sabato 16 novembre 2013

Marcel Duchamp. Il Grande Vetro ovvero Viaggio nel Paese della Quarta Dimensione



Marcel Duchamp. Il Grande Vetro ovvero Viaggio nel Paese della Quarta Dimensione

La ‘quarta’, come comunemente era chiamata la quarta dimensione tra gli artisti d’avanguardia del primo Novecento, non è un’invenzione della nostra epoca, del nostro tempo. Già nel Seicento, sebbene in una prospettiva trascendente e spirituale, si era avuta una prima formulazione riguardo l’esistenza di una dimensione ‘altra’ e non sensoriale, vicina e comunicante col nostro mondo tridimensionale ma da questo separata e ben distinta. Questa prima ‘stravagante’ concezione si trova in alcuni scritti del filosofo neoplatonico inglese Henry More (1614-1687), che definì spessitudine una qualità e quantità ch’egli riteneva presente in ogni sostanza vivente, ma non percepibile ai sensi perché di un’altra dimensione, una dimensione spaziale (in senso fisico e geometrico) contigua al nostro mondo sensibile ma da esso nettamente distinta e considerata sede, oltre che dell’anima dei morti, di entità spirituali ed eteree e di altre entità incorporee, incluse le idee platoniche.
Il primo tra i filosofi che coltivò seriamente l’idea degli spazi pluridimensionali fu però Immanuel Kant. Nel 1766, interessandosi dapprima all’opera Arcana Coelestia del visionario svedese Emanuel Swedenborg - che in quegli anni andava riscuotendo enorme successo asserendo di essere in contatto nientemeno che con gli spiriti - Kant giunse comunque alla conclusione che al di là del mondo fisico ve n’è uno metafisico, spirituale, un mondo ‘separato’ ma, nello stesso tempo, insito all’altro[1]. Affrontare l’ignoto, infatti, significava per Kant trascendere il mondo quotidiano, quando l’intuito va contro e oltre la realtà e scopre ‘altro’ in una dimensione ‘altra’.
Ma sarà soltanto nella prima metà dell’Ottocento che si avranno le prime manifestazioni del pensiero matematico volte a dare credibilità scientifica a questa ‘nuova dimensione’. Con la messa in discussione del dogmatico quinto assioma euclideo[2] da parte di illustri matematici europei quali l’ungherese Jànos Bolyai, il russo Nikolai Lobachevsky e il tedesco Carl F. Gauss, prende così avvio la costruzione scientifica e la rappresentazione di nuovi mondi-universo immaginari - e come tali non meno reali di quello euclideo[3] - il cui apice sarà raggiunto qualche anno dopo con la cosiddetta ‘geometria delle superfici pluriestese’ del matematico tedesco Georg Friedrich B. Riemann (1826-1866). Cinquant’anni più tardi, infine, con quello che Albert Einstein avrebbe chiamato Denkexperiment, ossia ‘esperimento mentale’, o esperimento progettato ed eseguito soltanto a livello immaginativo[4], si arriva, a tutti gli effetti, alla teorizzazione scientifica della ‘quarta’.
Ecco dunque che il ‘rompicapo’ della quarta dimensione, che troverà interessi più specifici solo all’inizio del secolo scorso, può essere assunto a paradigma di una nuova concezione spaziale, conseguente sia al crollo dei postulati euclidei sia ai rapporti che il pensiero filosofico e l’arte d’avanguardia di quegli anni cominciano a intrattenere con gli ultimi ritrovati della scienza, e il passaggio concettuale dall’atemporale mondo tridimensionale delle superfici piane allo spazio-temporale (curvo) einsteiniano sconvolgerà profondamente le fondamenta di tutti i campi del sapere, arte compresa.
Infatti, l’ampia letteratura scientifica e divulgativa di fine Ottocento e primo Novecento sulla quarta dimensione da parte di insigni matematici quali gli inglesi Edwin A. Abbott e Howard E. Hinton, i francesi Henri Poincaré, Esprit Jouffret e Gaston de Pawlowski e il russo Piotr D. Ouspensky, non tarderà a penetrare, con una serie di inevitabili mediazioni, anche negli ambienti artistici più avanzati. Cubismo e Futurismo, dunque, ma anche singole personalità come il russo Kazimir Malevich, saranno influenzati, in varia misura, dalla ‘poetica della quarta dimensione’. Ma chi fra tutti avrà un orientamento quasi esclusivo e unico verso i problemi della ‘quarta’ sarà Marcel Duchamp.
Tra i primi a chiarire il debito contratto dalla ricerca artistica d’avanguardia con le nuove acquisizioni scientifiche, fu il poeta e raffinato critico d’arte Guillaume Apollinaire, già compagno e guida del giovane Marcel Duchamp. In Les peintres cubistes del 1913, infatti, Apollinaire scriveva: «Oggi gli scienziati non si limitano più a considerare le tre dimensioni della geometria euclidea. I pittori si sono trovati indotti con la maggiore naturalezza e, per così dire, intuitivamente, a preoccuparsi di nuove possibili misurazioni della dimensione, che nel linguaggio dei moderni studi di pittura vengono complessivamente e concisamente definite col termine di quarta dimensione»[5]. Subito dopo, però, Apollinaire si avventura in una personale definizione di quella che viene considerata una ‘dimensione superiore’, senz’altro coerente se vista in un’ottica creativa ed estetica, ma, ovviamente, alquanto ‘allargata’ e ‘fantastica’ sotto l’aspetto scientifico: «La quarta dimensione si presenta allo spirito, dal punto di vista plastico, come generata dalle tre misure conosciute: essa rappresenta l’immensità dello spazio che, in un momento determinato, si slancia verso l’infinito in tutte le direzioni. È lo spazio stesso, la dimensione dell’infinito; è, infatti, essa stessa che carica di plasticità gli oggetti»[6].
Ma ben oltre le implicazioni scientifiche, la rivoluzionaria ‘dimensione immaginaria’[7] aveva avuto il merito, soprattutto per Duchamp ed i movimenti intenzionati a sbarazzarsi dell’ingombrante concezione spaziale della tradizione, d’indicare le vie più brevi (‘geodetiche’ si direbbe oggi)[8] da percorrere per superare la limitante e asfittica finzione tridimensionale della prospettiva rinascimentale.
Il movimento dada, d’altronde, aveva anche queste finalità: «Dada fu utilissimo come purgante - dichiarerà Duchamp a James Johnson Sweeney in un’intervista del 1946 - e credo di aver provato il desiderio di purgarmi a mia volta (…). Nessuno pensava che ci potesse essere qualcosa al di là dell’atto fisico della pittura. Non si insegnava nessuna nozione di libertà, nessuna prospettiva filosofica. Naturalmente i cubisti erano fertili di invenzioni (…), e il cubismo mi ha dato molte idee relative alla scomposizione delle forme. Ma io pensavo all’arte su un’altra scala. Si discuteva molto a quel tempo della quarta dimensione e della geometria non-euclidea, ma la maggior parte considerava questi problemi da semplici curiosi. Metzinger vi si interessava in modo particolare e, a dispetto di tutti i nostri malintesi, queste idee nuove ci aiutarono a prendere le distanze dalle banali abitudini di pensiero»[9].
In un articolo di Jean Metzinger[10] del 1911 viene precisato molto bene questo rivolgimento: «I cubisti hanno già sradicato il pregiudizio che obbligava il pittore a rimanere immobile di fronte all’oggetto, ad una distanza costante da esso, e a fissare sulle tele niente di più di un’immagine fotografica (...). Si sono permessi di muoversi intorno all’oggetto per darne, sotto il controllo dell’intelligenza, una concreta rappresentazione formata da diversi successivi aspetti»[11]. Nello stesso articolo viene poi sottolineata l’importanza assunta dalla componente temporale nell’opera d’arte cubista: «Prima di oggi un dipinto padroneggiava solo lo spazio, oggi vive anche nel tempo (...). Questi pittori sono consapevoli del miracolo che si ottiene quando la superficie di un dipinto produce spazio, e non appena una linea minaccia di assumere un’importanza descrittiva o decorativa, la spezzano. Elementi di luce e ombra, distribuiti in modo tale che l’uno generi gli altri, giustificano queste rotture in termini plastici; l’armonizzazione delle rotture crea il ritmo»[12].
I numerosi equivoci sorti attorno a queste e ad altre affermazioni dei cubisti erroneamente collegate alla teoria della relatività di Einstein, sono stati ben puntualizzati nel ragguardevole volume The Fourth Dimension and Non-Euclidean Geometry in Modern Art (1983) del critico d’arte statunitense Linda Dalrymple Henderson: «L’errore degli storici dell’arte che si sono occupati di cubismo e teoria della relatività è stato quello di ritrovare nella letteratura cubista del 1911 e del 1912 l’equivalente dello sviluppo in fisica di un continuum spazio-temporale non-euclideo che non venne mai completato sino al 1915 o 1916. L’assenza del termine quarta dimensione dalla teoria della relatività fino al 1908 e l’assenza di una geometria non-euclidea fino a circa il 1916, fanno supporre che sia fortemente discutibile una possibile influenza della teoria della relatività sul cubismo»[13].
In effetti, la confusione nacque a causa della compresenza di due concetti (l’uno geometrico e l’altro fisico) del tutto diversi in materia di quarta dimensione. Ed è il primo, e non poteva essere altrimenti, a far da ponte al secondo, constatando la possibilità di visualizzare geometricamente la dimensione superiore già nei tentativi fantascientifici presenti in Flatland: A Romance of Many Dimensions, novella satirica pubblicata anonima nel 1882 dal pedagogo inglese Edwin A. Abbott, che all’epoca fece scalpore anche nel mondo accademico-scientifico. Restando dunque in ambito fantascientifico, Abbott, nel serrato e visionario dialogo tra il Quadrato e la Sfera, arriverà a scrivere: «Non ha forse insegnato il mio Signore che, come una Linea è delimitata da due punti, e un Quadrato da quattro linee, così un Cubo dovrà essere limitato da sei Quadrati? Osservate ancora una volta la conferma della serie 2, 4, 6: non è questa una Progressione Aritmetica? E perciò non ne segue necessariamente che il rampollo più divino del divino Cubo nella Terra delle Quattro Dimensioni dovrà essere delimitato da otto Cubi?»[14].
Ma poiché dalla configurazione delle tre dimensioni spaziali della Spaceland è possibile per il Quadrato vedere in modo inusuale gli oggetti, dalla quarta dimensione in su, grazie all’analogia ed allo spazio-pensiero della Toughtlandia, sarà possibile vedere anche l’interno di ogni cosa solida: «In quella beata regione a Quattro Dimensioni, indugeremo forse sulla soglia della Quinta, e non vi entreremo? Ah, no! Decidiamo piuttosto che la nostra ambizione si elevi di pari passo con la nostra ascesa corporea. Allora, cedendo all’assalto del nostro intelletto, le porte della Sesta dimensione si spalancheranno; e dopo quella di una Settima, e quindi un’Ottava»[15].
È evidente come nel testo di Abbott ci sia, insieme ad una critica pungente della classista società vittoriana, un intento squisitamente pedagogico, cioè è un invito a superare la limitante concezione cartesiana dello spazio (la bidimensionalità del Quadrato) e del pensiero (positivistico) per giungere a concezioni spaziali che portino a considerare dimensioni e articolazioni spaziali ben più complesse e organiche (come, ad esempio, quella della Sfera) e quindi stimolare il pensiero a forme di elaborazione più ricche e meno limitanti. Il protagonista (il Quadrato) del racconto, infatti, dopo aver conosciuto la terza dimensione incontrando la Sfera, teorizza la possibilità di conoscere altre dimensioni (e l’allusione alle superfici pluriestese di Riemann non è casuale) con l’intento di elevare in tal modo la propria mente oltre i propri sensi. Con i primi risultati della teoria della relatività einsteiniana (1905), infine, il testo di Abbott avrà in seguito ripercussioni inaspettate.
Notizie più precise sulla quarta dimensione cominciano intanto a circolare in ambito francese già dopo il 1910. Tra il 1911 e il 1912 Gaston de Pawlowski, direttore di “Comœdia”, il più importante quotidiano letterario e artistico parigino del periodo, pubblica a puntate i capitoli di quello che sarebbe diventato un classico della fantascienza francese d’inizio secolo: il Voyage au pays de la quatrième dimension[16]. L’argomento della ‘quarta’ diviene così di dominio pubblico non solo in ambito scientifico. Anche Duchamp, tra gli altri, si interessa a questa nuova dimensione dove tempo e spazio sono ormai unificati. Ma queste nuove teorie scientifiche costituiscono una vera e propria rivoluzione mentale per la società del Novecento, perché la teoria della relatività, insieme a quella dei quanti e alla geometria non euclidea, allargano ora gli orizzonti della scienza e del pensiero, mettendo in forte crisi le vecchie e desuete certezze positivistiche. Infatti, le nuove coordinate spazio-temporali non solo ampliano le conoscenze della fisica, ma, soprattutto, producono profonde trasformazioni mentali, culturali e psicologiche in tutta la società.
D’altra parte Albert Einstein nella sua ricerca si rende perfettamente conto che alla base della nuova nozione di spazio-tempo è necessariamente unita quella di simultaneità. La clamorosa svolta einsteiniana fondata sul principio di relatività, accoglie perciò in sé tutti i fenomeni fisici, ma soprattutto indica un nuovo modo di osservare la realtà, quello che dalla spazialità tridimensionale invita a guardare a quella quadridimensionale, più organica e completa (uno sguardo olistico, si direbbe oggi, cioè che guarda al ‘sistema’ che sottende al fenomeno osservato).
Nell’intervista rilasciata a Pierre Cabanne nel 1967, Duchamp affronta l’argomento dicendo: «Ciò che ci interessava a quel tempo era la quarta dimensione. Nella Scatola Verde ci sono un mucchio di note sulla quarta dimensione (…). Siccome credevo che si potesse dipingere l’ombra di una cosa a tre dimensioni, un oggetto qualsiasi - come la proiezione del sole sulla terra che crea due dimensioni - per semplice analogia intellettuale considerai che la quarta dimensione poteva proiettare un oggetto a tre dimensioni; in altre parole ogni oggetto a tre dimensioni che osserviamo freddamente è una proiezione di una cosa a quattro dimensioni che non conosciamo. Era quasi un sofisma ma, in fin dei conti, era anche una cosa possibile»[17].
Le opere di Duchamp che meglio esprimono questo concetto sono più di una. Osserviamo intanto la più evidente, cioè la Porte all’11 di rue de Larrey del 1927, una porta che, alternativamente, apre o chiude contemporaneamente due ambienti distinti e separati. Questa è dunque una porta che non delimita una zona di confine (si apre mentre si chiude e si chiude mentre si apre) e Duchamp è interessato al varco di comunicazione tra l’ambiente in cui abitualmente ci muoviamo e quello che invece riusciamo soltanto vagamente a percepire[18]. È questo, dunque, il mondo relativistico einsteniano, dove spazialità e temporalità sono legate-unificate e risentono di tutto ciò che accade? Quel che qui interessa Duchamp è evidentemente ciò che sottende al fenomeno visivo. Per questo l’attenzione di Duchamp si rivolge soprattutto alle idee e non più soltanto agli aspetti visivi. Il suo scopo, infatti, è quello di condurre l’attenzione del soggetto indagatore verso una conoscenza ‘allargata’, in una condizione di silenzio in cui si sfiora la ‘magia’[19], uno spazio, quello quadridimensionale, che l’artista intravede come ‘luogo di nuove possibilità’: «La rappresentazione materiale non sarà che un esempio di ciascuna di queste forme principali libere»[20]. Una problematica profonda della poetica duchampiana è dunque il tentativo di mostrare i passaggi dimensionali tra i vari e diversi livelli di realtà ed estrarne nuove significazioni.
Quando nel 1915 Marcel Duchamp inizia a lavorare a La Mariée mise à nu par ses célibataires, même (o Grande Vetro) l’opera considerata il punto centrale di tutta la sua poetica - dove convergono idee e lavori significativi sia precedenti, come Dulcinea, Jeune et jeune-filles en printemp, Mariée, Trois Stoppages-étalon, sia successivi come Étant donnés - propone anche una nuova realtà dell’opera, vissuta ora come ‘organismo’, ossia un corpo che occupa uno spazio all’interno della realtà circostante che lo accoglie e ne è condizionata.
Già nel progetto iniziale si prevedono due spazi ben distinti: uno superiore dedicato alla sposa; uno inferiore dedicato ai nove scapoli. Tra questi due mondi separati, però, Duchamp lascia un terzo ‘spazio di possibilità’, quello cioè che potrebbe diventare «il campo d’incontro dei due mondi separati», come recita la Nota Peut-être faire un tableau de charnière[21]. Ma è nell’invisibilità che possono manifestarsi questi incontri, queste possibilità che danno origine a nuovi significati. Il mondo rappresentato dal Grande Vetro è dunque quello dell’apparizione, cioè quello di una realtà invisibile che rimane al di là di ciò che appare.
Duchamp, nelle sue note, definisce il Grande Vetro anche come «Un mondo in giallo»[22]. Alludendo e sottintendendo a una propagazione della luce anche negli strati profondi della materia[23], il Grande Vetro diviene in tal modo anche una rappresentazione simbolica della luce. Ma ciò non sta forse a significare che per Duchamp anche la materia ‘vive’ in un suo spazio quadridimensionale (cioè quello della luce) che intuitivamente riusciamo a scorgere soltanto grazie a quello che cade sotto i nostri sensi in forme tridimensionali ma che, come la luce, non può che stare nel mondo delle idee?
Leggendo le note della Scatola Verde, ma anche e soprattutto quelle della Scatola Bianca[24], è facile vedere quanto simili enunciati potessero essere all’origine del pensiero di Duchamp sulla quarta dimensione. Ad esempio, leggendo la Nota 1912. Machine à 5 cœurs[25], è evidente che la strada che «graficamente (…) tenderà verso la linea pura geometrica senza spessore» è quell’orizzonte-cerniera in cui da uno spazio a due o tre dimensioni si passa ad uno spazio quadridimensionale, cioè uno spazio più di natura mentale che fisica, una sorta di iperspazio (o spazio virtuale) in cui si respira quella libertà di ‘pensare l’impossibile’.
Anche il filosofo francese Jean-Francois Lyotard riconosce che questa virtualità ha una sua proprietà particolare, giungendo però alla inevitabile conclusione della irrapresentabilità nello spazio percettivo di ciò che viene pensato. Tuttavia, riconoscendo che La Mariée mise à nu… sia la messa in opera delle ricerche duchampiane sullo spazio, e stimolato anche dalla lettura delle note delle diverse Boîtes, Lyotard individua nel Grande Vetro un esempio di innesto della quarta dimensione su oggetti tridimensionali.
Il Grande Vetro mostra, infatti, forme situate in uno spazio tridimensionale. In alto a sinistra, ad esempio, il Pendu femelle (‘impiccato femmina’, come Duchamp denomina ulteriormente la sposa per suggerire il movimento), secondo Lyotard presenta forme derivate da un’organizzazione di stile cubista, tridimensionale ma con un punto di vista ‘esploso’[26]; diversamente, in alto a destra accanto all’impiccato femmina, Duchamp suggerisce e indica un effetto di profondità attraverso i Pistons de courant d’air, ottenuti attraverso lo sbattimento di pezze di garza esposte all’azione del vento. Ma partendo dalle riflessioni di Duchamp sullo spazio, Lyotard giunge anche a ipotizzare una profonda unità tra questi oggetti, unità che sarebbe da ricercarsi appunto in una figura della quarta dimensione. Ecco, allora, che lo ‘spazio della sposa’ sembrerebbe essere un ‘racconto’ unificato ma con spazi multipli: esso non sarà perciò concepibile, o pensabile, secondo i canoni della costruzione ‘legittima’ della geometria euclidea, perché qui il caso (l’hazard mallarméano)[27] gioca un importante ruolo nella fabbricazione di queste «forme principali libere»[28].
L’orizzonte-cerniera è dunque quell’operatore ‘mentale’ che secondo Lyotard consente di trasformare, sul piano del vetro, una proiezione prospettica ‘classica’ in una proiezione in cui lo spazio esita sulla propria identità e diviene fluttuante. È necessario immaginare pertanto l’esistenza di una quarta dimensione, in cui il problema della rappresentazione necessariamente si dissolve. Ecco perché Lyotard afferma che la caratteristica principale del Grand Verre è di sfuggire a qualsiasi effetto di controllo e di sintesi interpretativa. La dissoluzione degli insiemi visivi innescata dal lavoro duchampiano non hanno quindi come fine quello di ritrovare un corpo o una forma ancora più ‘originaria’ di quello dell’origine, aprendo però, in tal modo, a un mondo privo di qualsiasi referente prestabilito. L’unica ambizione che Lyotard riconosce a Duchamp è dunque quella di voler ‘accecare’ l’occhio dello spettatore che crede di vedere qualcosa; fare quindi una ‘pittura della cecità’ tramite pure invenzioni, o trasformatori, come Lyotard stesso definisce l’operatore mentale che Duchamp pone su quel limen duchampianamente chiamato orizzonte-cerniera, che però è il punto di incontro e di raccordo tra la parte inferiore e quella superiore del Vetro, e dunque luogo di nuove possibilità e di sempre nuove significazioni.
Ecco dunque che l’invito-progetto presente in una Nota della Scatola Verde: «Perdre la possibilité de reconnaître (d’identifier) 2 choses semblabes - 2 couleurs, 2 dentelles, 2 chapeaux, 2 formes qc. Arriver à l’impossibilité de mémoire visuelle suffisante pour transporter d’un semblable à l’autre l’empreinte en mémoire»[29] è un evidente sollecitazione a mettere in causa lo statuto dell’opera d’arte tradizionale o ‘classica’, ancora aggrappata o ancorata al concetto di mimesi di matrice aristotelica. L’oscurità, o meglio l’ambiguità della frase, permette così all’artista francese di non cadere in un semplice discorso teorico che ridurrebbe la portata eversiva del suo progetto, che è quello di avviare una critica alla società che non è soltanto di tipo estetico, ma anche, e soprattutto, culturale e politico. Con Duchamp, dunque, l’opera d’arte non mira più alla comprensione del pubblico, ma soltanto a suscitare degli effetti che non sono più immediatamente decifrabili. Lyotard riconosce che al pubblico spetta il compito del commento; tuttavia, quando parla di un pubblico destinato a commentare un’opera di Duchamp è evidente che il suo non è un invito a ‘tentare di comprendere’ o ‘pensare di aver capito’; per questo il filosofo francese esorta anche a non prendere come definitiva la sua (e l’altrui) lettura dell’opera duchampiana.
D’altronde, c’è sempre qualcosa nell’opera di Duchamp, e più in generale nell’opera d’arte moderna, che rimane incommentabile. Per questo motivo Lyotard si sforza sin dall’inizio della sua analisi a mostrare non tanto la comprensione della frase duchampiana, quanto appunto la sua incomprensibilità - dalla quale però prende vita tutta una serie di significati che spesso rimangono sconosciuti all’autore stesso[30] - e a procedere nell’esaltazione del non-senso e delle sue variabili e infinite possibilità.
Non dimentichiamo, infatti, che la realtà ‘vera’ è sfuggente, indefinibile; e non perché sia cangiante bensì perché ‘vive’ in un’altra sfera, in una dimensione che ancora facciamo fatica a comprendere ed è in continuo divenire. Camminiamo, infatti, tra ombre e illusioni e niente di ciò che vediamo, tocchiamo e pensiamo possiede una consistenza reale. Ecco, dunque, che tra noi e la realtà si frappone un limite, che poi è il limite della nostra vista, l’orizzonte-limite - come a volte lo chiama Duchamp - che poi è il limite della nostra memoria e di tutto ciò che fa parte delle nostre conoscenze.
L’oggetto che vediamo da un lato non è lo stesso che vediamo dall’altro lato: eppure l’oggetto è lo stesso. Quello che dunque vediamo non è che l’ombra di una realtà che si trova in un’altra dimensione e rappresentare la realtà in termini geometrici non è altro che rappresentare un’ombra di un’ombra.
E questi sono i pensieri che stimolano Duchamp ad andare oltre quest’ombra e uscire dalla ormai troppo angusta caverna platonica in cui l’‘uomo nuovo’ della società industriale è recluso. Quando nel 1918 Marcel Duchamp esegue Tu ‘m - l’ultimo suo quadro anti-quadro che oltre a proiettare un’ombra di parte di sé al di là del piano bidimensionale (attraverso uno scovolino sporgente) include in sé tutto ciò che, in qualità di ‘ombre mnemoniche’, ha fatto parte dei suoi lavori precedenti (diversi readymades, Trois Stoppages-étalon, ecc.)[31] - indica espressamente, con una mano dipinta come un’insegna segnaletica, che ciò che deve indurre al commento (o alla contemplazione) è al di là delle ombre, semplici proiezioni bidimensionali di realtà tridimensionali. È alle idee, infatti, cui il filosofo Duchamp mira.
Per Plotino, come per Duchamp, le idee sono forme libere che sfuggono alla misurazione dei sensi. Quanto i sensi percepiscono, infatti, è mera apparenza e solo nell’invisibile c’è la vera realtà. La geometria, di conseguenza, è solo uno strumento di rappresentazione dell’ombra delle idee, cioè è solo uno strumento attraverso il quale vediamo le forme: le vediamo, certo, ma senza mai poterle vedere del tutto. Ma se Duchamp è ‘infatuato’ dell’idea, il problema, se c’è, è come rappresentarla. Ed ecco che la rappresentazione dell’idea (l’apparizione, cioè qualcosa che sta al di là di ciò che appare) nell’opera duchampiana avviene in un’altra dimensione (‘la quarta’) che è e rimane una dimensione esclusivamente mentale.
L’arte e il pensiero di Duchamp annunciano, prefigurano e promettono dunque l’esistenza d’un nuovo genere di tempo, di spazio, di sensibilità e di ragione, introducendo nella realtà ‘viva’ un nuovo sistema di valori capace di mutarne il significato fin nei suoi fondamenti.
Lo spazio dell’osservatore ‘classico’ era regolato dalle leggi della geometria euclidea e della prospettiva centrale albertiana. Oggi sappiamo che la percezione prospettiva e rigorosamente geometrica della realtà non è il ‘modo naturale’ della visione, ma un ‘sistema concettuale’, una ‘forma simbolica’ - per usare un termine sufficientemente congruo dello storico dell’arte Erwin Panofsky[32] - e parziale di rappresentazione della realtà.
I modi di rappresentazione dello spazio, infatti, non sono che dei metodi di costruzione dell’immagine con la quale ci rappresentiamo solo ciò che della realtà conosciamo e non ciò che vediamo; dei metodi quindi condizionati dalle abitudini e dalla cultura. La prospettiva matematica rinascimentale non è pertanto il modo naturale di dipingere la realtà, ma è un apparato concettuale complesso che privilegia la rappresentazione di certe informazioni strutturali (relazioni metriche) rispetto ad informazioni di altro tipo, e quindi ben diverse da quelle trasmesse, ad esempio, dall’arte arcaica o primitiva. Le leggi della prospettiva non coincidono dunque con quelle della visione, tanto è vero che una riproduzione ‘realistica’ può addirittura risultare fuorviante per chi non è educato a questo modo di rappresentazione: «Riconoscere un oggetto significa individuare alcuni dei suoi tratti strutturali salienti. Una replica meccanicamente prodotta può solo celare, o distorcere, tali tratti», conclude mirabilmente (per noi) lo storico dell’arte e psicologo tedesco Rudolf Arnheim[33].
In conclusione la ‘quarta’ teorizzata da Duchamp è soltanto un modo diverso di pensare la realtà, e la poesia, come linguaggio semanticamente aperto, è lo strumento più idoneo per conoscere e inserirsi nella ‘quarta’, perché pone in una condizione di ‘elevazione’ che fa vedere le cose sotto un altro aspetto, più fluttuante e armonico e, proprio per questo, più reale. E in questo senso come risultano opportune e appropriate le parole di Duchamp quando perentoriamente affermava:  «D’altronde, la poesia è il solo modo per dire qualche cosa»[34].


[1] I. Kant, I sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica, a cura di G. Morburgo-Tagliabue, Rizzoli, Milano 1982, scritto nel 1766.
[2] Quinto assioma di Euclide: dato un punto qualunque che non stia su una retta data, esiste una e una sola retta che passa per quel punto.
[3] Anch’esso mera manifestazione delle capacità ‘costruttive’ del pensiero.
[4] Cfr. R. Ossermann, Poesia dell’Universo, Longanesi, Milano 1996, p. 83.
[5] G. Apollinaire, Les peintres cubistes, Figuières, Paris 1913; tr. it. I pittori cubisti. Meditazioni estetiche, Abscondita, Milano 2003, citato in F. Russoli, La struttura del reale nella visione cubista, Fabbri, Milano 1967, pp. 3-4.
[6] Ibidem, p. 4. Ma come non notare una certa ‘concordanza’ tra quanto descritto qui da Apollinaire e quanto scriverà più tardi Duchamp nella probabilmente primissima Nota che apre la Scatola Verde, la 1912. La machine à 5 cœurs, (foglio 1 e foglio 2) in cui l’autore descrive il viaggio in automobile verso Etivàl, nel Giura, fatto insieme allo stesso Apollinaire, Picabia e la moglie di quest’ultimo Gabrielle Buffet; cfr. M. Duchamp, Duchamp du signe, écrits réunis et présentés par M. Sanouillet, Flammarion, Paris 1975, p. 35.
[7] Cfr. R. Penrose, La mente nuova dell’imperatore, Rizzoli , Milano 1992, p. 125
[8] In generale, si fanno corrispondere alle rette del piano le linee geodetiche di una superficie curva. Queste ultime, infatti, conservano la principale caratteristica delle rette e precisamente sono le linee più brevi che sulla superficie congiungono due punti dati. Sulla superficie della sfera le geodetiche sono proprio le circonferenze massime, cioè quelle circonferenze che si ottengono intersecando la superficie della sfera con piani passanti per il centro della sfera. Esempi familiari sono i meridiani e l’equatore; non lo sono i paralleli. Ma sulla superficie della sfera non esistono ‘rette’, o meglio geodetiche che non si incontrano. Quindi, non esistono parallele!
[9] M. Duchamp, Declarations to James Johnson Sweeney, in “The Bulletin of the Museum of Modern Art”, vol. XIII, nn. 4-5, New York 1946; tr. it. Dichiarazioni raccolte da James Johnson Sweeney, in Marcel Duchamp, a cura di Elio Grazioli, in “Riga”, n. 5, Marcos y Marcos, Milano 1993, p. 21.
[10] Di Jean Metzinger e la sua cerchia (Fernand Léger, Albert Gleizes e Juan Gris, i pittori cubisti che frequentavano insieme ad Alexander Archipenko il circolo di Puteaux creato dai fratelli Jacques Villon e Raymond Duchamp-Villon), Marcel Duchamp, riferendosi al rifiuto che questi opposero all’esposizione del suo Nu descendant un escalier al Salon des Indipendents del 1912, ebbe a dire: «Questa faccenda mi ha aiutato a liberarmi completamente del passato, del mio proprio passato. Mi sono detto: ‘Bene, se è proprio questo che vogliono, non è proprio il caso che io mi unisca a un gruppo; bisogna contare solo su se stessi, bisogna essere soli’», cfr. M. Duchamp, Ingénieur du temps perdu, Pierre Belfond, Paris 1977; trad. it. Ingegnere del tempo perduto. Conversazione con Pierre Cabanne, a cura di W. Marchetti, Multhipla Ed., Milano 1979, pp. 43-44.
[11] J. Metzinger, Cubism et Tradition, “Paris-Journal”, 16 aug. 1911 [citato in E. F. Fry, Cubismo, Mazzotta, Milano 1967, p. 91].
[12] Ibidem, pp. 91-92.
[13] L. Dalryple Henderson, The Fourth Dimension and Non-Euclidean Geometry in Modern Art, Priceton University Press, Princeton 1983 [New ed., MIT Press, Cambridge 2013; citato in M. Emmer, La perfezione visibile, Theoria, Roma-Napoli 1991, p. 131].
[14] E.A. Abbott, Flatland: A Romance of Many Dimensions, Seeley and Co., London 1882; tr. it. Flatlandia. Racconto fantastico a più dimensioni, Adelphi, Milano 1966, p. 136. Pubblicato anonimo nel 1882, ebbe anche una seconda edizione, riveduta, due anni dopo. Come precisa opportunamente in una nota il curatore della traduzione Masolino D’Amico, Flatlandia, Spacelandia, Linelandia, Pointlandia e Toughtlandia sono sinonimi, rispettivamente, del Paese del Piano, dello Spazio, della Linea, del Punto e del Pensiero. Da leggere con piacere, e in connessione con le preoccupazioni di Duchamp, è la mirabolante dedica con cui Abbott dà inizio al suo racconto fantastico: «Agli Abitanti dello SPAZIO IN GENERALE E a H. C. IN PARTICOLARE è Dedicata Quest’Opera Da un Umile Nativo della Flatlandia Nella Speranza che, Come egli fu Iniziato ai Misteri Delle TRE Dimensioni Avendone sino allora conosciute SOLTANTO DUE Così anche i Cittadini di quella Regione Celeste Possano aspirare sempre più in alto Ai Segreti delle QUATTRO CINQUE O ADDIRITTURA SEI Dimensioni In tal modo contribuendo All’Arricchimento dell’IMMAGINAZIONE E al possibile Sviluppo Della MODESTIA, qualità rarissima ed eccellente fra le Razze Superiori Dell’UMANITA SOLIDA». Sono qui citati ampi stralci del testo abbottiano perché trattano dei temi che in quegli anni maggiormente interessano Duchamp che, subito dopo l’abbandono della pittura nel 1912, avrà modo di approfondire in qualità di bibliotecario presso la Bibliothèque de Sainte Geneviève a Parigi [N.d.R.].
[15] Ibidem, pp. 137-138.
[16] G. de Pawlowski, Voyage au pays de la quatrième dimension, Introduction de Jean Clair, Images modernes, Paris 2004. A tal proposito citiamo anche J. Clair, Marcel Duchamp ou le grand fictif, Galilée, Paris 1975 [tr. it. Id.; Marcel Duchamp il grande illusionista. Saggio di mito-analisi del ‘Grande Vetro’, Cappelli, Bologna 1979] in cui la lettura del Grande Vetro è tutta improntata a ricercare corrispondenze tra l’opera duchampiana e il Voyage di Pawlowski.
[17] M. Duchamp, Ingegnere del tempo perduto, cit., pp. 54-55.
[18] A tal proposito, alquanto interessante può essere quanto Duchamp scrisse nelle note pubblicate postume riferendosi al concetto di inframince; cfr. M. Riparini, Il Grande Vetro ovvero la visione ‘poetica’ di Marcel Duchamp [consultabile presso il sito Academia.edu all’indirizzo internet
[19] Cfr. M. Duchamp, The Creative Act, in “Art News”, vol. 56, n. 4, New York summer 1957; tr. it. in Marcel Duchamp, a cura di Elio Grazioli, cit., p. 25.
[20] Cfr. Nota Les formes principales de la machine célibataire, in M. Duchamp, Duchamp du signe, cit., p. 60. Il corsivo è nostro [N.d.R.].
[21] Cfr. Nota Peut-être faire un tableau de charnière, in M. Duchamp, Duchamp du signe, cit., p. 36.
[22] Cfr. Nota La Mariée mise à nu par ses célibataires, même, in M. Duchamp, Duchamp du signe, cit., p. 59.
[23] Cfr. Nota Eclairage intérieur, in cui l’artista francese precisa: «Chaque matière dans sa composition chimique est douée d’une phosphorescence (...), l’apparence de matière ayant moléculairement un foyer lumineux», in M. Duchamp, Duchamp du signe, cit., p. 94.
[24] Cfr. M. Duchamp, Mercante del segno, cit., 119-122.
[25] Cfr. Nota 1912. Machine à 5 cœurs (foglio 1; foglio 2), in M. Duchamp, Duchamp du signe, cit., p. 35.
[26] Cfr. J.-F. Lyotard, Les transformateurs Duchamp, Galilèe, Paris 1977; tr.it. I TRANSformatori DUchamp. Studi su Marcel Duchamp, Hestia, Como 1992, p. 97.
[27] Cfr. M. Riparini, Il Grande Vetro ovvero la visione ‘poetica’ di Marcel Duchamp [consultabile presso il sito Academia.edu all’indirizzo internet
 http://www.academia.edu/4037175/Il_Grande_Vetro_ovvero_la_visione_poetica_di_Marcel_Duchamp].
[28] Cfr. Nota Les formes principales de la machine célibataire, in M. Duchamp, Duchamp du signe, cit., p. 60, citata anche in J.-F. Lyotard, I TRANSformatori DUchamp, cit., p. 98.
[29] Nota Perdre la possibilité de reconnaître, in  M. Duchamp, Duchamp du signe, cit., p. 42.
[30] Cfr. M. Duchamp, The Creative Act, in “Art News”, vol. 56, n. 4, New York summer 1957; tr. it. in Marcel Duchamp, a cura di Elio Grazioli, cit., p. 25.
[31] A tal fine si rimanda alla Nota Ombres portées de Readymades, in M. Duchamp, Duchamp du signe, cit., pp. 45-46.
[32] Cfr. E. Panofsky, Die Perspektive als ‘symbolische Form’, “Vorträge der Bibliothek Warburg”, Lipzig-Berlin 1924; tr. it. La prospettiva come forma simbolica, Feltrinelli, Milano 2001.
[33] R. Arnheim, Il pensiero visivo, Einaudi, Torino 1974, p. 168.
[34] Cfr. A. Gervais, Un Chapeau à le livre de J. Suquet, Le Grand Verre: Visite Guidée, L’Echoppe, Paris 1992 [in http://www.toutfait.com/issues/issue_1/Articles/largeglassFrench.html]; cfr. anche M. Riparini, Il Grande Vetro ovvero la visione ‘poetica’ di Marcel Duchamp [consultabile presso il sito Academia.edu all’indirizzo internet 
http://www.academia.edu/4037175/Il_Grande_Vetro_ovvero_la_visione_poetica_di_Marcel_Duchamp].

venerdì 26 luglio 2013

Il Grande Vetro ovvero la visione 'poetica' di Marcel Duchamp



Il Grande Vetro ovvero la visione ‘poetica’ di Marcel Duchamp
by Massimo Riparini

Fra tutte le opere del XX° secolo, probabilmente non ve ne sono altre che abbiano tanto stimolato l’immaginazione di cultori e critici d’arte e messo alla prova la loro erudizione e ingegnosità interpretativa quanto La Mariée mise à nu par ses célibataires, même (o Grand Verre), un’opera realizzata su vetro, tra il 1915 e il 1923, dall’artista francese Marcel Duchamp. Quando in seguito (1934) Duchamp decise di pubblicare La Boîte Verte (una scatola contenente novantatré note di appunti riguardanti la realizzazione de La Mariée mise à nu…)[1] e ci fu anche il primo importante commento critico al Grand Verre a firma di André Breton[2], si ebbe subito l’impressione che l’opera, fra tutte, dovesse assumere il ruolo di principale punto di riferimento di tutta l’arte a venire.
Con grande lucidità e intuito, Breton fece un’importante rivelazione, perché definire ‘phare’ la Mariée mise à nu… significava imporre un profondo ripensamento dello statuto e del ruolo che l’artista e l’opera d’arte dovevano assumere. Tuttavia, ciò che Breton maggiormente evidenziava nel suo tentativo di decifrazione dell’opera, era l’enorme sconquasso interpretativo che la pubblicazione de La Boîte Verte andava provocando, un avvenimento di rilevanza capitale per la storia dell’arte che ci fa intravedere quanto di più complesso e ricco vi è in quell’enorme ‘meccanismo’ che Duchamp volle congegnare con il Grande Vetro. Per Breton gli appunti de La Boîte Verte permettono, infatti, di penetrare meglio «l’impresa senza equivalenti nella storia contemporanea», un’opera nella quale «è impossibile non scorgere almeno il bottino di una favolosa partita di caccia in terre vergini, ai confini dell’erotismo, della speculazione filosofica, dello spirito sportivo, degli ultimi portati della scienza»[3].
Gli appunti, secondo Breton, gettano così sull’opera preziosissime indicazioni, che rimandano semanticamente ad altre opere e ad altri ‘luoghi’ duchampiani. Dunque, sono un supplemento d’informazione ma dato, in questo caso, miroiriquement[4] con l’opera stessa. Si tratta pertanto di un’avventura tendenzialmente di tipo mentale, la cui interpretazione non può per questo restringersi ad un’analisi esclusivamente visiva, spaziale. Per Breton, infatti, a quest’analisi di base occorre aggiungerne altre, quelle che attengono al campo del filosofico, del poetico, del romanzesco, dell’umoristico, dell’erotico. In tal modo, illimitati gli approcci, illimitate divengono le interpretazioni possibili: eccoci così di fronte ad un nuovo ‘lancio di dadi’, assai simile, per molti aspetti, a quello che sul finire del XIX° secolo Stéphane Mallarmé[5] aveva scagliato nel desolato campo della poesia.
Ma ecco emergere qui un argomento considerato ‘intricato’ e ‘spinoso’ dagli storici dell’arte e che soltanto pochi esperti cultori dell’arte duchampiana hanno affrontato e usato come parametro interpretativo dell’opera di Marcel Duchamp, il quale, rispondendo ad una lettera di Jean Suquet, che gli comunicava di voler scrivere sulla sua opera non in forma di critica ma ‘in forma di poesia’, perentoriamente affermava:  «la poesia è il solo modo per dire qualche cosa»[6]. Tale propensione dell’artista alla poesia trovava poi conferma in una seconda lettera in cui, ringraziando ancora Suquet, Duchamp dichiarava: «D’altronde, dovrei farvi un monumento per aver messo a nudo [grazie alla forma poetica] la mia ‘messa a nudo’»[7].
Con Duchamp, però, una nuova destrutturazione del linguaggio artistico (sia visivo che ‘poetico’) ha avuto luogo. Per Duchamp, come già per Mallarmé, nell’opera d’arte espressione e comunicazione si separano. L’opera, infatti, non ‘rappresenta’ più, ma semplicemente si autorappresenta, per cui l’atto di produzione di un testo o di un opera diventa un atto di autoriflessione o di autorispecchiamento infinito. Nessuna concessione è fatta alla comunicazione. Si capisce allora come la poesia ‘visuale’ mallarméana e la visione ‘poetica’ duchampiana diventino lo strumento privilegiato per questo nuovo tipo di esperienza artistica e si capisce anche come quest’opera risulti ‘difficile’ per chi cerchi in essa la comunicazione o la rappresentazione di tipo convenzionale. Nelle Note della Scatola Verde questo particolare tipo di poesia traspare tra i mille echi e giochi di rimando del vocabolario adottato; ogni Nota, infatti, entrando alternativamente in relazione-collisione con le altre[8], produce nuove risonanze, nuove interpretazioni e, infine, ‘nuova poesia’.
La letteratura, dunque, e la poesia soprattutto, sono sempre sullo sfondo dell’opera di Marcel Duchamp. «Apollinaire fu il primo a mostrarmi le opere di Roussel (…). Fondamentalmente fu Roussel il responsabile del mio Vetro (...). Furono le sue Impressions dAfrique a indicarmi in grandi linee la prassi da adottare (…). Vidi immediatamente che potevo subire l’influenza di Roussel. Pensavo che come pittore era meglio essere influenzato da uno scrittore che da un altro pittore. E Roussel mi mostrò la strada»[9]. A queste dichiarazioni rilasciate a J.J. Sweeney nel 1946, Duchamp aggiunse infine: «Ecco la direzione che deve prendere l’arte: l’espressione intellettuale piuttosto che l’espressione animale. Ne ho abbastanza dell’espressione ‘stupido come un pittore’»[10].
In queste affermazioni quindi è evidente come Duchamp abbia cercato nella letteratura piuttosto che nella pittura la sua fonte di ispirazione. Ma già prima del Grande Vetro, per il quale dichiarerà apertamente l’influenza rousseliana, gli interessi letterari di Duchamp erano in gran parte orientati verso Jules Laforgue[11], poeta che visse con ossessione la noia che divora l’esistenza (basti pensare alla serie interminabile delle Dimanches, funeree ‘processioni’ di domeniche che ingrigiscono l’esistenza umana e ne sottolineano il malessere)[12], preda di uno spleen che tuttavia oscilla sempre tra il popolare ed il sublime, l’humor sarcastico delle Moralites Legendaires e la dolorosa partecipazione de Le sanglot de la terre[13], che rappresentano, comunque, una via d’uscita dal simbolismo.
Ad esso Duchamp si ispirò sia per Jeune homme triste dans un train (1911), nel cui titolo traspare il gusto per l’allitterazione laforghiana, sia per l’opera che lo avrebbe portato a rompere con la pittura, il Nu descendant un escalier (1912), le cui origini risalgono ad un disegno ispirato ai versi laforghiani di Encore à cet astre (1912)[14]. Ma, a ben vedere, il gusto per l’allitterazione velata di humor di origine laforghiana emerge anche a livello visivo: basti pensare a quanto Duchamp aveva dichiarato a proposito della rappresentazione del movimento, ch’egli fa scaturire grazie alla singolare idea del ‘parallelismo elementare’: sorta di ‘allitterazione’ di forme e linee «che si inseguono parallelamente mutando dolcemente per creare il movimento e la forma in questione»[15].
Dopo Laforgue, fu dunque la scoperta di Raymond Roussel a determinare l’opera futura di Marcel Duchamp. Già durante il soggiorno monacense del luglio-agosto 1912, l’artista francese rifletteva sulle possibilità di uscire dalla pittura retinica applicando alle proprie opere[16] una tecnica ‘secca’, intellettuale, ossia un procedimento tecnico di rappresentazione completamente affrancato da un approccio esclusivamente visivo, fisico e mimetico della realtà.
Ma per capire questa disposizione occorre tornare alla primavera del 1912, allo stupore e alle impressioni ricevute a Parigi al teatro Antoine, dove l’artista, in compagnia di Apollinaire, Picabia e Gabrielle Buffet, ebbe la fortuna di assistere alla rappresentazione di Impressions dAfrique curata nei minimi dettagli dallo stesso Roussel. Duchamp vide i personaggi, gli oggetti e le installazioni rousseliane realizzarsi sulla scena e intuì, attraverso la rousseliana esaltazione dell’insolito strettamente intrecciata al gioco delle dislocazioni linguistiche, la risoluzione al proprio problema: trovare quell’arte ‘secca’, intellettuale e non retinica che l’avrebbe portato verso una dimensione altra, ‘magica’ ed ‘extra-umana’. Assistiamo, in tal modo, alla liquidazione di una tradizione plurisecolare dell’arte: macchine celibi e readymades sono lì sulla scena e già presenti in potenza davanti ai suoi occhi.
Ma Roussel era forse l’uomo in fuga dalla realtà verso un mondo di pura immaginazione? In effetti, ciò che di Roussel affascinava Duchamp era l’immaginazione delirante che poteva scaturire all’infinito partendo da una semplice frase, come successivamente Roussel illustrerà in Comment jai écrit certains de mes livres[17], testo apparso nel 1935 come ‘libretto di istruzioni’ sulla scrittura adottata per la composizione di Impressions dAfrique e di Locus solus.
Tuttavia Roussel non sarà il solo a figurare nell’ipotetica biblioteca ideale di Marcel Duchamp[18]. Accanto a Roussel troviamo infatti Jean-Pierre Brisset, la cui aberrante Grammatica logica[19] dimostra una grande capacità di condurre un’analisi filologica del linguaggio attraverso un’incredibile rete di giochi di parole che, in definitiva, connoterà sia la produzione delle Note delle Bôites[20] duchampiane che la produzione ‘letteraria’ di Marcel-Rrose Sélavy[21]. Ciò che interessa Marcel Duchamp è dunque il lato ‘poetico’ delle parole[22], quello che, per la sua natura eminentemente indicale, rimanda al di là del tempo e dello spazio «verso una radura»[23]. Ma che cos’è questa ‘radura’, questo luogo in cui l’artista francese cerca di individuare una dimensione ‘altra’ che, oltre a rendere la vita più sopportabile e più ricca, conduce lo spettatore a intravedere uno spazio in cui è solo l’idea a regnare? Si pensi, in questo senso, a come Duchamp perviene alla realizzazione dei suoi primi readymades e ci si chieda anche perché e come, al di là delle connotazioni oggettive, un readymades si carica di quel ‘coefficiente artistico’[24] che ne fa un’opera d’arte.
L’intervento dell’artista sembra, al primo sguardo, del tutto irrilevante se analizzato sotto l’aspetto operativo, consistendo semplicemente in una ‘scelta’ nell’individuazione concettuale di una realtà già materializzata che basta semplicemente indicare affinché prenda a vivere in una dimensione ‘altra’. E l’oggetto scelto, fino a quel momento identico a mille altri, comincia in tal modo, grazie ad un semplice gesto (la scelta dell’artista), ad inserirsi in una sfera ideale sganciata radicalmente dal mondo inerte e sprovvisto di significato delle cose.
Analizzando brevemente il processo che fa di un oggetto estratto dal mondo quotidiano un’opera d’arte, è evidente che il passaggio dalla dimensione ordinaria a quella ‘artistica’ è un processo che avviene piuttosto rapidamente ma che denota quella differenza minima che Duchamp chiama ‘inframince[25]. Tuttavia questo passaggio di natura più mentale che fisica non può avvenire senza l’intervento interpretativo dello spettatore. E’ dunque lo spettatore a fare l’opera[26], aggiungendo il proprio contributo al processo creativo; ecco perché è grazie all’osservatore che un orinatoio qualsiasi si trasforma, per inframince, nell’ Orinoir/Fountain di Marcel Duchamp. Infatti, i readymades in se stessi non sono arte, senza lo spettatore non esisterebbero come oggetti d’arte ma resterebbero ancorati alla funzione per cui sono stati fabbricati quali oggetti industriali. Ma, come affermerà in seguito Duchamp, nella mente dello spettatore agisce potente l’inframince, che «…putting art in the service of the mind, but also putting the mind in the service of Duchamp’s art [!]»[27].
Il concetto di inframince era stato esemplificato in alcune Note di Marcel Duchamp, quelle raccolte postume da Paul Matisse e pubblicate nel 1980 con il patrocinio del Centre Pompidou[28]. Secondo queste Note l’inframince denota uno spessore, una separazione, una differenza, un intervallo tra due cose ma generalmente poco percepibile. Nel 1945, infatti, alla domanda di Denis de Rougemont sull’inframince, Marcel Duchamp rispose: «Quando il fumo del tabacco ha anche l’odore della bocca che lo esala, i due odori si sposano per inframince (…). Non è una misura precisa da laboratorio. Il rumore o la musica prodotti da un pantalone di velluto a coste (…), quando si respira, è dell’ordine dell’inframince (…). Mi ha tenuto molto occupato negli ultimi dieci anni. Credo che attraverso l’inframince si possa passare dalla seconda alla terza dimensione»[29].
Hector Obalk, citando nella conclusione una Nota postuma di Duchamp, ha tentato recentemente una classificazione schematica del concetto di inframince: «En premier l’inframince signifie ‘très, très, très légèrement’, ce pourrait être un dixième de millimètre, le même de la minceur des papiers. Mais à ce niveau, le concept signifie ‘infinitésimal’, ce n’est pas nouveau ni intéressant. En deuxième, l’inframince caractérise n’importe quelle différence que vous imaginez facilement mais n’existe pas, comme l’épaisseur d’une ombre: l’ombre n’a aucune épaisseur, pas même à la précision d’un Angstroem. En troisième, l’inframince qualifie une distance ou une différence que vous ne pouvez pas percevoir, mais cela que vous pouvez seulement imaginer. Le meilleur exemple est la  séparation infra mince entre mont le bruit de détonation dun fusil (très proche) et la marque de lapparition de la marque de la balle sur la cible»[30].
Quindi l’inframince è qualcosa che sta nella mente, cioè è un operatore concettuale che di fronte ad un readymade di Marcel Duchamp porta a pensare l’oggetto che vediamo come ad un’opera d’arte.
Ma allora è possibile considerare di natura inframince anche lo sguardo della ragazza svizzera che nella mente dello scultore Alberto Giacometti ha potuto ispirare il suo The Invisible Object (1935), come ha acutamente rilevato il critico d’arte Rosalind Krauss[31]. Scarnificando la forma è dunque proprio lo sguardo dell’adolescente rimasto impresso nella mente dell’artista che alla fine emerge come operatore inframince e che fa sì che la pietra o il metallo scolpiti diventino creazione artistica. Infatti, mentre Giacometti crea ‘involontariamente’ i suoi modelli scarnificati protesi verso l’alto, fantasmi di un’esistenza o interpreti di una teorica forma di sopravvivenza, gli uomini e le donne che Giacometti scolpisce sono, come le opere di Marcel Duchamp, più una costruzione logico-mentale che visiva. Quella dell’artista è, dunque, una percezione ‘poetica’ della vita, perché tutto ciò che capita e accade sotto i nostri occhi ‘sta passando’, è in transito, e lo spazio che si interpone tra noi e il mondo che scrutiamo è in continuo mutamento. Siamo dunque di fronte all’opera d’arte che si manifesta come ‘arresto momentaneo’ del fluire del tempo, cioè un ‘ritardo’ in cui soltanto, seguendo ora quanto suggerito da Duchamp in una nota della Scatola Verde[32], è possibile intravedere, inframince, la fuggevole realtà.
In antitesi a quanto promuovevano i futuristi[33], ecco già in nuce la critica alla società delle macchine, intrisa di velocità e di iniziativa industriale in cui l’umanità e l’esistenza degli uomini va riducendosi sempre più ad una larva. Ciò che viene realizzato da Giacometti dunque è proprio questo: fare arte come ‘residuo’, cancellazione di ogni orpello, tentativo di arrivare all’esistente e rappresentarlo in forme irriducibili che dall’informe, per citare un termine caro a Georges Bataille[34], resistono ed emergono alla luce della coscienza.
L’inframince, o infrasottile, principio specificamente duchampiano di una ‘poetica del misurare’, diviene pertanto, in Duchamp e non solo, una pratica che conduce all’apparente azzeramento della forma, una specie di anestesia estetica oltre la quale ora si esperisce l’arte sotto forma di pensiero, minima gestualità e minima operatività: si pensi, in questo senso, ai readymades, ma anche ad opere come In the Manner of Delvaux (1942) o With my Tongue in my Cheek (1959), in cui il passaggio tra rappresentazione grafica (il disegno tracciato sulla carta) e realizzazione materica (il calco di parte del viso di Duchamp stesso) dello stesso soggetto è determinato da una semplice linea di demarcazione, un limen oltrepassato il quale si passa inframince da una dimensione ad un’altra.
Ma, riferendosi al concetto di inframince, si provi ora a formulare un’ulteriore interpretazione del Grande Vetro. Se ‘Retard en Verre’ significa infatti ‘Repos instantané’[35], ciò che appare alla vista dello spettatore non può che essere l’immagine inframince che si interpone tra due momenti in successione, ossia il passaggio (il limen) tra ciò che è stato e ciò che sarà. Ciò che la sposa del Grande Vetro è stata è probabilmente Dulcinea (1911), la donna che Duchamp aveva intravisto per caso in strada e riprodotto in una mise à nu in cinque sequenze successive e, in ogni caso, in uno spazio rigorosamente bidimensionale. Ciò che la sposa sarà è invece la donna-idea che appare, distesa, in Étant donnés: 1° la chute d'eau / 2° le gaz d'éclairage (1946-1966), cioè una ‘specie di donna’[36] immersa in uno spazio quadridimensionale, dove anche il trascorrere del tempo è ben visibile e udibile grazie allo scorrere dell’acqua della sorgente e al bec Auer che illumina, con un’ondulante e flebile fiamma, la scena: dati (donnés) che, ben presenti anche nel Grande Vetro, all’epoca rimanevano ancora invisibili (dans l’obsurité)[37]. Appare dunque evidente che quanto Duchamp ‘rappresenta’ nella sposa del Grande Vetro non è altro che la sposa tridimensionale, cioè l’‘apparence allégorique’[38] (o l’idea in potenza) che, in una ‘exposition extra rapide’[39], rinvia inframince ad un altro spazio, quello quadridimensionale, che non può essere che lo spazio delle idee, quello che poi emerge in tutta evidenza in Étant donné.







[1] Pubblicata in 300 esemplari, suo fine specifico, secondo le parole dello stesso Duchamp, era quello di «riunire in un album, come il catalogo di Saint-Etienne, i calcoli matematici e le riflessioni, senza alcun rapporto fra loro (…). Volevo che quest’album andasse insieme al Vetro e che si potesse consultare per vedere il Vetro perché, secondo me, quest’ultimo non andava visto nel senso estetico della parola. Era necessario consultare il libro e vederli insieme. La congiunzione delle due cose faceva sparire completamente l’aspetto retinico, che io non amo affatto»; cfr. M. Duchamp, Ingénieur du temps perdu, Pierre Belfond, Paris 1977; trad. it. Ingegnere del tempo perduto. Conversazione con Pierre Cabanne, a cura di W. Marchetti, Multhipla Ed., Milano 1979, p. 59.
Avvertenza: i riferimenti alle Note della Scatola Verde sono generalmente indicati con l’incipit di ognuna di esse e in lingua originale. La fonte bibliografica delle Note è sempre M. Duchamp, Duchamp du signe, écrits réunis et présentés par M. Sanouillet, Flammarion, Paris 1975, mentre le riproduzioni a stampa sono quelle de La Bôite Verte in dotazione alla Tate Gallery di Londra nella riproduzione Typo/Topography realizzata nel 1960 da Richard Hamilton sotto la direzione di Marcel  Duchamp [consultabile all’indirizzo internet
[2] A. Breton, Le Phare de la Mariée, in “Le Minotaure”, n. 6, Paris déc. 1934; ripubblicato con il titolo Marcel Duchamp. Le phare de la Mariée, in Le Surréalisme et la peinture, Gallimard, Paris 1979; tr. it. Il Surrealismo e la pittura, Marchi, Firenze 1966, pp. 85-99.
[3] Ibidem, p. 90.
[4] Termine specificamente duchampiano, denota l’intercambiabilità e la complementarietà, nell’opera duchampiana, tra ciò che comunica l’immagine e ciò che esprime la parola; cfr., in tal senso, le Note Poids à trous e Parties à regarder en louchant
[5] Cfr. S. Mallarmé, Un colpo di dadi non abolirà mai il caso (1897), in Poesie e prose, a cura di V. Ramacciotti, Garzanti, Milano 1977, pp. 399-423. Poeta molto apprezzato da Duchamp per la capacità di svuotare di senso le parole e farle ‘risuonare’ con echi e significati sempre diversi, ne subì più direttamente l’influenza nella concezione che in seguito Duchamp svilupperà riguardo l’hazard, il caso. Per Octavio Paz, infatti, «La obra gemela del ‘Gran Vidrio’ es ‘Un coup de dés’», cfr. O. Paz, Marcel Duchamp o el castillo de la pureza, Era, Mexico 1968; tr. it. Il Castello della purezza, Studio Tesi, Roma 1990, p. 50. A proposito di Mallarmé, Duchamp stesso affermò: «L’arte moderna dovrebbe volgere nella direzione tracciata da Mallarmé: per un’espressione intellettuale e non meramente animale», cfr. M. Duchamp, Ingénieur du temps perdu, cit. 37.
[6] Cfr. A. Gervais, Un Chapeau à le livre de J. Suquet, Le Grand Verre: Visite Guidée, L’Echoppe, Paris 1992 [in http://www.toutfait.com/issues/issue_1/Articles/largeglassFrench.html].
[7] Ibidem.
[8] E’ possibile pensare, in tal senso, che nel riunire le Note della Scatola Verde Duchamp abbia voluto che queste restassero sciolte e libere di dar luogo, nei diversi accostamenti possibili, a sempre nuove reazioni ‘chimiche’, in cui l’hazard diviene l’unico ‘principio regolatore’? In effetti, quando si consultano i testi che riproducono in ordine tematico le Note (ad esempio, il citato Duchamp du signe curato da Michel Sanouillet), si perde molto delle possibilità immaginative e semiotiche che potrebbero scaturire se si consultassero le Note stesse accostandole tra loro con combinazioni sempre diverse. Magia del linguaggio duchampiano, esemplificato già nelle prime due Note congiunte Préface. Étant donnés… e Avvertissement. Étant donnés (dans l’obsurité), in cui si legge come l’hazard sia la regola e il signe de la concordance la relazione tra «cet Repos (capable de touse les excentricités innombrables)» e «un choix de Possibilités»; cfr. M. Duchamp, Duchamp du signe, cit., pp. 36-37.
[9] M. Duchamp, Declarations to James Johnson Sweeney, in “The Bulletin of the Museum of Modern Art”, vol. XIII, nn. 4-5, New York 1946; tr. it. Dichiarazioni raccolte da James Johnson Sweeney, in Marcel Duchamp, a cura di E. Grazioli, in “Riga”, n. 5, Marcos y Marcos, Milano 1993, pp. 21-22.
[10] Ibidem, p. 22.
[11] Cfr. M. Duchamp, Ingegnere del tempo perduto, cit., p. 41.
[12] Alle Dimanches e ad altre opere di Laforgue rimandano alcuni disegni di Duchamp eseguiti intorno agli anni 1908-09.
[13] Per tutte le opere qui citate cfr. J. Laforgue, Poesie e Prose, a cura di I. Margoni, Mondatori, Milano 1998.
[14] Certamente, però, pensando al Nu descendant un escalier, non si può non ricordare l’Igitur mallarméano che, appena pochi anni prima, aveva sceso le scale per raggiungere la cripta dei suoi antenati, una discesa in una zona di silenzio in cui lo spirito solitario affronterà l’assoluto e la sua maschera, il caso; cfr. O. Paz, Apparenza nuda, cit., p. 18.
[15] M. Duchamp, Ingegnere del tempo perduto, cit., p. 40.
[16] Cfr. le tavole ad olio dipinte a Monaco nel 1912, la Mariée e Le passage de la vierge à la mariée, che furono prodromiche al Grande Vetro.
[17] Cfr. R. Roussel, Comment j’ai écrit certains de mes livres, J.-J. Pauvert, Paris 1935 [tr. it. in Locus solus, a cura di P. Dècina Lombardi, Einaudi, Torino 1975, pp. 264-285].
[18] Cfr. M. Duchamp, Dichiarazioni raccolte da James Johnson Sweeney, in Marcel Duchamp, a cura di E. Grazioli, cit., p. 22; M. Décimo, La bibliothèque de Marcel Duchamp, peut-être, Les Presses du Réel, Dijon 2002.
[19] Cfr. J.-P. Brisset, La Grammaire logique, ou théorie d’une nouvelle analyse mathématique…, Editions Ernest Leroux, Paris 1883, in Œuvres complètes, édité par Marc Decimo, Les Presses du Réel, Dijon 2001.
[20] Ad esempio, in una nota pubblicata postuma nel 1980, risulta chiaro il riferimento alla “grande legge o chiave della parola”, il postulato elementare formulato da Brisset ed esemplificato in una serie sonora (cfr. Nota Fossettes d’aisances in M. Duchamp, Notes, notes inédites réunies et présentées par Paul Matisse et Pontus Hulten, Centre Georges Pompidou, Paris 1980, con l’aforisma Les dents, la bouche di Brisset, riportato da Michel Sanouillet in M. Duchamp, Mercante del segno, cit., p. 125).
[21] Cfr. Rrose Sélavy, oculisme de précision, poils et coups de pied en tous genres, Guy Lévis-Mano, Paris 1939.
[22] Cfr. M. Duchamp, Ingegnere del tempo perduto, cit., p. 56.
[23] Cfr. M. Duchamp, Il processo creativo, in Marcel Duchamp, a cura di Elio Grazioli, cit., p. 25.
[24] Ibidem.
[25] Cfr. le diverse Note raccolte postume in M. Duchamp, Notes, notes inédites réunies et présentées par Paul Matisse, cit.
[26] Da cui il detto duchampiano divenuto ormai famoso «Sont le regardeurs que font les tableaux», cfr. Marcel Duchamp, vite, entrevue avec Jean Schuster, in “Le Surréalisme même”, n. 2, Paris printemps 1957.
[27] J.D. Russell, Marcel Duchamp’s Readymades: Walking on Infrathin Ice, 2003 [http://www.dada-companion.com/duchamp/archive/duchamp_walking_on_infrathin_ice.pdf ].
[28] Cfr. le Note Semblablité. Similarité, Quand le fumée, Séparation infra mince, Séparation infra-mince, La différence (dimensionnelle) entre e  Acheter ou prendre des tableaux raccolte postume in M. Duchamp, Notes, notes inédites réunies et présentées par Paul Matisse, cit.
[29] D. de Rougemont, Marcel Duchamp come se niente fosse, in Marcel Duchamp, a cura di E. Grazioli, cit., p. 73, cfr. Nota Quand le fumée in M. Duchamp, Notes, cit. [il corsivo è nostro].
[30] H. Obalk, The Unfindable Readymade (1996), in “Tout-fait. The Marcel Duchamp Studies Online Journal”,  vol. 1, issue 2, Articles, may 2000 [http://www.toutfait.com/issues/issue_2/Articles/obalk.html]. Nella conclusione viene citata la Nota Séparation infra mince in M. Duchamp, Notes, cit.
[31] Rosalind Krauss vede, infatti, in Giacometti il fondatore di quel nuovo paradigma che altera profondamente i parametri della scultura, operando un ripiegamento dell’opera nello spazio fino allora occupato dal semplice piedistallo. Per le conseguenze di questo importante passaggio cfr. R. Krauss, No More Play, in The Originality of the Avant-Garde and Other Modernist Myths, MIT Press, Cambridge (MA) 1986, dove già si avverte la conclusione kraussiana sull’arte ‘celibe’, ossia quel tipo d’arte che dall’alterità, dall’informe, dal declassamento emerge grazie ad un processo di ‘sfocatura categoriale’, che non è affatto imprecisione o vaghezza di definizioni, ma più precisamente una sfocatura che implica l’infrangersi di molte barriere (o ‘categorie’) dando vita così quell’arte ‘celibe’ che, con molto anticipo, Marcel Duchamp aveva avviato all’inizio del secolo (cfr. in tal senso R. Krauss, Bachelors, MIT Press, Cambridge (MA) 2000 [tr. it. Celibi, Ed. Codice, 2004] e Y.-A. Bois, R. Krauss, L'Informe. Mode d'Emploi, Centre Georges Pompidou, Paris 1996 [tr. it. L'informe. Istruzioni per l’uso, Bruno Mondatori, Milano 2003].
[32] Cfr. Nota Sorte de sous-titre. Retard en Verre, in M. Duchamp, Duchamp du signe, cit., p. 34.
[33] “Un automobile ruggente (…), è più bello della Vittoria di Samotracia” cfr. F.T. Marinetti, Fondation et Manifeste du futurism, “Figaro”, Paris 20 feb 1909, in M. De Micheli, Le avanguardie artistiche del Novecento, Feltrinelli, Milano 1981, p. 368.
[34] Cfr. G. Bataille, voce Informe, in “Documents”, vol. 1, Paris 1929, p. 382; cfr. anche L’art primitif, in “Documents”, vol. 2, n. 7, Paris 1930, pp. 389-397 [ora in Œuvres Complètes, Gallimard, Paris 1970, pp. 247-254].
[35] Cfr. Nota Sorte de sous-titre. Retard en Verre, in M. Duchamp, Duchamp du signe, cit., p. 34.
[36] Concettualmente ben diversa da quella ritratta in L’origine du Monde (1866) da Gustav Courbet, iniziatore, a detta di Duchamp, della pittura ‘retinica’.
[37] Cfr. Nota Avvertissement. Étant donnés (dans l’obsurité), in M. Duchamp, Duchamp du signe, cit., p. 37.
[38] Ibidem.
[39] Ibidem.