processo che
avviene piuttosto rapidamente ma che denota quella differenza minima che
Duchamp chiama ‘inframince’[25].
Tuttavia questo passaggio di natura più mentale che fisica non può avvenire
senza l’intervento interpretativo dello spettatore. E’ dunque lo spettatore a
fare l’opera[26],
aggiungendo il proprio contributo al processo creativo; ecco perché è grazie
all’osservatore che un orinatoio qualsiasi si trasforma, per inframince, nell’ Orinoir/Fountain
di Marcel Duchamp. Infatti, i readymades
in se stessi non sono arte, senza lo spettatore non esisterebbero come oggetti
d’arte ma resterebbero ancorati alla funzione per cui sono stati fabbricati
quali oggetti industriali. Ma, come affermerà in seguito Duchamp, nella mente
dello spettatore agisce potente l’inframince,
che «…putting art in the service of the mind, but also putting the mind in the
service of Duchamp’s art [!]»[27].
Il concetto di
inframince era stato esemplificato in
alcune Note di Marcel Duchamp, quelle raccolte postume da Paul Matisse e
pubblicate nel 1980 con il patrocinio del Centre Pompidou[28]. Secondo
queste Note l’inframince denota uno
spessore, una separazione, una differenza, un intervallo tra due cose ma generalmente
poco percepibile. Nel 1945, infatti, alla domanda di Denis de Rougemont sull’inframince, Marcel Duchamp rispose: «Quando
il fumo del tabacco ha anche l’odore della bocca che lo esala, i due odori si
sposano per inframince (…). Non è una
misura precisa da laboratorio. Il rumore o la musica prodotti da un pantalone
di velluto a coste (…), quando si respira, è dell’ordine dell’inframince (…). Mi ha tenuto molto
occupato negli ultimi dieci anni. Credo
che attraverso l’inframince si possa passare dalla seconda alla terza dimensione»[29].
Hector Obalk,
citando nella conclusione una Nota postuma di Duchamp, ha tentato recentemente
una classificazione schematica del concetto di inframince: «En premier
l’inframince signifie ‘très, très,
très légèrement’, ce pourrait être un dixième de millimètre, le même de la
minceur des papiers. Mais à ce niveau, le concept signifie ‘infinitésimal’, ce
n’est pas nouveau ni intéressant. En deuxième, l’inframince caractérise n’importe quelle différence que vous
imaginez facilement mais n’existe pas, comme l’épaisseur d’une ombre: l’ombre
n’a aucune épaisseur, pas même à la précision d’un Angstroem. En troisième, l’inframince qualifie une distance ou une différence que vous ne
pouvez pas percevoir, mais cela que vous pouvez seulement imaginer. Le
meilleur exemple est la séparation
infra mince entre mont le bruit de détonation d’un fusil (très proche) et la marque de l’apparition de la marque de la balle sur la cible»[30].
Quindi l’inframince è qualcosa che sta nella
mente, cioè è un operatore concettuale che di fronte ad un readymade di Marcel Duchamp porta a pensare l’oggetto che vediamo
come ad un’opera d’arte.
Ma allora è
possibile considerare di natura inframince
anche lo sguardo della ragazza svizzera che nella mente dello scultore Alberto
Giacometti ha potuto ispirare il suo The Invisible Object
(1935), come ha acutamente rilevato il critico d’arte Rosalind Krauss[31].
Scarnificando la forma è dunque proprio lo sguardo dell’adolescente rimasto
impresso nella mente dell’artista che alla fine emerge come operatore inframince e che fa sì che la pietra o
il metallo scolpiti diventino creazione artistica. Infatti, mentre Giacometti
crea ‘involontariamente’ i suoi modelli scarnificati protesi verso l’alto,
fantasmi di un’esistenza o interpreti di una teorica forma di sopravvivenza,
gli uomini e le donne che Giacometti scolpisce sono, come le opere di Marcel
Duchamp, più una costruzione logico-mentale che visiva. Quella dell’artista è, dunque,
una percezione ‘poetica’ della vita, perché tutto ciò che capita e accade sotto
i nostri occhi ‘sta passando’, è in transito, e lo spazio che si interpone tra
noi e il mondo che scrutiamo è in continuo mutamento. Siamo dunque di fronte
all’opera d’arte che si manifesta come ‘arresto momentaneo’ del fluire del
tempo, cioè un ‘ritardo’ in cui soltanto, seguendo ora quanto suggerito da
Duchamp in una nota della Scatola Verde[32], è
possibile intravedere, inframince, la
fuggevole realtà.
In antitesi a
quanto promuovevano i futuristi[33],
ecco già in nuce la critica alla società delle macchine, intrisa di velocità e di
iniziativa industriale in cui
l’umanità e l’esistenza degli uomini va riducendosi sempre più ad una larva.
Ciò che viene realizzato da Giacometti dunque è proprio questo: fare arte come ‘residuo’,
cancellazione di ogni orpello, tentativo di arrivare all’esistente e rappresentarlo
in forme irriducibili che dall’informe,
per citare un termine caro a Georges Bataille[34], resistono
ed emergono alla luce della coscienza.
L’inframince, o infrasottile, principio
specificamente duchampiano di una ‘poetica del misurare’, diviene pertanto, in
Duchamp e non solo, una pratica che conduce all’apparente azzeramento della
forma, una specie di anestesia estetica oltre la quale ora si esperisce l’arte
sotto forma di pensiero, minima gestualità e minima operatività: si pensi, in
questo senso, ai readymades, ma anche
ad opere come In the Manner of Delvaux
(1942) o With my Tongue in my Cheek
(1959), in cui il passaggio tra rappresentazione grafica (il disegno tracciato
sulla carta) e realizzazione materica (il calco di parte del viso di Duchamp
stesso) dello stesso soggetto è determinato da una semplice linea di demarcazione,
un limen oltrepassato il quale si
passa inframince da una dimensione ad
un’altra.
Ma, riferendosi
al concetto di inframince, si provi
ora a formulare un’ulteriore interpretazione del Grande Vetro. Se ‘Retard en Verre’ significa infatti ‘Repos
instantané’[35], ciò che appare alla vista
dello spettatore non può che essere l’immagine inframince che si interpone tra due momenti in successione, ossia
il passaggio (il limen) tra ciò che è
stato e ciò che sarà. Ciò che la sposa del Grande
Vetro è stata è probabilmente Dulcinea (1911),
la donna che Duchamp aveva intravisto per caso in strada e riprodotto in una mise à nu in cinque sequenze successive
e, in ogni caso, in uno spazio rigorosamente bidimensionale. Ciò che la sposa
sarà è invece la donna-idea che appare, distesa, in Étant donnés: 1° la chute
d'eau / 2° le gaz d'éclairage (1946-1966),
cioè una ‘specie di donna’[36]
immersa in uno spazio quadridimensionale, dove anche il trascorrere del tempo è
ben visibile e udibile grazie allo scorrere dell’acqua della sorgente e al bec
Auer che illumina, con un’ondulante e flebile fiamma, la scena: dati (donnés) che, ben presenti anche nel Grande Vetro, all’epoca rimanevano ancora
invisibili (dans l’obsurité)[37]. Appare
dunque evidente che quanto Duchamp ‘rappresenta’ nella sposa del Grande Vetro non è altro che la sposa
tridimensionale, cioè l’‘apparence allégorique’[38] (o l’idea
in potenza) che, in una ‘exposition extra rapide’[39],
rinvia inframince ad un altro spazio,
quello quadridimensionale, che non può essere che lo spazio delle idee, quello che
poi emerge in tutta evidenza in Étant donné.
[1]
Pubblicata in 300 esemplari, suo fine specifico, secondo le parole dello stesso
Duchamp, era quello di «riunire in un album, come il catalogo di Saint-Etienne,
i calcoli matematici e le riflessioni, senza alcun rapporto fra loro (…). Volevo
che quest’album andasse insieme al Vetro
e che si potesse consultare per vedere il Vetro
perché, secondo me, quest’ultimo non andava visto nel senso estetico della
parola. Era necessario consultare il libro e vederli insieme. La congiunzione
delle due cose faceva sparire completamente l’aspetto retinico, che io non amo
affatto»; cfr. M. Duchamp, Ingénieur du temps perdu, Pierre
Belfond, Paris 1977; trad. it. Ingegnere
del tempo perduto. Conversazione con Pierre Cabanne, a cura di W.
Marchetti, Multhipla Ed., Milano 1979, p. 59.
Avvertenza: i riferimenti alle Note della Scatola Verde sono generalmente indicati
con l’incipit di ognuna di esse e in lingua originale. La fonte bibliografica
delle Note è sempre M. Duchamp, Duchamp du signe, écrits réunis et
présentés par M. Sanouillet, Flammarion, Paris 1975, mentre le riproduzioni a
stampa sono quelle de La Bôite Verte in
dotazione alla Tate Gallery di Londra nella riproduzione Typo/Topography
realizzata nel 1960 da Richard Hamilton sotto la direzione di Marcel Duchamp [consultabile all’indirizzo internet
[2] A. Breton, Le Phare de la
Mariée, in “Le Minotaure”, n. 6, Paris déc. 1934; ripubblicato
con il titolo Marcel Duchamp. Le phare de la Mariée, in Le
Surréalisme et la peinture, Gallimard, Paris 1979; tr. it. Il
Surrealismo e la pittura, Marchi, Firenze 1966, pp. 85-99.
[3] Ibidem,
p. 90.
[4] Termine specificamente duchampiano, denota
l’intercambiabilità e la complementarietà, nell’opera duchampiana, tra ciò che
comunica l’immagine e ciò che esprime la parola; cfr., in tal senso, le Note Poids à trous e
Parties à regarder en louchant.
[5] Cfr. S. Mallarmé, Un colpo di dadi non abolirà mai il caso (1897), in Poesie e prose, a cura di V.
Ramacciotti, Garzanti, Milano 1977, pp. 399-423. Poeta molto apprezzato da Duchamp
per la capacità di svuotare di senso le parole e farle ‘risuonare’ con echi e
significati sempre diversi, ne subì più direttamente l’influenza nella
concezione che in seguito Duchamp svilupperà riguardo l’hazard, il caso. Per Octavio Paz, infatti, «La obra gemela del ‘Gran
Vidrio’ es ‘Un coup de dés’», cfr. O. Paz,
Marcel Duchamp o el castillo de la pureza,
Era, Mexico 1968; tr. it. Il Castello
della purezza, Studio Tesi, Roma 1990, p. 50. A proposito di Mallarmé,
Duchamp stesso affermò: «L’arte moderna dovrebbe volgere nella direzione
tracciata da Mallarmé: per un’espressione intellettuale e non meramente
animale», cfr. M. Duchamp, Ingénieur du
temps perdu, cit. 37.
[6] Cfr. A. Gervais, Un Chapeau à le livre de J. Suquet, Le Grand Verre: Visite Guidée, L’Echoppe,
Paris 1992 [in http://www.toutfait.com/issues/issue_1/Articles/largeglassFrench.html].
[7] Ibidem.
[8] E’
possibile pensare, in tal senso, che nel riunire le Note della Scatola Verde Duchamp abbia voluto che queste
restassero sciolte e libere di dar luogo, nei diversi accostamenti possibili, a
sempre nuove reazioni ‘chimiche’, in cui l’hazard
diviene l’unico ‘principio regolatore’? In effetti, quando si consultano i
testi che riproducono in ordine tematico le Note (ad esempio, il citato Duchamp du signe curato da Michel
Sanouillet), si perde molto delle possibilità immaginative e semiotiche che
potrebbero scaturire se si consultassero le Note stesse accostandole tra loro
con combinazioni sempre diverse. Magia del linguaggio duchampiano,
esemplificato già nelle prime due Note congiunte Préface. Étant donnés… e Avvertissement. Étant
donnés (dans l’obsurité),
in cui si legge come l’hazard sia la
regola e il signe de la concordance
la relazione tra «cet Repos (capable de touse les excentricités innombrables)»
e «un choix de Possibilités»; cfr. M. Duchamp,
Duchamp du signe, cit., pp. 36-37.
[9] M.
Duchamp, Declarations to James Johnson Sweeney, in “The Bulletin of the Museum of Modern Art”,
vol. XIII, nn.
4-5, New York 1946; tr. it. Dichiarazioni raccolte da James
Johnson Sweeney, in Marcel Duchamp, a cura di E. Grazioli, in
“Riga”, n. 5, Marcos y Marcos, Milano 1993, pp. 21-22.
[10]
Ibidem, p. 22.
[11] Cfr.
M. Duchamp, Ingegnere del tempo perduto, cit., p. 41.
[13] Per
tutte le opere qui citate cfr. J. Laforgue, Poesie e Prose, a cura di I. Margoni, Mondatori, Milano
1998.
[14]
Certamente, però, pensando al Nu descendant un escalier, non si
può non ricordare l’Igitur
mallarméano che, appena pochi anni prima, aveva sceso le scale per raggiungere
la cripta dei suoi antenati, una discesa in una zona di silenzio in cui lo
spirito solitario affronterà l’assoluto e la sua maschera, il caso; cfr. O. Paz, Apparenza nuda, cit., p. 18.
[15] M. Duchamp, Ingegnere del tempo perduto, cit., p. 40.
[16] Cfr.
le tavole ad olio dipinte a Monaco nel 1912, la Mariée e Le passage de la vierge à la
mariée, che furono prodromiche al Grande Vetro.
[17] Cfr. R.
Roussel, Comment j’ai écrit certains de mes livres, J.-J. Pauvert, Paris 1935 [tr. it. in Locus solus, a cura di P. Dècina
Lombardi, Einaudi, Torino 1975, pp. 264-285].
[18] Cfr. M.
Duchamp, Dichiarazioni raccolte da James Johnson Sweeney, in Marcel
Duchamp, a cura di E. Grazioli, cit.,
p. 22; M. Décimo, La bibliothèque de Marcel Duchamp, peut-être,
Les Presses du Réel, Dijon 2002.
[19] Cfr. J.-P. Brisset, La Grammaire logique, ou théorie d’une
nouvelle analyse mathématique…, Editions Ernest Leroux, Paris 1883, in Œuvres complètes, édité par Marc Decimo, Les Presses du Réel, Dijon 2001.
[20] Ad
esempio, in una nota pubblicata postuma nel 1980, risulta chiaro il riferimento
alla “grande legge o chiave della parola”, il postulato elementare formulato da
Brisset ed esemplificato in una serie sonora (cfr. Nota Fossettes d’aisances
in M. Duchamp, Notes, notes
inédites réunies et présentées par Paul Matisse
et Pontus Hulten, Centre Georges Pompidou, Paris 1980, con
l’aforisma Les dents, la bouche di Brisset, riportato da Michel Sanouillet in M. Duchamp, Mercante
del segno, cit., p. 125).
[21] Cfr. Rrose Sélavy, oculisme de précision, poils et coups de
pied en tous genres, Guy Lévis-Mano, Paris 1939.
[22] Cfr.
M. Duchamp, Ingegnere del tempo perduto, cit., p. 56.
[23] Cfr.
M. Duchamp, Il processo creativo, in Marcel Duchamp, a cura di Elio Grazioli,
cit., p. 25.
[24] Ibidem.
[25] Cfr. le diverse Note raccolte postume in M. Duchamp, Notes, notes inédites réunies et présentées par Paul Matisse, cit.
[26] Da cui il detto duchampiano
divenuto ormai famoso «Sont le regardeurs que font les tableaux», cfr. Marcel Duchamp, vite, entrevue avec Jean Schuster, in “Le Surréalisme même”, n. 2, Paris printemps 1957.
[27] J.D.
Russell, Marcel
Duchamp’s Readymades: Walking on Infrathin Ice, 2003 [http://www.dada-companion.com/duchamp/archive/duchamp_walking_on_infrathin_ice.pdf
].
[28] Cfr. le Note Semblablité. Similarité, Quand le fumée, Séparation infra mince,
Séparation infra-mince,
La différence (dimensionnelle) entre e Acheter ou prendre des tableaux raccolte postume in M. Duchamp, Notes, notes inédites réunies et présentées par Paul Matisse, cit.
[29] D. de Rougemont, Marcel Duchamp come se niente fosse, in Marcel Duchamp, a cura di E. Grazioli, cit., p. 73, cfr. Nota Quand le fumée
in M. Duchamp, Notes, cit. [il corsivo è nostro].
[30] H.
Obalk, The Unfindable Readymade
(1996), in “Tout-fait. The Marcel Duchamp
Studies Online Journal”, vol. 1, issue
2, Articles, may 2000 [http://www.toutfait.com/issues/issue_2/Articles/obalk.html].
Nella conclusione viene citata la Nota Séparation infra mince
in M. Duchamp, Notes, cit.
[31] Rosalind Krauss vede, infatti, in Giacometti il fondatore di quel nuovo
paradigma che altera profondamente i
parametri della scultura, operando un ripiegamento dell’opera nello spazio fino
allora occupato dal semplice piedistallo. Per le conseguenze di questo
importante passaggio cfr. R. Krauss,
No More Play, in The Originality
of the Avant-Garde and Other Modernist Myths, MIT Press, Cambridge (MA) 1986, dove già si avverte la conclusione
kraussiana sull’arte ‘celibe’, ossia quel tipo d’arte che dall’alterità, dall’informe, dal declassamento emerge grazie ad un processo di ‘sfocatura categoriale’,
che non è affatto imprecisione o vaghezza di definizioni, ma più precisamente
una sfocatura che implica l’infrangersi di molte barriere (o ‘categorie’)
dando vita così quell’arte ‘celibe’ che, con molto anticipo, Marcel Duchamp
aveva avviato all’inizio del secolo (cfr. in tal senso R. Krauss, Bachelors, MIT Press, Cambridge (MA) 2000 [tr. it. Celibi, Ed. Codice, 2004] e Y.-A.
Bois, R.
Krauss, L'Informe. Mode
d'Emploi, Centre Georges Pompidou, Paris 1996 [tr. it. L'informe. Istruzioni per l’uso,
Bruno Mondatori, Milano 2003].
[32] Cfr. Nota Sorte de sous-titre. Retard
en Verre, in M.
Duchamp, Duchamp du signe, cit., p. 34.
[33] “Un
automobile ruggente (…), è più bello della Vittoria
di Samotracia” cfr. F.T. Marinetti,
Fondation et Manifeste du futurism,
“Figaro”, Paris 20 feb 1909,
in M. De Micheli,
Le avanguardie artistiche del Novecento,
Feltrinelli, Milano 1981, p. 368.
[34] Cfr. G.
Bataille, voce Informe, in
“Documents”, vol. 1, Paris 1929, p. 382; cfr. anche L’art primitif, in “Documents”, vol. 2, n. 7, Paris
1930, pp. 389-397 [ora in Œuvres
Complètes, Gallimard, Paris 1970, pp. 247-254].
[35] Cfr. Nota Sorte de sous-titre. Retard en
Verre, in M. Duchamp,
Duchamp du signe, cit., p. 34.
[36]
Concettualmente ben diversa da quella ritratta in L’origine du Monde
(1866) da Gustav Courbet, iniziatore, a detta di Duchamp, della pittura
‘retinica’.
[37] Cfr. Nota Avvertissement. Étant donnés (dans l’obsurité), in M.
Duchamp, Duchamp du signe,
cit., p. 37.
[38] Ibidem.
[39] Ibidem.